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9 marzo
2012 - 15 Adar 5772
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Alfonso
Arbib,
rabbino capo
di Milano
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Nella
Meghillà assistiamo alla trasformazione del popolo ebraico da popolo
che sembra aver perso la propria identità (non c'è niente che
caratterizzi gli ebrei come tali all'inizio della Meghillà) a popolo
che la recupera a seguito del brusco risveglio causato dalla
persecuzione di Hamàn. Si possono individuare tre fasi di tale
recupero, due riportati esplicitamente nella Meghillà e una che il
Talmùd deduce da un versetto del testo. Il primo elemento che possiamo
rilevare è la preghiera comune dopo la rivelazione del decreto di
Hamàn, il secondo, che il Talmùd deduce dal versetto "hanno messo in
pratica e accettato gli ebrei", è la rinnovata accettazione della
Torah, il terzo che troviamo alla fine della Meghillà. Negli ultimi
versi della Meghillà, infatti, si parla dei giorni di Purìm che sono
giorni di banchetti, regali ai poveri e scambio di doni fra amici.
Queste che poi diventeranno le mitzvòt di Purìm possono rientrare nel
concetto di Ghemilùt Chassadìm - occuparsi cioè del bene degli altri.
Questi tre elementi richiamano un famoso passo del Trattato di Avòt che
dice che il mondo poggia su tre cose, la Torah, la Avodà cioè il
servizio divino e la Ghemilùt Chassadìm, gli ebrei cioè recuperano
tutti e tre gli elementi fondamentali dell'identità ebraica. Credo che
si possano dedurre da questo recupero due insegnamenti, il primo che il
recupero è possibile e che la perdita d'identità non è mai definitiva.
Il secondo, che per recuperare il proprio ebraismo, è necessario agire
su tutti gli elementi dell'identità ebraica senza scegliere. Un mio
Maestro, il professor Augusto Segre, diceva che essere ebrei significa
prendere l'ebraismo nel suo complesso e non scegliere da un vassoio di
pasticcini.
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Laura
Quercioli Mincer,
slavista
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Appena
finita la guerra, mentre ancora si sparava nelle città e nelle
campagne, per la Polonia presero a girare degli emissari dalla
Palestina, alla ricerca dei bambini ebrei sopravvissuti. A volte i
piccoli, soprattutto se bambine, avevano trovato delle famiglie in cui
erano beneaccetti o addirittura amati. Ma da queste famiglie dovevano
separarsi, dimenticare il polacco e ogni cosa appresa fino a quel
momento, restare orfani per una seconda volta, e prepararsi a partire
per “Eretz”. Una frammento di storia poco noto e spesso doloroso. Se ne
parla anche, fra l’altro, nell’ultimo straordinario romanzo di Nava
Semel “E il topo rise”.
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Qui Roma - I giovani
festeggiano Purim |
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Settecento
giovani da tutta Europa. A Roma per celebrare Purim, la ricorrenza più
gioiosa del calendario ebraico, ma anche per discutere sui temi
dell'identità ebraica e di Israele. Si chiama Purim on the rocks
ed è il grande raduno/incontro/party organizzato dall'European Center
for Jewish Studies (referente italiana Ylenia Tagliacozzo) nella
Capitale. Ad aprire quattro giorni che si annunciano di grande
intensità una festa che la scorsa notte ha visto la partecipazione di
numerosi ragazzi da tutta Italia. Oggi prenderanno il via alcune
iniziative in giro per la città, mentre in serata è prevista una grande
cena in comune di Shabbat. L'attesa sarà poi tutta per la notte di
sabato quando in un noto locale capitolino si svolgerà la seconda
celebrazione (rigorosamente in maschera) di Purim.
“Erano anni che Roma e l'Italia ebraica non vivevano un evento di
questa portata. Da parte nostra, come nuovo Consiglio Ugei in carica –
spiega il presidente dei giovani ebrei Daniele Regard – c'è l'orgoglio
di aver partecipato attivamente alla messa in moto di un macchina
organizzativa molto complessa. I risultati più che positivi di ieri ci
lasciano pensare che sarà difficile dimenticare questo appuntamento
all'insegna del divertimento ma anche di una comune riflessione
sull'identità ebraica. Se ce la faremo sarà anche grazie alla Comunità
ebraica di Roma, realtà che fa del calore e dell'accoglienza uno dei
suoi punti di forza e che si sta rivelando estremamente efficiente
anche dal punto di vista della messa in sicurezza delle location
coinvolte”.
Per i giovani ebrei italiani l'evento romano rappresenta un gustoso
antipasto in vista del tradizionale weekend di Purim che si svolgerà
quest'anno a Milano dal 23 al 25 marzo. In quell'occasione ci sarà
spazio come doveroso per i festeggiamenti ma anche per momenti più
'seri' come la presentazione del nuovo sito e del nuovo logo che
identificherà l'ente a partire dalla prossima primavera. "Un marzo
davvero ricco di possibilità", commenta Regard.
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Medinat Weimar,
semiseria utopia
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Un progetto che gioca sul
filo dell’ironia, del paradosso e dell’assenza di certezze. Ma guai a
farsene beffe perché l’idea di fondo è molto seria e sempre più
apprezzata come dimostra il crescente consenso che circonda Medinat
Weimar, il movimento politico per la creazione di uno Stato ebraico in
Turingia con la città di Weimar come capitale. In Germania sta
ottenendo grande visibilità, campeggia insistentemente sulle pagine dei
giornali e nel dibattito pubblico. Dall'inizio di gennaio dispone
inoltre di uno spazio all'interno del Museo ebraico di Berlino, uno dei
più conosciuti e visitati al mondo. Il manifesto politico del gruppo,
imperniato sui principi dell'antifascismo e dell'autodeterminazione, si
pone come obiettivo una battaglia politica su due fronti: convincere i
tedeschi a dare la Turingia agli ebrei e questi ultimi a fare ritorno
nella rinnovata terra di Germania per fondarvi il loro Stato. Alcuni
anni fa Mahmud Ahmadinejad ha proposto polemicamente che sia l'Europa a
concedere una parte del suo territorio per ospitare lo Stato ebraico.
“Se astratta dal contesto antisemita del discorso del presidente
iraniano – questa la controprovocazione del gruppo – l'idea può essere
interessante”. Tutto inizia nel 2008. L'artista israeliano Ronen
Eidelman presenta la sua tesi di laurea all'Accademia delle Belle Arti
di Weimar, un programma di studio nell'ambito dell'arte nello spazio
pubblico che prevedeva la creazione ex novo di un movimento politico
inteso appunto a fondare un nuovo Stato ebraico in Turingia.
L'inconsueta ricerca di un giovane laureando sul rapporto tra l'arte e
la comunicazione politica ha giorno per giorno acquisito dimensioni
inaspettate, mobilitato risorse, persone, energie, elaborato una
struttura ideologica articolata e rispettabile, conquistato pian piano
la curiosità del pubblico e l'attenzione di istituzioni culturali e
media. Si è insomma costituita in movimento.
Medinat Weimar si propone
come una via verso il superamento di molti gravi problemi del mondo, su
tutti tre: il conflitto mediorientale, il trauma del popolo ebraico e
il senso di colpa tedesco. Opportunità ad un tempo per i tedeschi, di
convivere con gli ebrei e dividere con loro il suolo che fu del terzo
Reich, chiudendo così definitivamente con il loro passato; e per gli
ebrei, o almeno molti di loro, di ritrovare le proprie radici, un tempo
estirpate da tutta l'Europa orientale.
La Turingia è il luogo adatto.
Se da una parte questa regione è testimone di un millennio di vita
ebraica, giacché le prime comunità vi si insediarono nel X secolo (a
Erfurt si può ancora ammirare una sinagoga risalente al XII secolo),
dall'altra ha una altrettanto lunga storia di antisemitismo, purtroppo
non conclusa. La Turingia infatti, già patria dell'antigiudaismo
luterano in età moderna, poi roccaforte del partito nazionalsocialista
ai suoi albori negli anni Venti, è oggi il centro geografico del
(crescente) fenomeno neonazista. Medinat Weimar vuole combattere non
solo l'antisemitismo ma anche il falso filosemitismo, ovvero quella
solidarietà pelosa nei confronti di ebrei e israeliani con cui molti
tedeschi benpensanti si puliscono la coscienza, o almeno la faccia.
Medinat Weimar persegue un'integrazione genuina e consapevole degli
ebrei nella società tedesca, senza pregiudizi né ipocrisie.
Eidelman ha
spiegato che Weimar “è un luogo dal forte valore simbolico per la
Germania , tra i maggiori centri della sua vita culturale e politica da
secoli (si pensi a Goethe, Schiller, alla Weimarer Republik, al
Bauhaus). È dunque il luogo giusto per il Tiqqun Deutschlands, la
riparazione o redenzione della Germania”. Aggiunge poi, a persuadere i
locali ancora scettici, una considerazione di ordine pratico.
“L'economia della Turingia – dice – è stagnante e la decrescita
demografica forte. I giovani emigrano in massa e mancano i flussi
migratori che coinvolgono invece altre zone della Germania. Una forte
immigrazione, quale deriverebbe dalla nascita di uno Stato ebraico,
risolverebbe molte questioni, non solo culturali”.
Ricordi, chi trova
il piano stravagante, che nella storia dell'idea di Stato ebraico non
mancano i precedenti. Il Piano Uganda, proposto dallo stesso Theodor
Herzl al sesto Congresso sionista nel 1903, fu per anni preso in seria
considerazione e una spedizione venne mandata in esplorazione del
territorio. In seguito furono inviate commissioni anche in Cirenaica,
in Angola e in Iraq.
Di qualche anno seguì il progetto Glaveston, che
prevedeva la creazione di insediamenti ebraici negli Stati Uniti
meridionali. Tra il 1907 e il 1914 9mila ebrei europei si trasferirono
in Texas.
Nel 1939 una proposta venne direttamente dal Ministero degli
Interni del governo Roosevelt: trasferire gli ebrei europei in Alaska.
In questo caso si trattava più di una soluzione d'emergenza per salvare
gli ebrei che dell'aspirazione a uno Stato nazionale, ma non mancò chi
si fece suggestionare dall'idea di una terra non di latte e miele ma di
ghiaccio e salmone.
Il piano Madagascar provenne invece da parte
nazista. I gerarchi hitleriani, in una fase ancora ‘moderata’ della
loro politica antisemita, vagliarono l'ipotesi di trasferire la
popolazione ebraica che ‘ammorbava’ l'Europa sull'isola dell'Oceano
indiano. Anche Stalin ebbe la sua idea di Stato ebraico, l'Oblast
autonomo di Birobidzan, ovvero la Sion sovietica. Nel disegno del
leader bolscevico ogni etnia che popolava l'Unione Sovietica avrebbe
avuto un territorio in cui amministrare autonomamente la nuova vita
socialista. Agli ebrei toccò l'inospitale Manciuria. Il risultato della
‘tenace opera di convincimento’ portata avanti dalla burocrazia
bolscevica si poté misurare verso fine degli anni Quaranta. Allora
vivevano a Birobidzan circa 30mila ebrei – naturalmente con loro
scuole, sinagoghe, istituzioni. Si stampava perfino un giornale in
yiddish. Con la liberalizzazione dell'emigrazione negli anni Settanta
il numero degli ebrei manciuriani calò vistosamente, ma della vivace
comunità rimangono ancora oggi tracce. A differenza di tutti quelli che
l'hanno preceduto, il piano di Eidelman è pensato e agito con uno Stato
d'Israele già esistente. Come si pone nei suoi confronti? Tra i
principi fondanti di Medinat Weimar è detto chiaro e tondo: “Non
vogliamo sostituire Israele, solo dargli un fratello minore europeo”. È
postsionismo? “No – risponde l'ideologo di Eretz Thüringen – non amo
queste definizioni ma dovendo scegliere preferisco presionista, nel
senso che guardo alle origini, all'idea di emancipazione che animava
Theodor Herzl”. “L'idea – spiega – si colloca in maniera trasversale a
tutte le divisioni ideologiche, culturali e religiose tanto del mondo
ebraico quanto di quello tedesco”. Molti obiettano che non sarà facile
condurre il progetto in porto. “I sogni utopici aprono spazi di
libertà”, la risposta. Ronen Eidelman è un artista prima che uno
statista. Il suo lavoro ha a che fare con l'immaginazione, più che con
il realismo politico. La sua è utopia postmoderna, concepita in un
contesto povero di certezze, in particolare nel campo delle
tradizionali categorie politiche. Qual è oggi, nel mondo globalizzato,
il senso dello Stato nazionale? Quale quello dell'identità di popolo?
Nell'idea dello Stato ebraico in Turingia c'è il gusto dell'ambiguità,
dell'ironia dissacrante come strumento di critica del dogma. La voglia
di confondere, mostrare la fragilità della doxa invalsa, dei confini e
dei tabù. Rendere insomma chiaro che nulla è chiaro. Medinat Weimar non
è un movimento realistico. È piuttosto una provocazione, un tentativo
di sfumare i confini fra le posizioni estremiste di ideologie fra loro
opposte (antisemitismo, nazionalismo, sionismo e antisionismo)
mostrandone la comune riducibilità all'assurdo. Lo slogan: “Bratwurst
kasher ora!
Manuel
Disegni, Pagine Ebraiche, marzo 2012
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Shofar chamorim |
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Ieri a Torino per il banchetto
di Purim in Comunità è tornata dopo molti anni l’usanza dello Shofar
Chamorim (letteralmente “il canto degli asini” o qualcosa del genere),
termine coniato nei campeggi giovanili ebraici fin dal 1946, a quanto
si racconta da Luciano Consigli, per indicare un insieme di scenette,
battute, canzoncine o altro che prendono in giro bonariamente la vita
del campeggio, o nel nostro caso della Comunità. Il nome, chiaramente
del tutto ignoto fuori dall’Italia, ha suscitato la curiosità di Renana
Birnbaum e le ha offerto lo spunto per alcune interessanti riflessioni.
“Da molte settimane non smetto di chiedere a me stessa da dove sia nata
l’idea degli shofar chamorim – ha detto – ma questa settimana mi sono
svegliata con una sensazione: alla fine dei giochi siamo tutti asini!
Tutti siamo legati al chomer, alla materia, attraverso i nostri affari.
Shofar chamorim è il suono naturale che viene fuori da noi. Perché il
Mashiach arriverà a cavallo di un asino? Giungerà attraverso la
materia, dal dolore, dalla rivalità. Il fatto che un uomo sia pronto a
vedersi come se fosse un asino, e sia pronto a ridere di sé e della sua
imperfezione, è l’inizio della correzione. Solo colui che sa di essere
un asino può progredire. La vita ci impone di portare carichi. Questo
“shofar” esprime il desiderio di essere in un luogo migliore dopo che
abbiamo scoperto di essere asini. Cosa è il raglio di un asino? Un
lamento, un grido. Ma lo shofar non è solo un lamento, è la speranza di
un miglioramento. Sale in alto. Dovremmo uscire dal mondo della
severità, del materialismo, della pesantezza, dell’abitudine a prendere
tutto troppo sul serio, e dovremmo imparare a guardare ed ascoltare lo
“shofar”, parola che ha la sua radice nel miglioramento, shippur. Dopo
che comprendiamo di essere “severi”, chamurim, ascoltiamo le nostre
voci di asini, chamorim.”
Ci voleva uno sguardo in parte esterno per aiutarci a capire il valore
di una “tradizione” italiana che merita di essere salvaguardata.
Anna
Segre, insegnante
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Purim e la questione
dell'identità
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Secondo i commentatori, gli
ebrei di Persia corsero il rischio di essere sterminati a causa del
loro comportamento, poco consono alle regole della Torah. Essi infatti,
in più di una occasione, dimenticarono le loro regole, per dimostrare
agli altri di essere uguali a loro. Nel trattato di Megillah è detto
che l'inizio del loro dramma avviene quando Assuero caccia la regina
Vashtì dal trono di Persia e indice un concorso di bellezza per
nominare la nuova regina. Il libro di Ester - la Megillah fa iniziare
quel brano con le parole "ba jom ha shevi'ì - al settimo giorno...".
I chachamim sostengo che era shabbat e gli ebrei sono soliti in quel
giorno stare nelle loro case ed iniziare i pasti sabatici con cose di
Torà e lodi a D-o. Essi però avevano perso il concetto di unità di
popolo e soprattutto di rapporto con D-o, secondo il modo degli ebrei.
Nel brano di Torah che precede immediatamente la venuta di Amaleq,
acerrimo nemico del popolo ebraico, il popolo si lamenta per la
mancanza di acqua e, nonostante le prove dategli dal Signore esso,
rivolto a Mosè chiede: "c'è forse il Signore in mezzo a noi oppure
no?". Quindi la venuta di Amaleq è la punizione per aver messo in
dubbio la presenza divina.
Un comportamento analogo lo ritroviamo nella Megillah; in essa non
compare mai il nome di D-o (motivo per cui alcuni rabbini del Talmud si
oppongono alla sua introduzione nel canone biblico) e quando c'è da
rivolgersi a qualcuno, non hanno nemmeno idea verso chi rivolgersi. La
frase che Mordekhai rivolge ad Ester "...revach ve hazzalà ja'amod la
jehudim mi maqom acher - la salvezza giungerà agli ebrei da
un altro luogo" ne è la certezza. I maestri sostengono che se realmente
in Mordekhai vi fosse stata una identità forte, avrebbe dovuto
menzionare esplicitamente il nome di D-o. L'espressione quindi "mi
maqom acher" dimostra che essi non avevano nemmeno idea di dove
rivolgere le preghiere.
Rav
Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna
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notizieflash |
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rassegna
stampa |
Primo
post su Facebook
per il presidente Peres |
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Leggi la rassegna |
Il presidente israeliano
Shimon Peres ha aperto la sua pagina sul social network "Facebook", con
un video nel quale invita le persone a "diventare amiche per la pace".
"Sono emozionato nello scrivere il mio primo post in bacheca, spero che
questa pagina diventi un posto in cui coloro che sognano e credono
nella pace raccontino e condividano le loro storie e le loro esperienze
con me" scrive Peres, che conclude: "Facebook ci dà potere, osiamo
credere di poter cambiare il nostro mondo e creare un domani migliore,
voglio sentire la vostra voce".
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