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26 marzo 2012 - 3 Nisan 5772
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rav Jonathan saks
Adolfo
Locci
rabbino capo
di Padova


"E tutti i saggi di cuore, vengano e facciano tutto ciò che l'Eterno comanda" (Shemot 35:10) Quando qualcuno di voi (Adam mikkem) presenterà un sacrificio...dai bovini e dagli ovini...dalle tortore e dai colombi (Vaiqrà 1:2,14) Mentre la persona (Venefesh) che offrirà un sacrifico farinaceo...(Vaiqrà 2:1) La Torà collega la saggezza al cuore e non al cervello. Per mettere in pratica ciò che il Signore vuole, bisogna essere saggi soprattutto nel cuore, che è il dominio del discernimento (Binà), dove i nostri "istinti" - yetzer tov e yetzer ra' - posso essere "distinti". Questa capacità di distinzione, permetterà all'individuo di presentare qualsiasi offerta, grande o piccola, nella completa interezza della persona...

Anna
Foa,
 storica

   
Anna Foa
L'assassino di Tolosa era un terrorista animato da un terribile odio verso gli ebrei. Nessuno può negare questo dato primario, l'antisemitismo. Ma subito prima di portare la morte nella scuola ebraica di Tolosa, egli  ha assassinato tre soldati francesi, come lui di origine maghrebina, colpevoli di essersi integrati nella società francese fino ad entrare nel suo esercito. Questo nulla toglie al carattere antisemita del suo gesto, ma vi aggiunge qualcosa, un qualcosa che va analizzato e capito. Ma capire non basta, di fronte al sangue. Mi piacerebbe anche che ci fosse un pensiero, un ricordo, un'immagine di quei tre giovani, di cui poco si parla almeno fuori dalla Francia, assassinati dalla stessa mano, dallo stesso odio.

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Melamed - Il linguaggio della verità 
Il lunedì della scorsa settimana, in una bella giornata ormai quasi di primavera, l’atmosfera era pesante e lontanissima da quella che normalmente si percepisce durante un evento che raggruppa persone convenute da tutta Italia per confrontarsi e studiare insieme. La notizia dell’attacco alla scuola ebraica francese è arrivata subito, ovviamente. Dubbi, domande, paure, un’ansia sottile che si insinua nel profondo e che è difficile combattere con gli strumenti della razionalità. Il pensiero corre a casa, la memoria riporta a galla tutte le volte in cui non abbiamo dato peso alle indicazioni – sempre chiarissime – di non fermarsi davanti a scuola o alla sinagoga a chiacchierare, di non formare un gruppo proprio davanti al cancello…
Sull’onda dell’emozione e dell’angoscia erano queste le prime impressioni che si raccoglievano a Firenze, ove si svolgeva il quinto modulo del corso del Centro studi e formazione organizzato dal dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. In contemporanea si teneva il seminario di formazione degli insegnanti organizzato dal centro pedagogico del DEC ed è stato immediato, scambiando qualche parola dopo pranzo, all’aperto, notare come il sentimento dei numerosi partecipanti fosse rivolto ai bambini. Nel dolore per quelli che non ci sono più e con preoccupazione per i propri, e non solo: i dirigenti scolastici erano impegnatissimi, da tutta la mattina, a dare indicazioni allo staff, a confrontarsi con i colleghi su come affrontare questa nuova emergenza. E oltre alla gestione della sicurezza e alla ricerca di notizie il problema più pressante era: come possiamo spiegare quello che è successo? Come parlare ai bambini, cosa raccontare ai piccoli? È necessario farlo? Quando? Come?
Nei giorni successivi ‘ai fatti di Tolosa’, come spesso è stato chiamato l’attentato di lunedì alla scuola Ozar Hatorah, che ha ucciso quattro persone (forse gli adulti dovrebbero interrogarsi anche sulla propria paura delle parole?) l’argomento, anche in seguito all’indicazione di rispettare in tutte le scuole un minuto di silenzio “per onorare e ricordare le vittime della strage” è spesso tornato sotto l’attenzione di tutti. Le scuole francesi si sono fermate per un minuto martedì, e in Italia la stessa cosa è successa il giorno successivo garantendo de facto che a tutti i bambini, di tutte le età, in qualche maniera, fosse necessario raccontare quello che è successo. Il comunicato del Miur, indirizzato a tutte le scuole, è seguito ad uno scambio di missive intercorso con il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna in cui il ministro Francesco Profumo ha scritto parole importanti: “Mi accorgo una volta di più, in un momento tragico e triste come questo, di quanto il solenne ‘che non avvenga mai più’ sia appeso alla fragilità degli eventi e quanto forte e continuo debba essere da parte nostra l’impegno affinché non divenga una semplice frase di maniera.
Sono convinto che dobbiamo impegnarci a fondo, tutti insieme, contro la cultura dell’intolleranza, del razzismo e dell’antisemitismo in ogni sua forma, agendo con attività di prevenzione nelle famiglie, nei contesti sociali, e soprattutto nelle scuole, attraverso la formazione e l’impegno dei più giovani.”
Ed è proprio parlando del difficile lavoro fatto a scuola questa settimana, per raccontare ai ragazzi cosa è successo che Sonia Brunetti, direttrice della scuola ebraica di Torino, ha spiegato: “Ci siamo mossi su tre assi: abbiamo iniziato con l’ascolto, dando spazio ai ragazzi, per capire cosa già sapessero e come la loro famiglia avesse affrontato l’argomento. Alcuni erano ben informati, altri invece non sapevano nulla, siamo quindi partiti dalle loro domande per spiegare in maniera puntuale l’accaduto, facendo una estrema attenzione alle parole usate: evitando per esempio di parlare di attentato, ma usando il termine attacco e sottolineando come prendere per obiettivo una scuola sia un fatto gravissimo, perché va a colpire i bambini, che sono il simbolo del futuro, della crescita, della vita. Si tratta di un luogo importante, simbolo della parte più bella della società. Siamo poi passati alla tranquillizzazione affettiva, specificamente sulla scuola, chiarendo come ci sia una grande collaborazione con le forze dell’ordine: è la società tutta, lo Stato italiano che si occupa di proteggere i bambini, li accudisce. Far capire ai ragazzi che è la collettività a farsi carico della sicurezza è un passaggio molto importante, li fa sentire parte di una comunità. E qui si passa al terzo punto, che insiste sul rinforzare la loro fiducia, fiducia nella comunità, appunto, che si occupa di loro, che si occupa di sostenerli. Fiducia però anche nei propri mezzi, perché i bambini hanno bisogno di costruire - e di sapere di possedere - gli strumenti critici necessari a combattere le idee sbagliate. È importante chiarire che non si è trattato di un matto ma di una persona con le idee sbagliate, quelle idee che loro sanno riconoscere e stanno imparando a combattere. I più piccoli invece sono stati invitati a pensare a cose positive, belle, a ricordare che quando si è insieme si riesce a non farsi vincere dal male; il minuto di silenzio è stato importante per chiudere il discorso e dare il senso di un gesto collettivo”.
Alle scuole della Comunità di Milano le cose sono andate un po’ diversamente: appena saputo che le scuole francesi avrebbero rispettato un minuto di silenzio il martedì mattina è stato deciso di unirsi. Claudia Bagnarelli, responsabile della scuola dell’infanzia e della primaria ci ha raccontato come i bambini avessero capito che era successo qualcosa: “Non sono sciocchi, si sono resi conto subito, già lunedì, che qualcosa non andava, se non altro perché abbiamo immediatamente modificato i protocolli di sicurezza all’uscita. La prima cosa che abbiamo fatto è stata rispondere alle loro domande, anche perché se si fosse iniziato da una spiegazione fatta dagli adulti avremmo rischiato di porre problematiche o emozioni per cui non erano pronti. Abbiamo finito per rispettare tutti e due i minuti di silenzio, sia quello francese che quello italiano, cosa che ci ha anche permesso di verificare come i bambini abbiano reagito alle informazioni ricevute. Soffermandoci poi sul fermo del giovane marocchino che progettava di compiere un attentato alla sinagoga di via Guastalla abbiamo sottolineato come l'uomo sia stato arrestato, per dare in un certo senso un segnale positivo, per dire che comunque siamo protetti.”
Anche a Roma le domande dei bambini sono state immediate, all’uscita di scuola, diversa dal solito. Per Milena Pavoncello, responsabile delle elementari, nessuno è stato tenuto all’oscuro: “Già il giorno dopo tutti sapevano, e avevano bisogno di essere rassicurati. In particolare nella classe in cui insegno è stato interessante vedere come i bambini non ne parlassero ma ad una minima sollecitazione abbiano invece scritto e disegnato cose molto belle, significative, segno che comunque la necessità di esprimersi era forte. Hanno mostrato un grosso senso di maturità. Giovedì poi c’è stato un collegio docenti in cui abbiamo deciso di dedicare una classe alle vittime di Tolosa, la targa verrà scoperta in occasione della visita che il ministro Profumo
farà alle scuole di Roma.”
Per la scuola di Trieste era una settimana molto impegnativa, in preparazione del grande spettacolo che ha visti coinvolti i bambini questa domenica, ma l’argomento è stato affrontato già il martedì mattina dalla direttrice Tami Misan, che ha parlato con i piccoli, raccolti tutti insieme subito dopo la Tefillah. “Alcuni non sapevano nulla, altri invece sapevano decisamente troppo, apparentemente avevano anche già avuto modo di ricamarci sopra, e comunque abbiamo notato una grandissima disparità di reazioni. L’approccio è stato diverso con i più piccoli, che abbiamo coinvolto solo in maniera molto sfumata, rispetto ai bimbi di quinta che invece si ponevano già molte domande, soprattutto sulla personalità dell’attentatore”.
A chiudere questa carrellata dalle scuole ebraiche ecco il parere di Odelia Liberanome, che come coordinatrice del Centro pedagogico del Dec conosce bene gli insegnanti delle scuole, che ritiene tutti preparati ad affrontare argomenti difficili, anche grazie ai corsi organizzati regolarmente allo Yad Vashem. “Il principio fondamentale è che venga trasmesso non il timore ma la vicinanza e la solidarietà. Se l’insegnante non riesce ad essere tranquillo e sicuro in quello che dice, il messaggio che passa è solo quello della paura, ma nelle nostre scuole i docenti sanno lavorare su certi argomenti, so che si ritrovano davanti a classi sensibili ai fatti del mondo che li circonda e i nostri ragazzi non hanno paura di confrontarsi anche con le domande difficili”.
Paola Milani, docente di pedagogia all’Università di Padova, esperta di resilienza, spiega che non si può nascondere ai bambini la verità: nonostante nella nostra società si tenda a nascondere la morte, a non portare i piccoli ai funerali, è impossibile pensare che questa sia una forma di protezione. “I bambini sono comunque a contatto con le emozioni degli adulti, bisogna costruire per loro e con loro il senso della verità. Il linguaggio delle verità – mi ripeto perché è importante – è comune a tutti e i bambini lo capiscono a qualsiasi età. Siamo di fronte ad un evento doloroso ed è giusto dire chiaramente che per noi è inspiegabile, si tratta di un fatto eccezionale e gli adulti non sono in grado di controllare tutto, a volte l’uomo è capace di queste cose. La sofferenza c’è, non ha senso nasconderla ma al contrario va individuata, deve essere nominata: va detto che tutti stanno soffrendo molto ed è importante dare ai piccoli il messaggio che l’adulto è in grado di riconoscere il dolore e di parlarne. Il fatto stesso che un adulto esprima il proprio dolore permette ai bambini la libertà di manifestare la sofferenza e la propria preoccupazione, è un passaggio fondamentale”.
Anche Patrice Huerre, psichiatra infantile francese, intervistato da Le Monde ha dichiarato che “ bisogna dire ai piccoli che è successo qualcosa di terribile. Non possiamo evitare di parlarne, neppure ai piccoli della materna. I bambini avranno di questa aggressione una percezione diversa a seconda della loro storia tenendo conto anche che fino ai sei anni la nozione della morte, o dell’assassinio, è del tutto teorica ed astratta ma che a quell’età sono ipersensibili alle emozioni degli adulti. A partire dai sei anni, poi, sono più attenti alle regole, alle cose vietate, ai concetti di bene e di male, si può dire loro che alcuni esseri umani sono spinti dall’odio, è una minoranza infima ma esiste, è inutile fare finta che non sia così. Non è il caso di dare troppi dettagli, per non traumatizzarli imprigionandoli in immagini violente, meglio dire che quando vorranno se ne potrà riparlare ma è importante impedire che si chiudano nel silenzio. E noi adulti dobbiamo sempre ricordare che piuttosto che diventare indifferenti è meglio essere umani, ed avere dei sentimenti, per dolorosi che possano essere”.

Ada Treves - twitter @atrevesmoked


Qui Roma - Ricordando Pietro Saviotti
Un uomo delle istituzioni con la schiena dritta, un lucido analista dei fatti e delle loro conseguenze, una persona sensibile e sempre disponibile al dialogo e al confronto. Tranne in una circostanza, in cui spesso si imbatteva nella sua veste di capo del pool antiterrorismo: quando cioè sul banco degli accusati sedeva chi faceva della discriminazione un motivo di orgoglio. In quel caso Pietro Saviotti, magistrato tra i massimi esperti delle dinamiche dell'odio antiebraico in Italia, non era disposto ad ascoltare ragioni.
Ieri, a distanza di poco più di due mesi dalla scomparsa, la Comunità ebraica di Roma ha voluto ricordare la figura di questo grande servitore dello Stato con una giornata di studio in suo onore al Tempio Adriano. Nella sala, gremita in ogni ordine di posto, gli amici di una vita e molti, moltissimi colleghi. Tra gli altri hanno voluto manifestare la loro vicinanza alla famiglia Saviotti il ministro di Grazia e Giustizia Paola Severino e l'avvocato Renzo Gattegna, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Moderati dall'assessore alle politiche comunitarie della Comunità ebraica di Roma Joseph Di Porto, gli interventi si sono soffermati su vari aspetti della biografia privata e pubblica del magistrato, cui gli ebrei della Capitale, al momento della morte, hanno voluto tributare l'omaggio più solenne con la piantumazione di alcuni alberi a suo nome nella stessa foresta che onora le vittime di Nassiryah e a breve distanza dal bosco che ricorda Yitzhak Rabin, primo ministro dello Stato di Israele barbaramente ucciso da un estremista di destra il 4 novembre di 17 anni fa.
In apertura di convegno, che era inteso ad offrire, sulla scia del proficuo lavoro svolto in questi anni da Saviotti e dai suoi collaboratori, un inquadramento il più ampio possibile sull'impegno del nostro paese nella lotta al razzismo e alla xenofobia, è stato fatto osservare un minuto di silenzio per le vittime dell'agguato alla scuola Ozar HaTorah di Tolosa, cui hanno fatto seguito le parole del presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici, dei magistrati Giovanni Salvi, Luca Palamara e Luca Tescaroli, dell'avvocato Roberto De Vita, del capo della Digos di Roma Lamberto Giannini, del comandante del reparto anticrimine Massimiliano Macilenti e della filosofa Donatella Di Cesare. “Sono orgoglioso di vivere in Italia – ha affermato Pacifici – perché a differenza di quanto accade in Francia si è preso coscienza del problema dell'antisemitismo e delle pericolose saldature che vi sono in questo senso tra movimenti neonazisti e integralisti islamici”. Ciò detto, ha aggiunto Pacifici, “è giunto il momento fare uno sforzo ulteriore per disinnescare le nuove minacce che arrivano con sempre maggiore frequenza dalla rete: un fronte sul quale il compianto magistrato Saviotti era da tempo attivo con estrema consapevolezza della portata di tali insidie”. Siti internet che non chiudono, scritte infami sui muri di Roma e di molte città italiane. I pericoli di una campagna d'odio sempre più cruenta verso gli ebrei e altre minoranze sono stati più volte ricordati dai relatori. Per la professoressa Di Cesare, autrice del recente saggio contro il negazionismo 'Se Auschwitz è nulla', “servono adesso nuove leggi che diano modo di intervenire sia nel mondo reale che in quello virtuale”.

a.s. -  
twitter @asmulevichmoked

Qui Roma - Natura e creatività in un click
Grande partecipazione e tanti scatti di valore al concorso fotografico Natura ed ebraismo arrivato nelle scorse ore alla fase conclusiva con uno Shabbaton capitolino cui hanno preso parte decine di ragazzi da tutta Italia. Prima iniziativa di questo genere rivolta agli under 18 delle Comunità ebraiche, il concorso ha stimolato la creatività e l'estro di molti adolescenti. La soddisfazione, al centro comunitario Young Eli dove nella tarda mattinata di ieri ha avuto luogo la premiazione, era quindi palpabile. “Una bellissima iniziativa – afferma Lorella Zarfati del Keren Kayemeth LeIsrael – che ci auguriamo possa essere riproposta anche in futuro”. Come KKL, ha poi detto rivolta ai ragazzi, “prendiamo intanto l'impegno di portare le vostre opere in qualche struttura museale così da essere ammirate da un pubblico ancora più ampio”. Per quanto riguarda la composizione del podio, la giuria ha deciso che ad aggiudicarsi il concorso è la romana Ruth Bokhobza, che ha immortalato un melograno, frutto “ebraico” per eccellenza, mentre tutto intorno ad esso, sui rami degli alberi limitrofi, fiorisce la primavera. Al secondo posto lo scatto di quattro ragazzi torinesi assorti in preghiera al parco del Valentino in una giornata invernale (Alessandro Lovisolo, Ruben Piperno, Simona Santoro, Filippo Tedeschi, Yanir Levy) e medaglia di bronzo per l'immagine della cupola innevata del Tempio Maggiore della Capitale (Ludovica Misano). Più in generale applausi sono comunque andati un po' a tutte le opere e a tutti gli autori. Con loro, a complimentarsi per il lavoro svolto e a chiudere in bellezza uno Shabbaton di grande intensità, c'erano tra gli altri il presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici, il presidente del KKL Rafi Ovadia, l'assessore alle politiche giovanili della CER Giordana Moscati, la responsabile del Dipartimento Educativo Ufficio Giovani Lidia Calò e l'assessore con delega agli under 18 dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Riccardo Hoffman. “Un pensiero particolare – ha spiegato quest'ultimo – va oggi alle vittime dell'attacco mortale di Tolosa. Essere qua oggi a parlare di una tematica di grande significato per l'ebraismo come il rapporto con la natura vuol dire affermare una cosa molto chiara: che la nostra è una cultura di vita in antitesi a chi propugna il valore della morte e dell'annientamento”. Con lo Shabbaton di Roma si chiude un ciclo importante di eventi che hanno visto l'assessorato guidato da Hoffman impegnato in molte iniziative in giro per l'Italia. Una degna conclusione, quella romana, che è frutto di un intenso lavoro di squadra tra più enti e assessorati. “In questi mesi – conferma l'assessore della CER Giordana Moscati – siamo riusciti a far lavorare assieme tante facce dell'ebraismo italiano. Tirando le somme, e credo di parlare a nome anche degli altre realtà coinvolte, si è rivelata un'esperienza molto divertente e gratificante”.
(Il concorso Natura ed ebraismo giunto ieri a conclusione aveva il patrocinio dell'assessorato ai giovani under 18 dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, dell'assessorato alle attività giovanili e di quello alla cultura della Comunità ebraica di Roma e del Keren Kayemeth LeIsrael. Responsabili dell'organizzazione dello Shabbaton, che si è concluso al centro comunitario Young Eli con la premiazione dei vincitori, il Dipartimento Educativo Giovani della CER, l'Ufficio Giovani Nazionale UCEI, il KKL, gli asili israelitici Tevat Noach e i movimenti giovanili ebraici Bnei Akiva e Hashomer Hatzair).


Qui Milano - I govani, il futuro
Quando si parla di giovani, i problemi da affrontare non mancano. Forse perché quello più grande sta a monte: come si fa a definire cos’è la goventù? La letteratura ebraica, attraverso l’uso di vari termini per indicare questo concetto, la identifica come un periodo pieno di travagli legati alle scelte di vita che si devono compiere. Questa la risposta di Rav Roberto Della Rocca, direttore del Dipartimento educazione e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, intervenuto ieri pomeriggio a Milano al dibattito “Un secolo di gioventù ebraica in Italia”, organizzato dalla Comunità ebraica di Milano e dall’Associazione di cultura ebraica Hans Jonas, per presentare la ricerca sui giovani ebrei italiani condotta da quest’ultima. Gli altri protagonisti: Cobi Benatoff, che da presidente dell’European Council of Jewish Communities sostenne la nasciata di Hans Jonas, Saul Meghnagi, direttore scientifico dell’associazione e curatore della ricerca, Tobia Zevi, presidente di Hans Jonas e David Piazza, consigliere della Comunità ebraica di Milano. A moderare il dibattito, davanti a un pubblico con molti giovani e rappresentanti dei movimenti giovanili, il consigliere della Comunità e membro del consiglio direttivo di Hans Jonas Simone Mortara. Senza dimenticare che se i giovani rappresentano il futuro dell’ebraismo italiano, i loro problemi sono anche quelli delle comunità, come sottolineato dai vari interventi, a partire da quello di rav Della Rocca, che ha posto in modo forte la domanda se il modello di istituzione comunitaria esistente oggi sia quello più appropriato in prospettiva futura.
“Cittadini del mondo, un po’ preoccupati. Una ricerca sui giovani ebrei italiani” (la Giuntina, 2011) il titolo dello studio promosso da Hans Jonas. Cittadini del mondo, perché i giovani ebrei italiani sono forti e coraggiosi, non hanno paura di viaggiare, studiare all’estero, confrontarsi con il diverso. Un po’ preoccupati però, e non solo per il loro stesso futuro, che appare loro abbastanza incerto, come d’altra parte emerge dai dibattiti che fioriscono anche al di fuori del mondo ebraico: c’è timore anche per il futuro dell’ebraismo italiano e delle comunità ebraiche, legato anche alla consapevolezza che l’antisemitismo esiste e cresce.
Una contraddizione? Probabilmente no. Anzi, forse le due cose sono più legate di quanto non sembri: nel momento in cui ci si trova a non avere certezze, nel presente e ancor meno proiettate nel futuro, l’unico punto fermo sembra rimanere la propria identità religiosa. E in virtù di questo è possibile spiegare alcuni dati emersi dalla ricerca: la grandissima importanza attribuita dai giovani non solo a Israele, ma anche alla presenza delle Comunità ebraiche sia sul territorio italiano, sia in eventuali mete estere di trasferimento per motivi di studio o lavoro, un atteggiamento di generale diffidenza nei confronti dell’ebraismo riformato, la tendenza a evitare il matrimonio misto. E in questa chiave si può spiegare anche la massiccia adesione ai movimenti giovanili: è stato evidenziato come essi siano la culla dei futuri rabbini e leader comunitari, che al loro interno acquisiscono molte delle conoscenze di cui si serviranno nello svolgere queste funzioni. Ed è proprio per questo bisogno di rafforzare la propria identità religiosa che, quando ormai diciottenni i giovani devono abbandonare l’Hashomer Hatzair o il Benè Akiva, somigliano un po’ a pecorelle smarrite. E se è vero, come è stato sottolineato, che non esistono movimenti equivalenti per i più grandi, nei quali sia richiesto un impegno così quotidiano, il successo delle iniziative di associazioni come l’Ugei è grande. Perché mentre infiamma questo dibattito metacomunitario, che è sempre utile e sano alimentare, i giovani ebrei si riuniscono proprio a Milano in occasione del weekend di Purim organizzato dall’Unione Giovani Ebrei d’Italia con Efes2. Un modo per non smettere di vivere il proprio ebraismo con fierezza e gioia, nonostante i tragici eventi delle ultime settimane, che costituisce una possibile risposta pratica e concreta a tutti questi problemi e a queste preoccupazioni. E allora forse Lorenzo il Magnifico aveva proprio colto questo spirito: “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto sia, del doman non c’è certezza”.

Francesca Matalon

Qui Torino - Emanuele Artom, il partigiano delle idee
Una marcia silenziosa per le strade di Torino ha ricordato ieri pomeriggio la figura di Emanuele Artom, giovane intellettuale ebreo torinese barbaramente assassinato dai nazifascisti. L’evento, rivolto all’intera cittadinanza, è stato promosso e organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Comunità ebraica di Torino in collaborazione con il Comune del capoluogo piemontese. Il corteo si è snodato partendo da Via Sacchi 58, dove abitava la famiglia Artom, per poi attraversare il centro città e giungere alla Scuola ebraica e infine in piazzetta Primo Levi.
Molte persone hanno preso parte alla marcia: ebrei torinesi, membri della Comunità di Sant’Egidio, esponenti di varie identità religiose,iscritti all'Anpi, ragazzi e adulti; un corteo uniforme che silenziosamente ha voluto ricordare Emanuele. Il corteo era costellato di cartelli azzurri portati da alcuni ragazzi e sui quali erano scritti i nomi dei principali campi di concentramento e di sterminio.
Alla manifestazione hanno partecipato tra gli altri il sindaco di Torino Piero Fassino, la vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche italiane Claudia De Benedetti, il presidente della Comunità ebraica torinese Beppe Segre e il rabbino capo rav Eliahu Birnbaum.
Dalla casa di Emanuele alla Scuola ebraica: qui il corteo è stato accolto dalla preside Sonia Brunetti e da alcuni studenti. Prima di altre riflessioni è stato osservato un minuto di silenzio per le quattro vittime dell'agguato mortale di Tolosa.
La professoressa Brunetti ha ricordato il ruolo attivo che Artom ebbe come insegnante nella Scuola, luogo dove ebbe modo di sviluppare molte riflessioni assieme ai suoi studenti. Un ricordo è stato rivolto anche a sua madre Amalia, che ne fu preside. E' poi seguita la lettura di alcuni stralci, a cura dei ragazzi della scuola media, del diario tenuto da Emanuele durante la lotta partigiana.
Dal cortile dell'istituto la marcia ha ripreso per pochi metri per giungere in piazzetta Primo Levi, di fronte al Tempio, dove il coro della Scuola ebraica ha interpretato, tra la commozione dei presenti, il canto Lulav e le sue specie.
Sono seguiti numerosi interventi, tra cui quello del sindaco Fassino, che ha definito la marcia “utile e necessaria per ricordare e rendere onore a tutti gli ebrei torinesi e piemontesi che non hanno fatto ritorno”. “Il passare del tempo – ha proseguito il primo cittadino – comporta il rischio dell’oblio. Niente e nessuno devono essere dimenticati. Noi abbiamo il dovere morale di combattere ogni giorno”.
Rav Eliahu Birnbaum si è soffermato invece su quella che Artom definiva “etica della responsabilità collettiva” e sul significato della parola “responsabilità”: in ebraico deriva dalla parola “altro”, inteso come riconoscere l’essenza dell’altro; in italiano dalla parola latina “responsa”, cioè risposta al bisogno altrui.
Ugo Sacerdote, amico e compagno partigiano di Emanuele, ha ricordato la sua naturale predisposizione all’insegnamento che lo contraddistinse anche durante la Resistenza: “Emanuele – ha spiegato – cercava di far riflettere i partigiani sulle nozioni di libertà e democrazia”. Sacerdote ha poi evocato l’ultimo incontro che ebbe con Emanule e con suo cugino Ruggero Levi, poco prima della cattura: “Trascorremmo un pomeriggio in piena serenità e ci separammo con un ottimismo prematuro”.
Affidata a Beppe Segre la lettura di alcune pagine del diario in cui vengono descritte le prime reazioni davanti ai manifesti e alle scritte sui muri che inneggiavano all'odio antiebraico e che condannavano gli stessi ebrei a morte immediata. Artom era rimasto colpito dal fatto che a strappare quei manifesti fossero stati proprio degli ebrei: “Non dovevamo essere noi a farlo”, scrive nel diario. “Se ci sono scritte manifesti contro una certa categoria – ha incalzato Beppe Segre – è dovere di chi non appartiene a tale categoria strapparli perché non si può rimanere indifferenti di fronte alle offese e alle minacce che colpiscono l'Altro”.
A concludere un pomeriggio molto intenso le parole di Daniela Sironi, esponente della Comunità diSant’Egidio: “Questa marcia – ha affermato – rappresenta un evento di umanità e civiltà che vede unite le due Comunità per un futuro degno per tutti; non è un rito ma la prima pagina di una storia nuova”.

Alice Fubini

pilpul
Tolosa - Assieme in cammino
noemi di segniPer la prima volta in questa settimana di forti emozioni, sono stata sul luogo dell’attentato di Tolosa, partecipando alla marcia silenziosa organizzata dal Conseil représentatif des institutions juives de France (CRIF) insieme alle organizzazioni ebraiche locali. Poiché negli ultimi giorni l’attenzione dei media si è spostata dalle vittime all’attentatore, inizialmente temevo che alla marcia, diretta verso l’Ozar-Hatorah, avrebbero partecipato in pochi. Al contrario, mi sono dovuta ricredere. I partecipanti erano migliaia e migliaia, e tra questi ho notato, con piacere, molti non ebrei: persino alcuni monaci buddisti sono venuti a portare il proprio sostegno. Il corteo era anche animato da molti bambini, che avevano sulla maglietta un adesivo con la bandiera nazionale, a testimonianza dell’uguaglianza di tutti i bambini francesi a prescindere dall'appartenenza religiosa. Vista la grande affluenza, la marcia, iniziata alle 17, è giunta solo alle 19 davanti alla scuola, il cui ingresso è stato tappezzato di fiori lasciati dai partecipanti. Ancora una volta, la città di Tolosa, che già nella scorsa settimana aveva sospeso molte delle sue manifestazioni artistiche e ricreative, ha espresso con sincero cordoglio la propria solidarietà alla comunità ebraica.

Noemi Di Segni, studentessa

In cornice - Progettare ed eseguire
daniele liberanomeLa Parashà di “Vayakhel”, che avevamo letto prima della tragedia di Tolosa, fornisce una risposta ai tanti detrattori dell'arte contemporanea che dicono “quell'opera sarei capace di farla anch'io”; in pratica si sostiene che l'artista deve anche per essere un maestro nel dipingere, scolpire etc. per essere definito tale. Al capitolo 35 verso 30-32 della parashà è scritto (ed. Moise Levy) “L'Eterno ha specificamente designato Bezalel....l'ha colmato di sapienza [chokma], di comprensione, di intuizione...lachshov mahashov velaasot”. Quella frase , con qualche variante, ritorna diverse volte nella Torà (bisognerebbe capire il perché), e indica che le attività di Bezalel erano due: lachshov – “pensare” o “progettare” e poi laasot “fare” o “eseguire”. Prima viene il lachshov; ed è un momento ben distinto dal laasot, con la sua propria dignità autonoma, cioè un conto è creare e uno è realizzare, non necessariamente uniti. Tuttavia, nel versetto anche il laasot ha grande dignità, deriva da Kadosh Barukh-Hu. Ma, come giustamente osservava Rabbi Bahyè – citato da Leibowitz – a quei tempi gli ebrei si trovavano in una situazione particolare: erano appena usciti dalla schiavitù e in mancanza di aiuto dal Cielo non avevano la conoscenza tecnica necessaria per realizzare fisicamente – laasot  –  certe opere d'arte che avevano pensato sotto ispirazione di Dio. Oggi, con la nostra tecnologia, il laasot non solo è ovviamente distinto dalla fase progettuale (chi progetta un'automobile - non la produce) ma è molto spersonalizzato, e non richiede conoscenze tecniche particolari. Certo è importante che il progetto venga realizzato, e l'opera d'arte è la concretizzazione di un'idea. Proviamo a spingerci oltre. Nel suo commento alla parashà, Rabbi Bahyé crea un legame forte fra libertà e importanza della creatività nell'arte - un concetto che si ritrova anche nel filosofo ebreo marxista Herbert Marcuse (1898-1979). Potremmo dire allora che il primato della creatività sulla tecnica che troviamo nell'arte contemporanea, è indice della relativa grande libertà in cui viviamo. Basta pensare all'arte sotto le dittature, nazista ad esempio, per avere una riprova.

Daniele Liberanome, critico d'arte

Tea for Two - Il bacio di Edry e Tamir
rachel silveraEppur qualcosa si muove. Reduci da una settimana difficile, da giorni intrisi di lacrime, rabbia, dolore e contestazione, bisogna ammettere di non essere propriamente positivi. Ripenso all'inquietudine dell'opera di Goya "Il sonno della ragione genera mostri". Eppur qualcosa si muove. Da qualche giorno il progetto di due grafici israeliani, Ron Edry e Michal Tamir, sta facendo il giro del mondo. In cosa consiste? In una manciata di parole con una grafica accattivante lanciate sul web: Iranians we love you, we will never bomb your country. I due creativi, laureati entrambi alla Bezalel academy (fucina di tantissimi nuovi talenti), non credevano che un semplice poster li avrebbe resi protagonisti indiscussi in Israele e all'estero. "L'idea è stata molto semplice e probabilmente esprime un sentimento che gli iraniani condividono con me" dice Edry al Jerusalem Post. La risposta non si è fatta attendere. In poche ore alcuni iraniani hanno accolto e condiviso sui maggiori social network messaggi di sostegno al progetto. Edry e Tamir hanno accompagnato poi il poster di parole ad altri con foto di israeliani di ogni età: da una coppia di dati'im a giovani militari. Da madri con figli ad anziani. L'immagine di risposta più potente? Sicuramente quella del ragazzo israeliano che bacia la ragazza iraniana mostrando i loro due passaporti. Si potrebbe minimizzare, dimostrare che, come direbbe la sanremese canzone di Noemi, "sono solo parole", ma è innegabile che qualcosa stia accadendo. E quel qualcosa è la nuova generazione di giovani israeliani. Sono attivi, si battono per il carovita, accettano le diversità, si distinguono per doti artistiche, lasciano le comodità del focolare per prestare servizio militare, affollano impavidi discoteche, cinema e teatri. Ma sopra ogni cosa, mi si passi l'ossimoro, combattono per la pace.
 
Rachel Silvera, studentessa

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Israele - Marcia contro la guerra   Leggi la rassegna

Centinaia di israeliani sono sfilati nel centro di Tel Aviv per esprimere il loro 'allarme di fronte all'ipotesi di un attacco israeliano alle infrastrutture nucleari iraniane. La manifestazione - senza incidenti - è giunta in seguito all'iniziativa di due grafici di Tel Aviv che avevano inviato attraverso il web messaggi di amicizia al popolo iraniano. La campagna ha registrato 34 mila adesioni in Israele e altre 3mila in Iran.
 
 
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