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2 aprile
2012 - 10 Nisan 5772 |
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Adolfo
Locci
rabbino capo
di Padova
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Lo Shabbat appena
trascorso è chiamato
"Gadol-grande". Yosef Caro, basandosi sui Tosafisti e sul "nostro"
Shibbolè Haleket, scrive nello Shulchan 'Arukh (Orach chayym 430), che
l'aggettivo si riferisce al miracolo che in quel giorno accadde. La
Mishnà Berurà spiega che il miracolo consisteva nel fatto che ogni
ebreo in Egitto avesse preso e preservato in casa, il 10 di Nissan
(data di oggi che all'epoca capitò di Shabbat), l'agnello da
sacrificare alla vigilia di Pesach. Non solo, ma che in pochissimo
tempo (all'inizio del mese di Nissan furono spiegate tutte le norme
della celebrazione di Pesach in Egitto), gli ebrei erano
pronti e preparati a questo straordinario evento. Il sangue di
quell'agnello sugli stipiti diviene così simbolo di libertà. È la
dimostrazione che gli ebrei non sono più schiavi timorosi, ma uomini
liberi, pronti a vivere il proprio ebraismo senza paura. È obbligato
ogni uomo a vedere se stesso come se fosse uscito dall’Egitto; questo
insegnamento dell’Haggadà indica che noi, discendenti di quegli
schiavi, dobbiamo considerarci sempre, grazie alla Toràh, uomini liberi
che non devono aver timore di vivere il proprio ebraismo pubblicamente.
L’uscita dall’Egitto è l’avvenimento da cui inizia la nostra storia
come popolo e tutto ciò che noi conserviamo dell’ebraismo, ha salde
radici nella consapevolezza acquisita dai nostri padri proprio nel
crogiolo della schiavitù. Il dono della Toràh e l’ingresso in Eretz
Israel sono raggiungibili solo da uomini consapevoli del loro essere e
del loro dovere. Auguro a tutte le Comunità ebraiche in Italia, un caro
e fraterno Pesach Kasher weSameach.
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Anna
Foa,
storica
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Il branco di delinquenti che a
Monterotondo ha picchiato e insultato una donna musulmana seduta al
tavolino di un caffé con il velo non ha agito in modo tanto diverso da
come hanno agito molte, troppe volte nelle famiglie immigrate, quei
padri e quei fratelli che hanno segregato, picchiato o
addirittura uccise le donne della loro famiglia che violevano buttare
il velo e comportarsi come le loro coetanee nate italiane. Ha ragione
il ministro Riccardi, le donne sono il motore dell'integrazione. In
primo luogo perché la questione della donna resta a tutt'oggi il
maggiore scoglio all'integrazione musulmana in Occidente, il maggior
terreno di differenza tra i musulmani e gli europei. In secondo luogo
perché l'integrazione passa attraverso le donne, cioè attraverso il
loro modello comportamentale, il loro insegnamento, la loro volontà o
meno di integrarsi. Aggredendo una donna quei ragazzi hanno
dato alle donne musulmane un'immagine orrenda della nostra società e
hanno fatto il possibile per distrruggere ogni loro volontà di
integrazione. Come l'islam più radicale, prendendosela con le donne.
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Premio
Adei Wizo - Scelte le tre opere finaliste
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Da Livorno a Venezia: c'è
ancora il mare nel destino del concorso letterario Adelina Della
Pergola, tradizionale occasione di incontro e divulgazione a cura
dell'Associazione Donne Ebree d'Italia, che sbarca quest'anno in Laguna
con un tris di libri che, pur molto diversi tra loro, hanno nello
sguardo all'orizzonte, nei destini spesso sospesi, fluidi e complessi
dell'identità ebraica, un riferimento comune. La decisione è arrivata
nelle scorse ore: a contendersi il riconoscimento, sottoposto adesso al
voto della Giuria Popolare, saranno Racconti intorno alla felicità
ebraica (Anatolij Krym, Spirali), Il bambino del giovedì (Alison Pick,
Frassinelli) e Stazioni intermedie (Vladimir Vertlib, Giuntina). Scelte
anche le opere in lizza per il Premio Ragazzi, che verrà assegnato dai
giovani di alcuni licei italiani e dagli studenti delle scuole ebraiche
di Roma e Milano: si tratta di Per mare e per terra (Mitchell Kaplan,
Neri Pozza) e di Un caso di ordinario coraggio (Pascale Roza, Guanda).
L'appuntamento, con la fase conclusiva del concorso e con la
concomitante assemblea nazionale delle delegate adeine, è per il
prossimo 12 novembre. Restano ancora da definire alcuni passaggi
logistici e organizzativi ma il viaggio verso Venezia, verso la
dodicesima edizione di questa rassegna che molti scritti di valore ha
contribuito a diffondere nel corso degli anni, sembra già ben impostato.
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Calcio -
Platini e gli impegni dell'Uefa in Israele
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L'obiettivo è quello di
rendere Israele “una nazione calcistica”. Parola di Michel Platini,
numero uno dell'UEFA, che in fatto di pallone probabilmente qualche
credenziale ce l'ha e che, accompagnato dal ministro della cultura e
dello sport Limor Livnat e dal presidente della federcalcio israeliana
(Ifa) Avi Luzon, ha partecipato nelle scorse ore all'inaugurazione del
centro sportivo Beit Hanivharot a Shefayim, kibbutz nei pressi di Tel
Aviv.
Impianto decisamente all'avanguardia costruito con il supporto della
stessa UEFA, il centro si candida a diventare un punto di riferimento
per tutto il movimento nazionale, specie per i più giovani, anche e
soprattutto in vista degli Europei under 21 che proprio in Israele, tra
Gerusalemme e Tel Aviv, tra Ramat Gan e Netanya, avranno luogo
nell'estate del prossimo anno. Sarà quella l'occasione per fare il
punto sulla crescita di una federazione che in questi anni molto ha
investito sul fronte organizzativo con conseguente evoluzione, anche se
ancora modesta, dei risultati ottenuti sul campo dai vari club
israeliani. La sfida, come hanno ribadito le autorità presenti, dovrà
essere quindi necessariamente di lungo termine. “Questo centro – ha
affermato Platini – è un ottimo investimento per il futuro, in
particolare per i calciatori in erba. Il calcio necessita di pazienza e
investimenti. Se sostenuti, i giovani sbocciano”. Chi sarà il prossimo
Eran Zahavi?
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Qui
Budapest - “I problemi esistono, ma non c’è dittatura”
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Statue dallo sguardo
malinconico e severo sopportano sulle proprie spalle il peso di
aristocratici balconi. È l’immagine che, almeno per chi scrive, sembra
raccontare nel modo più esaustivo Budapest e l’atmosfera ungherese.
Infiniti i monumenti, le sculture, le targhe commemorative che
costellano la città magiara, testimonianza di un passato ingombrante
con cui sembra difficile fare i conti. Una storia che pesa sugli
ungheresi come i balconi sulle spalle delle statue che sembrano
ispirarsi ad Atlante, il titano ribelle costretto da Zeus a portare su
di sé il peso del mondo. Il governo filonazista e le croci frecciate,
l’occupazione sovietica, il regime comunista, spettri che ancora
infestano il presente ungherese come testimonia, per esempio, il favore
ottenuto alle ultime elezioni dall’estrema destra. “Non ho paura di una
dittatura – mi spiega il sociologo András Kovács, professore alla
Central European University di Budapest nonché figura di spicco
dell’ebraismo ungherese – onestamente non mi sembra plausibile. Certo
che dai banchi del Parlamento si facciano invettive contro gli ebrei e
contro i rom non è rassicurante. Diciamo che si sta preparando un
terreno su cui sarà difficile camminare”. La questione delle minoranze,
la realtà ebraica ungherese e l’effetto della Shoah, l’antisemitismo
sono alcuni dei campi di ricerca del professor Kovács. Se si vuole una
fotografia dell’ebraismo magiaro basta leggere il suo recente report
sul tema, pubblicato assieme alla psicologa Aletta Forrás-Biró lo
scorso settembre per l’Institute for Jewish Policy Research. Un
fardello particolarmente gravoso, tornando alla questione della storia,
è quello che portano con sé gli ebrei d’Ungheria. La più grande
comunità dell’Europa centrale, che sulla carta conta circa 100mila
persone (quasi mezzo milione prima della Shoah), vede numeri
decisamente esigui per quanto riguarda le adesioni alle istituzioni
ufficiali. “Solo il 10 per cento degli ebrei ungheresi – sottolinea
Kovacs – è iscritto alle organizzazioni ebraiche presenti nel paese. Il
Rinascimento della comunità di cui si parlava dopo la caduta del regime
si è ben presto arrestato e ora ci troviamo con un sistema eterogeneo e
ben strutturato ma senza ebrei, senza le persone”. Dall’inizio degli
anni Novanta, diverse associazioni e organizzazioni legate al mondo
ebraico e a Israele si sono insediate in Ungheria con la speranza di
ridare vita a una delle esperienze più floride del panorama ebraico
internazionale. L’assimilazione, la dura politica di secolarizzazione
del regime comunista, le ferite della deportazione e della Shoah hanno
ostacolato i piani di rinascita. Così, come ricorda Kovàcs, le
strutture sono rimaste semideserte. La fotografia della attuale realtà
ebraica ungherese racconta di una organizzazione cappello, Mazsihisz,
che rappresenta i Neolog (realtà progressive nata nella metà dell’800 e
lontana parente dei Conservative americani); una comunità ortodossa; i
chabad e i reform, entrambi arrivati in Ungheria dopo la caduta del
Muro. Con 48 sinagoghe sparse per il Paese e 14 a Budapest, i Neolog
rappresentano la comunità maggioritaria e di fatto controllano
l’organizzazione Mazsihisz (creata nel 1991 e in cui siedono anche
alcuni rappresentanti degli ortodossi), ente di riferimento per le
istituzioni statali. “Il fatto che Mazsihisz sia l’interlocutore
privilegiato fa sì che a quest’ultimo siano affidati i fondi statali da
ridistribuire con le altre realtà. Negli anni i contrasti sulla
questione monetaria si sono inaspriti e il governo attuale ha fatto
pressione sui Neolog per una spartizione diversa dei fondi – afferma
Kovàcs – Il problema inoltre è che da tutto ciò rimangono fuori le
organizzazioni laiche, in difficoltà di fronte alla mancanza di
sovvenzioni”. Tre grandi problemi affliggono la realtà ebraica
ungherese, spiega il sociologo: poca partecipazione nonostante un
sistema ben strutturato; divisioni interne, inasprite dalla questione
dei fondi statali; e infine l’antisemitismo. “Dal 2006 c’è stato un
peggioramento sul fronte degli attacchi, soprattutto verbali ma
altrettanto preoccupanti, contro gli ebrei. L’atmosfera si sta facendo
più pesante, l’estrema destra con il partito Jobbik ha raggiunto il 17%
alle ultime elezioni. Euroscetticismo, populismo, retorica nazionalista
sono in costante crescita e a farne le spese sarà tutta la società.
Ovviamente bersagli preferiti sono ebrei e rom, fortemente sotto
attacco”. E cosa fa il primo ministro Orban (a capo del partito di
maggioranza Fidesz) e il governo? Il Washington Post e altri giornali
di rilievo puntano il dito contro il premier magiaro accusandolo di
autoritarismo e di censura ma Kovàcs è cauto sulle responsabilità di
Fidesz e Orban. “Il governo deve essere più deciso contro queste
tendenze discriminatorie e xenofobe, le violenze e gli atti; Fidesz
deve capire che il suo più grande nemico è Jobbik e l’estremismo di
destra”. I fantasmi continuano a gravare sulla società magiara,
prendono forma e il peso sulle spalle degli ungheresi, tutti gli
ungheresi, aumenta.
Daniel
Reichel - Pagine Ebraiche aprile 2012 - twitter @dreichelmoked
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In cornice - Leggere
l'Haggadah |
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La lettura dell'Haggadah
serve anche a studiare la nostra storia recente, la percezione che
abbiamo e abbiamo avuto di noi e della realtà circostante. Come? Tanto
per cominciare, guardando le illustrazioni che accompagnano il brano
dei 4 figli nella vostra edizione della Haggadah e in quella degli
altri
commensali, che di solito è diversa dalla vostra. Potreste sbirciare
mentre state seduti scompostamente, oppure fra una portata e l'altra.
Fate caso a come l'illustratore ha riprodotto il figlio cattivo, a
come, cioè, ha impersonificato il male. Nella Haggadah Rotschild (Nord
Italia, seconda metà del XV secolo) è un soldato, con corazza sul corpo
e ghigno sul volto, che sta per uccidere un ebreo (?) inginocchiato a
chiedere pietà – memoria degli eccidi del Medio Evo. Nell'edizione di
Amsterdam del 1695 è un antico soldato romano – segno che si sta
vivendo un periodo felice - , in quella di Leipnik in Germania
settentrionale di inizio XVIII secolo, un tipico signorotto tedesco,
pasciuto e ben vestito ma con la spada alzata pronta a colpire – a
dimostrazione delle persecuzione subite da quelle parti e in quegli
anni. Così anche in tempi più recenti. Nella Haggadah Szyk publicata a
Polonia intorno al 1940, il cattivo ha i baffi di Hitler, in quella
israeliana edizione Moked del 1964, ha sembianze arabe, una scimitarra
in mano e baffi orientali. Guardate anche le illustrazioni del figlio
saggio, e notate se sembra inverosimile o di altra epoca, o se invece
pare il rabbino della porta accanto. E che dire del figlio semplice? Ne
riparleremo il prossimo anno, a Dio piacendo. Hag Sameah.
Daniele
Liberanome, critico d'arte
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Tea for Two - Mad men-mania
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Don is back. Joan is back.
Betty is back. Roger is back. Dopo mesi di attesa il telefilm
rivelazione che dal 2007 tiene banco in tutto il mondo è tornato. I mad
men sono tornati. Instancabili pubblicitari di Madison Avenue, bevitori
incalliti, adulteri con un tale senso di colpa a intermittenza da far
arrossire Raskol'nikov, alle volte demenziali, ma irresistibili. Siamo
già alla quinta stagione. Sembrava ieri quando quello strano e
meditabondo Don Draper fumava lucky strike e sbevazzava old fashion.
Sembrava ieri quando la bellissima, elegante (tanto da aver lasciato
dietro di lei orde di donne che vogliono assomigliarle) Betty Draper ci
mostrava quanto essere una casalinga degli anni '60 con una casa con il
giardino, due figli e un marito canaglia fosse terribilmente
insufficiente per i suoi bisogni. Fiumi di inchiostro scorrono
impetuosi, ricchi di parole che nuotano esaltando, elogiando, gridando
al miracolo, alla rinascita di una tv di qualità. Ma la cosa che mi
colpisce maggiormente è il suo graduale miglioramento. Come una
formichina Mad men è iniziato lentamente, con poche speranze. Pensare
che all'inizio un po' noiosetto lo era. Bisognava adattare gli occhi a
quella cupezza illuminata solo da qualche luce al neon che rendeva
tutto un po' malaticcio. Poi il legno, la moquette, le tendine
marroncini. A dare colore ci pensavano i capelli rosso fuoco di Joan e
gli abiti pastello di Betty. Macché dico, i colori sono stati e saranno
sempre loro, le mad women. Quelle che alla fine lavano i bicchieri da
Martini stando attente a non romperli. Matthew Weiner, creatore della
serie nato a Baltimora e da genitori ebrei, nel 2011 è stato inserito
dal Times nella lista delle 100 persone più influenti del mondo. Ed
effettivamente la Mad men-mania è scoppiata, ma in maniera assai
raffinata. Non ci sono ragazzine urlanti che incitano Jon Hamm/Don
Draper a renderle vampire mordendole sul collo come è successo con
Twilight. E non mi risulta che qualcuno abbia iniziato ad attaccare
lucchetti sul ponte di Brooklyn. I cultori della serie sono
irrimediabilmente snob. Ma di uno snob simpatico. Prima sono arrivate
le barbie della Mattel acconciate come i protagonisti. Poi decine di
libri: da come impararsi a vestire, ai cocktail e come organizzare una
festa in puro stile NY anni '60 (cosa che voglio applicare il prima
possibile). Così adesso un po' tutti ci sentiamo un po' Mad a fingere
di saper preparare un Martini con uno shaker di plexiglass. Unica
pecca? Mi dispiace non veder più una delle prime amanti di Don, Rachel
Menken, proprietaria di un grande magazzino che si rivolge all'agenzia
pubblicitaria per svecchiarne l'immagine. Se vogliamo poi continuare
sulla linea di riferimenti a noi vicini, la puntata 1x06 si incentra su
nuovo prodotto da pubblicizzare: il turismo in Israele e per farlo gli
uomini di Madison Avenue cercano di documentarsi perfino leggendo
Exodus. Mad Men è tornato. Fidatevi è un marchio garantito. Bisogna
fidarsi della pubblicità. O no?
Rachel
Silvera, studentessa
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notizie
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rassegna
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Studenti nel nome di Primo Levi per il viaggio della Memoria |
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Leggi la rassegna |
È dedicata a Primo Levi, in ricordo del quale è stato
organizzato in
questi giorni un simposio di studi nel venticinquesimo anniversario
dalla scomparsa, la quarta edizione del "viaggio della Memoria" nei
luoghi della Shoah, che coinvolge quest'anno più
di 600 studenti. Ad accompagnare il gruppo di
cui fanno parte cento insegnanti anche il presidente della
Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, il presidente della
Provincia di Roma Nicola Zingaretti, l'assessore alla Scuola, Paola
Rita Stella, il responsabile del Progetto memoria della Provincia,
Umberto Gentiloni e Marcello Pezzetti, presidente della Fondazione
Museo della Shoah.
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
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