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13 marzo
2012 - 19 Adar 5772 |
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Roberto
Della Rocca,
rabbino
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Della storia del
vitello d’oro, raccontata nel capitolo 32 di Shemòt, resta aperto un
grande quesito: perché, pur sapendo che in quel preciso
istante si sta compiendo quella che è la colpa per antonomasia, Moshè
decide ugualmente di prendere le Tavole e scendere con esse al solo
scopo di romperle? Il rapporto di Moshè con il suo popolo è
inizialmente di opposizione netta. Ci sono situazioni in cui al fine di
ricostruire qualcosa di autentico è necessario spezzare gli
“idoli”. Tuttavia, poco dopo, Moshè prende le difese del suo
popolo, si identifica con esso e, di fronte all’offerta di Dio di
sostituire quel popolo peccatore con un “nuovo Israele”, composto solo
da persone giuste come Moshè e la sua discendenza, il nostro Maestro
rifiuta la proposta. Anziché dire: “È vero, loro sono
colpevoli, io no!”, Moshè rifiuta di essere il salvatore del mondo e di
sostituirsi al suo popolo, si identifica nella colpa, ribadendo in tal
modo il principio per il quale “il popolo d’ Israele, Dio e Torah sono
un’unica cosa”. Moshè combatte contro il popolo solo perché vuole che
quella Torah, che si sta costruendo assieme giorno per
giorno, rimanga dentro il popolo ebraico. Il comportamento
esemplare di Moshè è la chiave per imparare quale dovrebbe
essere il rapporto tra ebreo ed ebreo nell'ambito della Torah. Un
rapporto basato su principi di corresponsabilità piuttosto che su
arbitrarie liste dei “buoni" e dei “cattivi”.
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Dario
Calimani,
anglista
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Il giudice arabo della Corte
Suprema israeliana, Salim Joubran, è stato aspramente criticato per non
aver cantato l'Hatikvah durante l’insediamento del nuovo presidente
della Corte. Un parlamentare ne ha chiesto le dimissioni, un altro ha
presentato un progetto di legge che impedisca a chi non ha prestato
servizio militare nello Zahal di far parte della Corte Suprema. Il
Primo Ministro Netanyahu ha inviato a Salim Joubran un messaggio di
solidarietà, consapevole che egli non avrebbe potuto cantare, in tutta
coscienza, un inno in cui si dice che ‘l’anima ebraica anela’ con gli
occhi rivolti a Sion. E non è detto che per questo egli non sia un
giudice preparato quanto gli altri suoi colleghi. “Chazak!” a
Netanyahu.
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Speranze di tregua
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Nulla è sicuro e definitivo
quando si tratta, sia pure attraverso l`Egitto, con la Jihad islamica
di Gaza. Secondo le notizie di questa mattina si è arrivati a una
tregua, anche se un razzo è caduto anche stamane. Si chiude così un
ciclo di quattro giorni che ha costretto più di un milione di
israeliani a scendere nei rifugi o richiudersi nelle stanze corazzate.
La “cupola ferrea”, il sistema di difesa israeliano antimissile, ha
provato la sua efficenza abbattendo i missili in arrivo prima che
giungessero sui loro bersagli. Si ricorderà che alcuni anni fa il tanto
vituperato ministro della Difesa dell’epoca, Amiram Perez, prese la
decisione contro l’establishment militare, di sviluppare questo sistema
difensivo. Intanto il Sinai, sotto controllo egiziano, è diventato una
piattaforma di lancio contro Israele visto che i terroristi palestinesi
lo utilizzano per i loro attentati. E’ interesse comune dell’Egitto e
di Israele evitare che ciò avvenga. L’aviazione israeliana è riuscita a
neutralizzare nella striscia di Gaza una ventina di terroristi della
Jihad con grande precisione e tempestività. Ciò che fa sperare in un
periodo di calma relativa nel prossimo avvenire.
Sergio
Minerbi, diplomatico
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Qui Roma - Creatività in un click
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L’appuntamento è per questo
pomeriggio all’Ermanno Tedeschi Gallery. Indetto nello scorso gennaio
dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, dalla Comunità ebraica di
Roma e dal Keren Kayemeth LeIsrael, il concorso fotografico Contrasti,
rivolto a tutta l’Italia ebraica nella fascia di età 18-35 anni, arriva
alla fase della proclamazione dei vincitori e all’esposizione delle
opere più meritevoli per questa inedita iniziativa declinata nel segno
dell’arte e della creatività. L’obiettivo era quello di stimolare
quanti, all’interno delle Comunità ebraiche italiane, vedono nella
fotografia un’opportunità professionale o più semplicemente un hobby
che merita di essere coltivato. In palio, oltre alla soddisfazione di
veder gratificati i propri lavori in un contesto pubblico, anche alcuni
affiancamenti a professionisti nel corso delle loro sessioni di
shooting fotografico. “La sfida – spiega Dora Piperno, consigliere
della Comunità ebraica di Roma che è stata tra le anime dell’iniziativa
– era quella di creare un momento di incontro per giovani con interessi
e passioni comuni. Un momento che fosse anche occasione di crescita
culturale e allo stesso tempo permettesse l’apertura di una finestra
sul mondo del lavoro”. La cerimonia all’Ermanno Tedeschi Gallery, che
si aprirà alle 18.30 con un aperitivo, sarà poi seguita nel weekend dal
23 al 25 marzo del momento conclusivo del concorso per gli Under 18
Natura ed ebraismo che avrà luogo nella Capitale al termine di uno
shabbaton rivolto a ragazzi da tutta Italia. Natura ed ebraismo è un
tema che si presta a molteplici interpretazioni e che, come spiega il
consigliere UCEI Riccardo Hoffman, unisce tradizione e contemporaneità
e vale la pena di essere approfondito in un’epoca storica in cui i temi
della sostenibilità sono all’ordine del giorno.
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L'intelligenza che manca
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Che cosa avrebbe detto Primo
Levi, che al canto di Ulisse ha dedicato pagine meravigliose? Forse
avrebbe preferito non commentare. In effetti non dovremmo sprecare
inchiostro sulla proposta demenziale di censurare la Divina Commedia
perché antisemita, islamofoba e omofoba. Le stupidaggini non meritano
commenti e pubblicità. Per contro, trovo interessanti i commenti sulla
boutade di ieri. Sia il «Corriere della Sera» sia il «Giornale»
ascrivono questa intemerata al politicamente corretto, alla «cultura
del piagnisteo». E così facendo ingenerano, volutamente o meno, un
equivoco pericoloso. Che cosa c’entra il politicamente corretto con
questa scemenza sesquipedale? Non è forse troppo facile aggrapparsi
alle farneticazioni di un gruppuscolo inesistente per attaccare il
«politicamente corretto»? Le questioni sono due. Innanzitutto occorre
abbandonare qualunque tentazione censoria. In linea generale chiunque
può scrivere ciò che vuole, a meno di commettere un reato. E poi. Il
politicamente corretto, pur tra le mille risibili imperfezioni, è un
tentativo di evitare inutili sofferenze alle persone. Io preferisco se
non mi chiamano «giudio» o «ebreaccio», così come altri non amano
essere definiti «negri», «zingari», «ciccioni» o «mongoloidi». Talvolta
si può esagerare, certo, ma il singolo errore non contraddice il
meccanismo virtuoso. L’intelligenza, quella che manca a chi vuole
correggere Dante, rimane il vero metro di giudizio. «Ma tu sei gay?»
domanda all’amico un protagonista di un vecchio film di Ozpetek. La
risposta geniale è: «No, io sono frocio. Io sono all’antica». Insomma,
basta usare la testa e si può dire proprio tutto.
Tobia
Zevi, Associazione Hans Jonas
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Storie - Le ragazze che
salvarono la Svizzera
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A
proposito di Giusti e della proposta di Gabriele Nissim e di altri
intellettuali di istituire una giornata europea per ricordare il loro
coraggio (il 6 marzo?), c’è una storia poco conosciuta che arriva dalla
vicina Svizzera. Può il gesto di un gruppo di ragazzi cambiare il
mondo? Nell’estate del 1942 questo fu possibile. Almeno in parte. Il
7 settembre di quell’anno, 22 allieve quattordicenni (su 32) della II C
della cittadina di Rorschach, nel canton San Gallo, vicina al confine
con Germania e Austria, sulle rive del lago di Costanza, scrissero una
lettera al governo svizzero: “Egregi Signori Consiglieri Federali, Non
possiamo fare a meno di dirvi che noi alunne siamo profondamente
indignate che i profughi vengano ricacciati così spietatamente verso
una sorte tragica (...) Se continueremo così, possiamo essere certi che
il castigo ricadrà su di noi. E’ possibile che voi abbiate ricevuto
l’ordine di non accogliere ebrei, ma questa non è certamente la volontà
di Dio, e noi dobbiamo ubbidire più a Lui che agli uomini...”. La
loro lettera non passò inosservata. Il Consigliere federale Eduard von
Steiger non esitò a trasformare quel breve scritto in una "questione di
Stato", aprendo consultazioni con colleghi di governo e con
parlamentari autorevoli nonché interpellando il Ministero pubblico
della Confederazione con l’intento di punire un docente della classe
sospettato di essere stato l’istigatore della lettera. È il tema
del bel libro di Silvana Calvo, A un passo dalla salvezza. La politica
svizzera di respingimento degli ebrei durante le persecuzioni 1933-1945
(Silvio Zamorani Editore, Torino 2010), che ho presentato la scorsa
settimana alla Casa della Memoria e della Storia a Roma, assieme a
Giacomo Kahn e Grazia Di Veroli, in un’iniziativa organizzata dall’Aned
e dall’Anpi. Fu grazie al caso sollevato da quella lettera che la
Svizzera aprì finalmente agli ebrei le sue frontiere, pur con molte
cautele e limitazioni (vennero accettate solo le famiglie con bambini,
gli anziani oltre i 65 anni, le persone “manifestamente” ammalate, le
donne incinte e poche altre categorie di bisognosi), dopo la chiusura
quasi totale degli anni precedenti (a quanto risulta dai dati
ufficiali, dall’ottobre del ‘40 all’aprile del ‘42 furono accolti in
Svizzera solo 176 ebrei!). Fu grazie al coraggio di quelle
ragazze, e anche – bisogna ammetterlo – alla capacità delle istituzioni
svizzere di aprire un dibattito su questo tema, che poterono trovare
ospitalità in Svizzera oltre 21 mila ebrei, tra i quali 3.600
italiani, ai quali vanno aggiunti altri 1.833 ebrei di varie
nazionalità che fuggirono dall’Italia. Si potrebbero citare Umberto
Terracini, Gianfranco Moscati, Pupa Garribba, Lea Ottolenghi, Susanna
Colombo (che ha raccontato la sua esperienza alla presentazione del
libro)...Certo, la politica di asilo della Svizzera non fu priva di
errori e di contraddizioni: migliaia di ebrei vennero respinti alle
frontiere perché non rientravano nelle categorie dei bisognosi,
nonostante fin dal 1942 le autorità svizzere fossero a conoscenza delle
uccisioni degli ebrei e del trattamento inumano subito da parte dei
nazisti. Non tutti furono accolti e, a causa di questo diniego, in
molti casi la loro sorte fu la deportazione e la morte, come avvenne
per Alberto Segre, Jolanda De Benedetti, Rino e Giulio Ravenna e tanti
altri. Resta il gesto di quelle ragazze, che si ribellarono
all’indifferenza del governo svizzero nei confronti delle povere
famiglie di ebrei che fuggivano dall’Europa occupata dai tedeschi e
sognavano la Svizzera come il Paradiso delle libertà. Non meriterebbero
anche loro il riconoscimento di Giusti fra le Nazioni? E il loro
esempio, come ha sottolineato Giacomo Kahn, non dovrebbe insegnare
qualcosa anche a noi italiani di oggi - con le dovute differenze, per
carità - quando si affronta la questione delle politiche di
respingimento degli immigrati, soprattutto quelli provenienti da Paesi
dove non c’è libertà e le minoranze etniche e religiose vengono
perseguitate?
Mario
Avagliano
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Milano - Famiglia e identità,
rabbini a confronto
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Identità ebraica nel XXI secolo. Quale significato attribuirle? Quale
il ruolo della famiglia e della Comunità nel trasmetterla? Un incontro
organizzato dal Rabbinato centrale di Milano nella serata di mercoledì
discuterà quello che è oggi uno dei temi più delicati con cui
l’ebraismo italiano è chiamato a confrontarsi, l’approccio che le
istituzioni comunitarie mantengono nei confronti del matrimonio misto e
i risvolti che questa scelta può avere nella vita comunitaria. Per
affrontare la questione interverranno al Noam, centro di riferimento
della keillah persiana, sei rabbini con diverse esperienze e
background, il rabbino capo di Milano Alfonso Arbib, quello di Roma
Riccardo Di Segni, il presidente dell’Assemblea rabbinica italiana Elia
Richetti, il direttore del Dipartimento educazione e cultura
dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane rav Roberto Della Rocca,
il padrone di casa rav Yakov Simantov, e il rabbino Chabad Moshe Lazar.
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