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14 novembre 2011 - 17 Cheshwan 5772
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rav Jonathan saks Adolfo
Locci
rabbino capo
di Padova


“Az yashir Moshè - Allora cantò Moshè...” (Shemot 15:1).“Disse Moshè: con la parola “Az” ho peccato dicendo (Shemot 5:23) “umeAz bati el Par’ò ledabber bishmekhà herà la’am hazè vehazel lo hizalta et ‘ammekhà – da quando sono andato dal Faraone a parlare a Tuo Nome, ciò ha causato “male” a questo popolo e Tu non arrecasti salvezza al Tuo popolo” e con la stessa Ti loderò (Midrash Shemot Rabbà 23:3). All’inizio della sua missione Moshè disse che il Signore causò del male, provocando un aumento delle sofferenze, a quel popolo che avrebbe dovuto liberare. Per questo, il Signore gli fece conoscere il Suo Nome, il Tetragramma, simbolo della misericordia divina, che ai Patriarchi non fece conoscere. Questa riposta di D-o, però, è stata un rimprovero per Moshè perché sottolinea la colpa commessa da Moshè con quella frase: a differenza dei Patriarchi, la lontananza della realizzazione della promessa divina, provocò in lui una lamentela verso il Signore e l’espressione di un dubbio riguardo l’attributo della misericordia divina. La cantica del mare, poesia simbolo della riconoscenza per la liberazione ricevuta, è iniziata da Moshè con la stessa parola con la quale - all’inizio – espresse una lamentela che non avrebbe dovuto fare. Moshè ci insegna che mai dobbiamo dubitare che Kol ma de’avid Rachamanà, letav ‘avid – tutto ciò che D-o fa, è solo per il “bene”.

Daniel
Haviv, alchimista


   
anna foa
Nell'incontro fra i due fratelli (Gen.33,9) dice Esaù al fratello: "Yesh li rav" (io possiedo molto) e Giacobbe gli risponde fra l'altro: "Yesh li col" (io possiedo tutto). La Torah ci mostra qui la differenza fra i due fratelli: entrambi possiedono molta ricchezza materiale, fatta soprattutto di bestiame, ma Esaù si ferma lì, mentre Giacobbe afferma di avere tutto, cioè anche una ricchezza spirituale, non misurabile e totale, che completa i suoi averi. Giacobbe non dice di avere poco o molto, ma di avere tutto, tutto quello di cui una persona ha bisogno.

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La sposa siriana, una storia di confine
Si sono conosciuti nel 2001 tra banchi e aule dell’Università di Damasco. Lui, 20enne, timido e un po’ imbranato. Lei, prossima ai 18, sicuramente più estroversa e con fama diffusa di heartbreaker. Entrambi drusi, diversi nel carattere e nelle esperienze di coppia ma accomunati dalla medesima matrice culturale, sociale e religiosa. La freccia di Cupido fa il suo dovere centrando in pieno il bersaglio tanto che gli amici immediatamente profetizzano la nascita, di lì a poco, di un consorzio indissolubile. Un legame per l’eternità, nella buona e nella cattiva sorte, che è stato finalmente affermato dai due sull’altare. Ma quante sofferenze per portare avanti la battaglia degli affetti, per vivere fianco a fianco gioie e difficoltà di una quotidianità condivisa. A contrastare i piani di sposalizio non sono stati però conoscenti accecati dalla gelosia o tendenti al pettegolezzo, crisi di coppia del settimo anno, tradimenti notturni. L’ostacolo è stato ben più arduo da superare. Un ostacolo chiamato precarietà dell’area mediorientale e in cui molti continuano a sbattere contro la testa ogni giorno. Facciamo un po' d'ordine: lui, Munjed, una volta completati gli studi torna tra le alture del Golan, regione settentrionale d’Israele tradizionalmente abitata dalla comunità drusa. Il rientro a casa segna il distacco da Mayada, che rimane a vivere da mamma e papà nel natio villaggio siriano. Una manciata di chilometri in linea d’aria ma sembra un’eternità, un macigno per la loro relazione: tra Siria e Israele, salvo rarissime eccezioni, i confini risultano infatti inagibili in un senso e nell’altro. Poche, pochissime le strade che è possibile percorrere per aprirsi un varco nel labirinto di check point, militari e filo spinato: tra queste il permesso universitario rilasciato dal governo siriano ai soli richiedenti di etnia drusa (agevolazione di cui lo stesso Munjed aveva beneficiato per i suoi studi) oppure la richiesta di passare dall’altra parte della barricata in ragione di “evidenti motivi umanitari”. In questo senso tra le opzioni accettate, comunque a fatica, le nozze tra cittadini drusi. E ciò in virtù dell’elevata percentuale di unioni tra correligionari (le uniche contemplate dal sistema legislativo siriano) che si verificano all’interno di questa plurisecolare e affascinante comunità. Mayada e Munjed, protagonisti di un lungo e sofferto percorso di avvicinamento alla meta, non hanno mai avuto dubbi: questo matrimonio s’ha da fare.
Mayada la sposa siriana, quindi, parafrasando un celebre film di Eran Riklis (anche se nella narrazione del regista israeliano Mona, la protagonista, compie il percorso in direzione opposta: dal Golan alle braccia di un attore siriano). Ma anche Mayada la donna coraggiosa che in nome dell’amore lascia alle sue spalle, forse per sempre, il calore di familiari e amici. Perché il dolore più intenso, per le Syrian Brides (ad oggi si è arrivati a contarne alcune decine), è proprio questo. Un crudele baratto dei sentimenti: perché sei libera, puoi sposarti, ma sappi che non si torna indietro. O di qua o di là. Da noi o da loro. “Sono stati anni difficili e frustranti. Oggi io e mio marito coroniamo un sogno, anche se il prezzo da pagare è molto alto” spiega Mayada al reporter del Jerusalem Report, tra i primi giornalisti ad incontrarla nella terra di nessuno posta tra i due confini. Pochi istanti e la ragazza, oggi 27enne, avrà l’anello al dito. Il matrimonio - lei in bianco tradizionale, lui con giacca nera e cravatta - si celebra infatti in quella insolita cornice. È l’unica occasione, la più lieta e allo stesso tempo la più sofferta, che i parenti degli sposi possono trascorrere assieme ai neo congiunti. Un paio di ore, anche qualcosa di meno, tra sorrisi e lacrime. Conclusa la cerimonia si torna a casa. Gli sposi salutano nel pianto. È un matrimonio, è il giorno più bello, ma fa anche tanto male.

Pagine Ebraiche, febbraio 2012

pilpul
In cornice - La collezione di Scukin
daniele liberanomeÈ difficile essere guardare verso il futuro e allo stesso tempo rimanere molto legati al passato. Un problema che balza all'occhio osservando la collezione di Sergey Scukin, mercante russo di fine Ottocento, e il modo in cui la sistemò nel suo palazzo di Mosca. Scukin, arrivato a Parigi, fece incetta di opere prima degli impressionisti e poi di Matisse e di Picasso, creando una collezione assolutamente innovativa per la Russia del tempo. Alcune di quelle opere, sono in mostra al Brera di Milano; sono tutte imperdibili con alcuni picchi assoluti come le più belle “Ninfee” di Monet che mi ricordi, o un Van Gogh (“La ronda dei carcerati”), e un Picasso cubista (“Ritratto di Vollard”). Ma il curatore ha appeso anche alcune fotografie di palazzo Scukin dei tempi d'oro. Era un edificio tipico della Russia ottocentesca, tutto grandi ambienti anonimi, stucchi neoclassici, mobilio da tardo Impero francese. Scukin l'aveva voluto perché amava il suo paese e quella moda, ma era quanto di più lontano si possa immaginare dai gusti semplici e campagnoli degli impressionisti. In quegli stanzoni sfarzosi, Scukin sistemò le tele in un modo tipicamente sette-ottocentesco, come se non fossero dei Monet o dei Picasso ma dei Tiepolo o dei Tiziano. Su ogni muro definì una fascia alta 2-3 metri, di cui ogni centimetro andava riempito con quadri, per cui appendeva vicino opere di dimensioni e di soggetti molto diversi. Ma i quadri impressionisti e anche quelli successivi, vanno osservati a una distanza ben definita, che varia da un caso all'altro. Per godersi i Monet di Scukin, bisognava insomma spostarsi in continuazione avanti e indietro nei suoi stanzoni per trovare il punto giusto per vedere ciascun quadro, e così facendo ci si rovinava la visuale di quello vicino. Scukin voleva fare l'innovativo ma anche il benpensante russo, l'uomo delle avanguardie del Novecento ma anche il fedele servitore di un impero vecchio di centinaia di anni. Il risultato: un disastro artistico.

Daniele Liberanome, critico d'arte

Tea for two - A lezione con gli ebrei italiani
rachel silveraIn una piccola aula immersa nel sole inizia un viaggio particolare, che non conosce limiti di tempo o di spazio. Una macchina del tempo senza Cecchi Paone o un salto oltre i limiti delle lancette senza lo scienziato pazzo amico di Michael J. Fox. La lezione della professoressa Marina Beer di Letteratura ebraica italiana, un corso previsto per il Diploma Universitario triennale in Cultura Ebraica, sta per iniziare. Due ore strappate all'incedere un po' indolente che caratterizza il primo pomeriggio. Due ore settimanali per scoprire, parafrasando Momigliano, gli ebrei d'Italia. I grandi letterati che hanno animato  il prolifico ambiente dei salotti dell'intellighenzia tra '800 e '900. E la scansione non è data solo da cesure temporali ma anche da una geografia culturale che dai tempi di Dionisotti ci mostra la diversificazione da zona a zona. Prendiamo ad esempio il Piemonte che vede una presenza ebraica dovuta alla temporanea cattività avignonese del papato nel '300 e che parteciperà al potere dei Savoia e al sogno risorgimentale dell'Unità. Da qui si dipana l'appassionata spiegazione e la presentazione di alcuni celebri personaggi ebrei. Un po' come nell'ultimo film di Woody Allen, Midnight in Paris, gli uomini prendono forma e consistenza. Sembra quasi di vederlo, il solitario Primo Levi seduto nel piccolo banco accanto, intento a scrivere Argon, il racconto che più di altri inquadra la comunità ebraica piemontese. Argon, un gas inerte che non lega con gli altri, ma che è indispensabile alla vita. E Levi, non solo una grande voce della memoria, non solo un grido silenzioso che squarcia il muro dell'indifferenza, non solo un grigio chimico. Ma il Levi narratore, il Primo Levi immaginifico che divide per capitoli il suo libro  "Il sistema periodico", intitolandoli con ciascun elemento della tavola periodica. Ma ecco che dalla porta della classe entra un nuovo personaggio, distinto e che ha tutta l'aria di essere un pozzo di scienza. Samuel David Luzzatto, grande Chacham  e grande italiano. Tra le azioni mitiche compiute, scrisse una lettera a Manzoni (diventato il difensore degli oppressi con l'ultima parte dei Promessi Sposi, "Storia della colonna infame") chiedendo di fare luce sul processo per il martirio di Simonino da Trento per cui furono condannati a morte alcuni ebrei. Una sorta di J'accuse all'italiana. Peccato che Manzoni non rispose mai e fece sapere indirettamente di non potersene occupare perché non aveva  materiale a sufficienza. Il profilo di Luzzatto viene poi realizzato con levità e garbo da un suo celebre parente: Umberto Saba. Un poeta che celebra un fortunato matrimonio tra la tradizione ebraica e quella italiana. Saba non nasconderà alcuni tratti tipicamente ebraici a differenza del suo concittadino Italo Svevo, che invece seminerà indizi come per una caccia al tesoro riservata ad un lettore particolarmente curioso. Il Luzzatto descritto da Saba è un brillante maestro di ebraismo che non disdegna letture secolari. Una metaforica uscita dal ghetto che lo renderà un personaggio carico di fascino. Nelle note apposte successivamente al racconto, Saba citerà anche il figlio di Luzzatto, Filosseno che intreccerà rapporti con Graziadio Isaia Ascoli (il celebre glottologo, che alla sua investitura a professore volle giurare sulla Bibbia ebraica) e Michelstaedter. Ma la galleria di ritratti dei grandi ebrei italiani non si può certo condensare in due ore. Nelle lezioni seguenti ci faranno compagnia Svevo, Bassani, Castelnuovo e tanti altri. Uomini da scoprire. Vicini a noi perché combattono per mantenere il difficile equilibrio dato dalla una doppia identità: italiana ed ebraica. Uomini che probabilmente si sarebbero inviperiti con il giornale Der Spiegel al centro dei dibattiti per la stizza rivolta verso gli italiani, ma che avrebbero lanciato uno sguardo di dissenso per il titolone del quotidiano il Giornale che faceva un ardito paragone tra Schettino e Auschwitz. In fondo non sempre serve una mezzanotte a Parigi per volare con la fantasia.

Rachel SIlvera, studentessa

Non c'è un «nasone» politicamente corretto
Se si applicasse il principio un po' barbaro del «non poteva non sapere», Moni Ovadia sarebbe condannato con una pena molto severa. Moni Ovadia che non sa che la raffigurazione mostrificante del naso adunco fa parte di una lunga e spregevole tradizione iconografica antisemita? Ma andiamo, è impossibile. Perciò se Moni Ovadia ha deciso di congratularsi con il vignettista di nome Vauro che aveva dileggiato con il naso adunco e una stella di Davide come segno identificatore un'ebrea italiana, Fiamma Nirenstein, «colpevole» solo di pensarla diversamente da Vauro e di aver scelto uno schieramento politico opposto a quello del vignettista, allora ne dobbiamo dedurre che Moni Ovadia si è distratto. O che è vittima di un oscuramento momentaneo della sua vigile coscienza. Oppure, ma davvero non vorremmo pensarlo, che ha scelto di transigere su una brutta storia di antisemitismo camuffato, di non vedere, accecato da una faziosità politica furente a sensibilità doppia: severo, severissimo con i nemici, indulgente, accomodante, per così dire omertoso con i suoi compagni di avventura politica. Se fosse vera l'ultima ipotesi, ma tremiamo alla sola idea che un raffinato intellettuale come Moni Ovadia possa cadere in un'ipocrisia così miserabile, dovremmo concludere che la battaglia contro la tentazione antisemita vada a corrente alternata. Inoltre Moni Ovadia sembra prigioniero di una forma acuta di paranoia politica. Dice che Vauro sarebbe vittima di un'occulta manovra di una Destra tentacolare e insidiosa. Ma omette di dire che il giornalista condannato da un tribunale italiano solo per aver rudemente criticato la vignetta dell'ebrea con il naso adunco, Peppino Caldarola, è un giornalista di sinistra, con un passato e un presente tutto interno alla tradizione della sinistra, e in particolare della sinistra cresciuta nel Partito comunista italiano. Ma l'accecamento politico è proprio questo: sorvola sul naso adunco e sul dileggio della stella di Davide quando è frutto di una vignetta disegnata da chi è politicamente vicino e si inventa, come i paranoici, un gigantesco complotto della Destra mondiale per colpire un povero disegnatore. No, non può essere malafede: sarebbe una delusione troppo grande per chi ha nutrito stima per Moni Ovadia. Diciamo che il doppio standard gli viene naturale. O patologico, come un tic che non si riesce a controllare. E poi si può sempre legittimamente cambiare idea. Come Gad Lerner, che scherza con quel discolaccio di Vauro per via del «nasone». Ma scherza solo ora, perché quando un topo da Radio Padania berciò sconcezze sul «nasone» di Lerner, quest'ultimo giustamente non scherzò e querelò chi aveva associato un ebreo a un «nasone». Certo, il «nasone» del leghista è antropologicamente inferiore al «nasone» del vignettista politicamente corretto. E quindi si capisce che Lerner applichi due pesi a due misure diverse. Mica i «nasoni» hanno tutti lo stesso peso.

Pierluigi Battista, Corriere della Sera, 6 febbraio 2012

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notizie flash   rassegna stampa
Israele - Nuove riserve di gas a nord di Haifa
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Gas naturale ad una profondità di 5.500 metri nel bacino offshore Tanin 1 a nord ovest dalle coste di Haifa, la scoperta è delle compagnie israeliane Delek e Noble Energy. L'ammontare del gas scoperto potrebbe sostituire l'analoga produzione del giacimento di Yam Tethys, operato dalle due compagnie ed in via di esaurimento. A seguito della scoperta, sono previsti ulteriori test al fine di esaminare le caratteristiche del pozzo. 
 


Non solo Shoah, Spiegelman
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Roberto Davide Papini, Giorno Carlino Nazione, 6 febbraio 2012


Israele, ferrovia alternativa al Canale di Suez
Giorno Carlino Nazione, 6 febbraio 2012






















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