Si
sono conosciuti nel 2001 tra banchi e aule dell’Università di Damasco.
Lui, 20enne, timido e un po’ imbranato. Lei, prossima ai 18,
sicuramente più estroversa e con fama diffusa di heartbreaker. Entrambi
drusi, diversi nel carattere e nelle esperienze di coppia ma accomunati
dalla medesima matrice culturale, sociale e religiosa. La freccia di
Cupido fa il suo dovere centrando in pieno il bersaglio tanto che gli
amici immediatamente profetizzano la nascita, di lì a poco, di un
consorzio indissolubile. Un legame per l’eternità, nella buona e nella
cattiva sorte, che è stato finalmente affermato dai due sull’altare. Ma
quante sofferenze per portare avanti la battaglia degli affetti, per
vivere fianco a fianco gioie e difficoltà di una quotidianità
condivisa. A contrastare i piani di sposalizio non sono stati però
conoscenti accecati dalla gelosia o tendenti al pettegolezzo, crisi di
coppia del settimo anno, tradimenti notturni. L’ostacolo è stato ben
più arduo da superare. Un ostacolo chiamato precarietà dell’area
mediorientale e in cui molti continuano a sbattere contro la testa ogni
giorno. Facciamo un po' d'ordine: lui, Munjed, una volta completati gli
studi torna tra le alture del Golan, regione settentrionale d’Israele
tradizionalmente abitata dalla comunità drusa. Il rientro a casa segna
il distacco da Mayada, che rimane a vivere da mamma e papà nel natio
villaggio siriano. Una manciata di chilometri in linea d’aria ma sembra
un’eternità, un macigno per la loro relazione: tra Siria e Israele,
salvo rarissime eccezioni, i confini risultano infatti inagibili in un
senso e nell’altro. Poche, pochissime le strade che è possibile
percorrere per aprirsi un varco nel labirinto di check point, militari
e filo spinato: tra queste il permesso universitario rilasciato dal
governo siriano ai soli richiedenti di etnia drusa (agevolazione di cui
lo stesso Munjed aveva beneficiato per i suoi studi) oppure la
richiesta di passare dall’altra parte della barricata in ragione di
“evidenti motivi umanitari”. In questo senso tra le opzioni accettate,
comunque a fatica, le nozze tra cittadini drusi. E ciò in virtù
dell’elevata percentuale di unioni tra correligionari (le uniche
contemplate dal sistema legislativo siriano) che si verificano
all’interno di questa plurisecolare e affascinante comunità. Mayada e
Munjed, protagonisti di un lungo e sofferto percorso di avvicinamento
alla meta, non hanno mai avuto dubbi: questo matrimonio s’ha da fare. Mayada
la sposa siriana, quindi, parafrasando un celebre film di Eran Riklis
(anche se nella narrazione del regista israeliano Mona, la
protagonista, compie il percorso in direzione opposta: dal Golan alle
braccia di un attore siriano). Ma anche Mayada la donna coraggiosa che
in nome dell’amore lascia alle sue spalle, forse per sempre, il calore
di familiari e amici. Perché il dolore più intenso, per le Syrian
Brides (ad oggi si è arrivati a contarne alcune decine), è proprio
questo. Un crudele baratto dei sentimenti: perché sei libera, puoi
sposarti, ma sappi che non si torna indietro. O di qua o di là. Da noi
o da loro. “Sono stati anni difficili e frustranti. Oggi io e mio
marito coroniamo un sogno, anche se il prezzo da pagare è molto alto”
spiega Mayada al reporter del Jerusalem Report, tra i primi giornalisti
ad incontrarla nella terra di nessuno posta tra i due confini. Pochi
istanti e la ragazza, oggi 27enne, avrà l’anello al dito. Il matrimonio
- lei in bianco tradizionale, lui con giacca nera e cravatta - si
celebra infatti in quella insolita cornice. È l’unica occasione, la più
lieta e allo stesso tempo la più sofferta, che i parenti degli sposi
possono trascorrere assieme ai neo congiunti. Un paio di ore, anche
qualcosa di meno, tra sorrisi e lacrime. Conclusa la cerimonia si torna
a casa. Gli sposi salutano nel pianto. È un matrimonio, è il giorno più
bello, ma fa anche tanto male.
Pagine Ebraiche, febbraio 2012
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In cornice - La collezione di Scukin |
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È
difficile essere guardare verso il futuro e allo stesso tempo rimanere
molto legati al passato. Un problema che balza all'occhio osservando la
collezione di Sergey Scukin, mercante russo di fine Ottocento, e il
modo in cui la sistemò nel suo palazzo di Mosca. Scukin, arrivato a
Parigi, fece incetta di opere prima degli impressionisti e poi di
Matisse e di Picasso, creando una collezione assolutamente innovativa
per la Russia del tempo. Alcune di quelle opere, sono in mostra al
Brera di Milano; sono tutte imperdibili con alcuni picchi assoluti come
le più belle “Ninfee” di Monet che mi ricordi, o un Van Gogh (“La ronda
dei carcerati”), e un Picasso cubista (“Ritratto di Vollard”). Ma il
curatore ha appeso anche alcune fotografie di palazzo Scukin dei tempi
d'oro. Era un edificio tipico della Russia ottocentesca, tutto grandi
ambienti anonimi, stucchi neoclassici, mobilio da tardo Impero
francese. Scukin l'aveva voluto perché amava il suo paese e quella
moda, ma era quanto di più lontano si possa immaginare dai gusti
semplici e campagnoli degli impressionisti. In quegli stanzoni
sfarzosi, Scukin sistemò le tele in un modo tipicamente
sette-ottocentesco, come se non fossero dei Monet o dei Picasso ma dei
Tiepolo o dei Tiziano. Su ogni muro definì una fascia alta 2-3 metri,
di cui ogni centimetro andava riempito con quadri, per cui appendeva
vicino opere di dimensioni e di soggetti molto diversi. Ma i quadri
impressionisti e anche quelli successivi, vanno osservati a una
distanza ben definita, che varia da un caso all'altro. Per godersi i
Monet di Scukin, bisognava insomma spostarsi in continuazione avanti e
indietro nei suoi stanzoni per trovare il punto giusto per vedere
ciascun quadro, e così facendo ci si rovinava la visuale di quello
vicino. Scukin voleva fare l'innovativo ma anche il benpensante russo,
l'uomo delle avanguardie del Novecento ma anche il fedele servitore di
un impero vecchio di centinaia di anni. Il risultato: un disastro
artistico.
Daniele Liberanome, critico d'arte
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Tea for two - A lezione con
gli ebrei italiani |
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In
una piccola aula immersa nel sole inizia un viaggio particolare, che
non conosce limiti di tempo o di spazio. Una macchina del tempo senza
Cecchi Paone o un salto oltre i limiti delle lancette senza lo
scienziato pazzo amico di Michael J. Fox. La lezione della
professoressa Marina Beer di Letteratura ebraica italiana, un corso
previsto per il Diploma Universitario triennale in Cultura Ebraica, sta
per iniziare. Due ore strappate all'incedere un po' indolente che
caratterizza il primo pomeriggio. Due ore settimanali per scoprire,
parafrasando Momigliano, gli ebrei d'Italia. I grandi letterati che
hanno animato il prolifico ambiente dei salotti
dell'intellighenzia tra '800 e '900. E la scansione non è data solo da
cesure temporali ma anche da una geografia culturale che dai tempi di
Dionisotti ci mostra la diversificazione da zona a zona. Prendiamo ad
esempio il Piemonte che vede una presenza ebraica dovuta alla
temporanea cattività avignonese del papato nel '300 e che parteciperà
al potere dei Savoia e al sogno risorgimentale dell'Unità. Da qui si
dipana l'appassionata spiegazione e la presentazione di alcuni celebri
personaggi ebrei. Un po' come nell'ultimo film di Woody Allen, Midnight
in Paris, gli uomini prendono forma e consistenza. Sembra quasi di
vederlo, il solitario Primo Levi seduto nel piccolo banco accanto,
intento a scrivere Argon, il racconto che più di altri inquadra la
comunità ebraica piemontese. Argon, un gas inerte che non lega con gli
altri, ma che è indispensabile alla vita. E Levi, non solo una grande
voce della memoria, non solo un grido silenzioso che squarcia il muro
dell'indifferenza, non solo un grigio chimico. Ma il Levi narratore, il
Primo Levi immaginifico che divide per capitoli il suo libro "Il
sistema periodico", intitolandoli con ciascun elemento della tavola
periodica. Ma ecco che dalla porta della classe entra un nuovo
personaggio, distinto e che ha tutta l'aria di essere un pozzo di
scienza. Samuel David Luzzatto, grande Chacham e grande
italiano. Tra le azioni mitiche compiute, scrisse una lettera a
Manzoni (diventato il difensore degli oppressi con l'ultima parte dei
Promessi Sposi, "Storia della colonna infame") chiedendo di fare luce
sul processo per il martirio di Simonino da Trento per cui furono
condannati a morte alcuni ebrei. Una sorta di J'accuse all'italiana.
Peccato che Manzoni non rispose mai e fece sapere indirettamente di non
potersene occupare perché non aveva materiale a sufficienza. Il
profilo di Luzzatto viene poi realizzato con levità e garbo da un suo
celebre parente: Umberto Saba. Un poeta che celebra un fortunato
matrimonio tra la tradizione ebraica e quella italiana. Saba non
nasconderà alcuni tratti tipicamente ebraici a differenza del suo
concittadino Italo Svevo, che invece seminerà indizi come per una
caccia al tesoro riservata ad un lettore particolarmente curioso. Il
Luzzatto descritto da Saba è un brillante maestro di ebraismo che non
disdegna letture secolari. Una metaforica uscita dal ghetto che lo
renderà un personaggio carico di fascino. Nelle note apposte
successivamente al racconto, Saba citerà anche il figlio di Luzzatto,
Filosseno che intreccerà rapporti con Graziadio Isaia Ascoli (il
celebre glottologo, che alla sua investitura a professore volle giurare
sulla Bibbia ebraica) e Michelstaedter. Ma la galleria di ritratti dei
grandi ebrei italiani non si può certo condensare in due ore. Nelle
lezioni seguenti ci faranno compagnia Svevo, Bassani, Castelnuovo e
tanti altri. Uomini da scoprire. Vicini a noi perché combattono per
mantenere il difficile equilibrio dato dalla una doppia identità:
italiana ed ebraica. Uomini che probabilmente si sarebbero inviperiti
con il giornale Der Spiegel al centro dei dibattiti per la stizza
rivolta verso gli italiani, ma che avrebbero lanciato uno sguardo di
dissenso per il titolone del quotidiano il Giornale che faceva un
ardito paragone tra Schettino e Auschwitz. In fondo non sempre serve
una mezzanotte a Parigi per volare con la fantasia.
Rachel SIlvera, studentessa
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Non c'è un «nasone» politicamente corretto |
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Se
si applicasse il principio un po' barbaro del «non poteva non sapere»,
Moni Ovadia sarebbe condannato con una pena molto severa. Moni Ovadia
che non sa che la raffigurazione mostrificante del naso adunco fa parte
di una lunga e spregevole tradizione iconografica antisemita? Ma
andiamo, è impossibile. Perciò se Moni Ovadia ha deciso di
congratularsi con il vignettista di nome Vauro che aveva dileggiato con
il naso adunco e una stella di Davide come segno identificatore
un'ebrea italiana, Fiamma Nirenstein, «colpevole» solo di pensarla
diversamente da Vauro e di aver scelto uno schieramento politico
opposto a quello del vignettista, allora ne dobbiamo dedurre che Moni
Ovadia si è distratto. O che è vittima di un oscuramento momentaneo
della sua vigile coscienza. Oppure, ma davvero non vorremmo pensarlo,
che ha scelto di transigere su una brutta storia di antisemitismo
camuffato, di non vedere, accecato da una faziosità politica furente a
sensibilità doppia: severo, severissimo con i nemici, indulgente,
accomodante, per così dire omertoso con i suoi compagni di avventura
politica. Se fosse vera l'ultima ipotesi, ma tremiamo alla sola idea
che un raffinato intellettuale come Moni Ovadia possa cadere in
un'ipocrisia così miserabile, dovremmo concludere che la battaglia
contro la tentazione antisemita vada a corrente alternata. Inoltre Moni
Ovadia sembra prigioniero di una forma acuta di paranoia politica. Dice
che Vauro sarebbe vittima di un'occulta manovra di una Destra
tentacolare e insidiosa. Ma omette di dire che il giornalista
condannato da un tribunale italiano solo per aver rudemente criticato
la vignetta dell'ebrea con il naso adunco, Peppino Caldarola, è un
giornalista di sinistra, con un passato e un presente tutto interno
alla tradizione della sinistra, e in particolare della sinistra
cresciuta nel Partito comunista italiano. Ma l'accecamento politico è
proprio questo: sorvola sul naso adunco e sul dileggio della stella di
Davide quando è frutto di una vignetta disegnata da chi è politicamente
vicino e si inventa, come i paranoici, un gigantesco complotto della
Destra mondiale per colpire un povero disegnatore. No, non può essere
malafede: sarebbe una delusione troppo grande per chi ha nutrito stima
per Moni Ovadia. Diciamo che il doppio standard gli viene naturale. O
patologico, come un tic che non si riesce a controllare. E poi si può
sempre legittimamente cambiare idea. Come Gad Lerner, che scherza con
quel discolaccio di Vauro per via del «nasone». Ma scherza solo ora,
perché quando un topo da Radio Padania berciò sconcezze sul «nasone» di
Lerner, quest'ultimo giustamente non scherzò e querelò chi aveva
associato un ebreo a un «nasone». Certo, il «nasone» del leghista è
antropologicamente inferiore al «nasone» del vignettista politicamente
corretto. E quindi si capisce che Lerner applichi due pesi a due misure
diverse. Mica i «nasoni» hanno tutti lo stesso peso.
Pierluigi Battista, Corriere della Sera, 6 febbraio 2012
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Israele - Nuove riserve di gas a nord di Haifa
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Gas
naturale ad una profondità di 5.500 metri nel bacino offshore Tanin 1 a
nord ovest dalle coste di Haifa, la scoperta è delle compagnie
israeliane Delek e Noble Energy. L'ammontare del gas scoperto potrebbe
sostituire l'analoga produzione del giacimento di Yam Tethys, operato
dalle due compagnie ed in via di esaurimento. A seguito della scoperta,
sono previsti ulteriori test al fine di esaminare le caratteristiche
del pozzo.
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Non solo Shoah, Spiegelman volta pagina
Roberto Davide Papini, Giorno Carlino Nazione, 6 febbraio 2012
Israele, ferrovia alternativa al Canale di Suez
Giorno Carlino Nazione, 6 febbraio 2012
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