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11 aprile
2012 - 19 Nisan 5772 |
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David
Sciunnach,
rabbino
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In base a quanto
prescritto dalla Torah (Levitico 23 ,15-16) si contano per sette
settimane, tutte le sere, i giorni che vanno dal secondo giorno di
Pesach (16 Nissan) fino alla vigilia di Shavu’oth
(5 Sivan). Questo periodo è detto dell’ Òmer, perché nel primo giorno di
esso si incominciava ad offrire, nel Santuario di
Gerusalemme, una misura del nuovo orzo, detta appunto Òmer. In ricordo
di ciò i nostri Maestri hanno stabilito che tali giorni vengano
ricordati con un computo progressivo fino alla festa di Shavu’oth.
Questo periodo ricorda anche le sette settimane di preparazione dei
figli d’Israele tra la Yetziat-Mitzraim – l’uscita dall’Egitto ed il
Mattan Torah – il dono della Torah. L’obbligo di contare l’Òmer è
sancito nel Trattato Talmudico di Menachoth 65b, ma la benedizione
compare solamente nei formulari del tardo Medioevo. Questo periodo,
originariamente, era caratterizzato da eventi lieti, ma dopo la morte,
nel periodo romano, dei 24mila studenti di Rabbì Akivà, esso è
accompagnato da un’atmosfera di tristezza e lutto. Conformemente al
pensiero kabalistico ogni giorno, di queste sette settimane, viene
messo in relazione con una delle sette Sephirot (Ipostasi o
Attributi Divini) e a riflessioni mistiche sui nomi divini,
i quali, combinati fra loro, costituiscono 49 connotazioni spirituali
che in questo periodo debbono essere risvegliate. Così come, secondo la
tradizione, i figli d’Israele risalirono i 49 livelli d’impurità nei
quali erano precipitati durante la loro permanenza in terra d’Egitto,
noi compiendo questo computo risaliamo nei 49 livelli.
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Davide
Assael,
ricercatore
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Ogni tanto tocca commentare le
parole di qualche autorevole intellettuale contro lo Stato di Israele.
Questa volta è il turno di Günter Grass e della sua “poesia”. Io
ammetto che l’etica ebraica non sia l’unico percorso possibile ed
ammetto che da altre prospettive si possano giudicare le vicende
israeliane in maniera diversa. Così come penso che Israele non possa
sfuggire a giudizi politici come qualunque altro Stato. Ma mi chiedo,
non vede questa gente l’analogia di toni fra queste critiche e il più
classico dei sentimenti antisemiti, che descrive il mondo ebraico come
chiuso in se stesso e indifferente alle sorti degli altri? E non si
rende conto dove questi argomenti hanno portato? Non bastano, caro
Presidente Monti, una visita allo Yad Vashem e qualche parola di
circostanza per scalfire l’antisemitismo europeo, che sempre più si
rivela essere una delle strutture profonde dell’antropologia
occidentale; così prima e anche dopo la Shoah.
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Contando
l'Omer - "Fascio di spighe e unità di misura" |
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Mercoledi 11 aprile quarto giorno
dell'Omer
Nelle antiche traduzioni italiane della Bibbia 'omer è spesso reso con
“manipolo”, ciò che si prende con una mano. In italiano, come in
ebraico, indica sia un fascio di spighe che un'unità di misura. Ma in
italiano la parola, di origine latina, ha anche un uso militare, per
indicare un gruppetto di soldati, dall'esercito romano alla milizia
fascista (che rimaneva collegata all'idea del “fascio”), entrambi
ricordi per noi poco simpatici. Il termine militare romano deriverebbe
“dal fastello di fieno legato in cima a una pertica che sarebbe stato
la prima insegna della schiera” (DEI). In ebraico nell'omer è rimasto
solo il riferimento all'agricoltura che ha dato poi il nome a un
periodo del calendario, non vi sono usi militari. Ma è il paradosso
dell' 'omer, che da periodo originario di festa e di pace è diventato
ricordo di momenti difficili di scontro con un mondo a noi ostile.
rav Riccardo
Di Segni, rabbino capo di Roma
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Primo Levi e il lungo
addio al Novecento |
Ricorrono oggi i 25
anni dalla scomparsa di Primo Levi. Molte in Italia e nel mondo le
iniziative dedicate al grande intellettuale ebreo torinese in occasione
di questo significativo anniversario. Dal simposio internazionale in
quattro giorni da poco conclusosi a Roma alla pubblicazione da parte di
Einaudi di una nuova edizione (a cura di Alberto Cavaglion) di Se
questo è un uomo. In svolgimento, in queste ore al Memorial de la Shoah
di Parigi, un convegno dal titolo Primo Levi, l'Uomo, il Testimone, lo
Scrittore. Tra i prossimi appuntamenti, domenica 6 maggio alle 16 nella
sede della Comunità ebraica di Torino, un prestigioso incontro di studi
che approfondirà il legame dell'autore con le proprie radici.
La figura e l’opera di Primo Levi, a 25 anni dalla morte, costituiscono
un passaggio essenziale per riflettere sulle passioni del Novecento, ma
anche su ciò che il Novecento ha lasciato in eredità a questo XXI
secolo. Venticinque anni fa moriva Primo Levi. Ci saranno molte
occasioni e appuntamenti nelle prossime settimane per riflettere
sull’attualità o sulla distanza che avvertiamo con la sua figura e con
la sua scrittura. Probabilmente molti insisteranno a partire da una
ricezione difficile, contrastata, comunque problematica di Se questo è
un uomo (oppure dai temi di che costituiscono I sommersi e i salvati)
intorno alla storia della Memoria, sulla lenta difficile e contrastata
questione del rapporto su letteratura e testimonianza, con particolare
riferimento al caso italiano. E’ un tema pertinente, certamente
centrale nella fisionomia di Primo Levi con tutto ciò che ne consegue
in termini di storia di una scrittura, di rapporto tra impegno,
presenza e riflessione pubblica. E, infine, tra elaborazione della
propria esperienza e riflessione su ciò che di essa rimane. Si potrebbe
osservare anche se con apparente spessore più stretto come altre
scritture abbiano avuto un identico destino nel corso del Novecento.
Anzi come per esse oggi sia suonata una triste ora di oblio, come se
per davvero esse appartenessero a un tempo che non è più il nostro.
Penso, tanto per fare due esempi, anche solo limitati alla letteratura
italiana a L’orologio di Carlo Levi o a Un anno sull’altopiano di
Emilio Lussu. Due opere in cui il rapporto tra entusiasmo ed elusione,
o tra progetto e sconfitta (penso a Carlo Levi) o la carneficina della
guerra, la morte inutile, il senso di smarrimento (come nel caso di
Lussu) sono parte indubbiamente della “qualità” della vita (e della
morte) alla data di oggi. Due opere, tuttavia, che sono oggi
completamente marginalizzate nella lettura e nella memoria collettiva.
Tuttavia, questo approccio, certamente capace di proporre una lettura
universalistica di Primo Levi, credo che alla fine metta in ombra altri
aspetti della riflessione civile del celebre intellettuale torinese.
Per essere più precisi: la fisionomia di una riflessione civile che non
è connessa alla Memoria ma alle problematiche inerenti la qualità della
nostra vita quotidiana, ora. E che, perciò, debba rileggere quel
rapporto con la memoria, provando a scegliere questo secondo percorso.
Una riflessione che da quell’esperienza si diparte – ovvero per essere
espliciti che ha diretta connessione con la questione di Auschwitz – ma
che non è unicamente la Shoah. Primo Levi è una figura universale non
solo per l’esperienza che ha vissuto, ma soprattutto per il carattere
che ha dato alla sua riflessione pubblica in relazione a
quell’esperienza. Una riflessione che non riguarda solo i temi, ma
anche la capacità di porre questioni che in questi 25 anni sono
continuate ad essere rilevanti. Venticinque anni fa, al momento della
sua morte, ancora non erano delineate quelle condizioni di “addio al
Novecento” che oggi a noi sembrano molto chiare. Ne cito alcune: la
fine del lavoro industriale; il senso del lavoro manuale; la rilevanza
che è venuta assumendo la questione della Memoria; lo sconvolgimento
degli assetti e dei poli di attrazione politica, sociale, culturale,
ossia il tramonto della Guerra fredda; la nascita incerta dell’Europa.
E nel panorama italiano: la crisi dell’antifascismo; il degrado della
lingua; la fine della “provincia”; il rapporto inquieto con le culture
locali. A lungo Primo Levi ha ragionato “da solo”, nell’Italia della
ricostruzione e del boom industriale, sulla sua esperienza tragica, sul
senso pubblico e civile di quella riflessione, quei temi hanno avuto un
peso rilevante in relazione alla qualità del suo interrogare il suo
presente di allora, e hanno un peso anche ora. Allo stesso tempo quella
riflessione non era disgiunta dalle incertezze del proprio tempo, dalle
domande e dalle inquietudini di un Paese che doveva fare i conti con il
passato, trovare il senso della propria continuità, misurarsi con le
trasformazioni sociali ed economiche indotte dalla modernizzazione.
Dentro alla riflessione e alla scrittura civile di Primo Levi si
intrecciavano così non solo le questioni della Memoria, ma anche quelle
riferite al profilo di un Paese alle prese con la sua metamorfosi e
impegnato a confrontarsi con le passioni che hanno attraversato
l’Italia tra anni Cinquanta e anni Ottanta. Quelle stesse passioni
stanno ancora davanti a noi. Si tratta di definire quale sia la
funzione pubblica dell’intellettuale o, più generalmente, dello
scrittore civile rivendicando soprattutto la sobrietà, la didattica
della riflessione sommessa e paziente. Di comprendere cosa significa
riflettere sul lavoro e la sua qualità in un’epoca fortemente segnata
dal suo degrado e che l’esperienza concentrazionaria aveva così
radicalmente contribuito a svilire. Di capire cosa e come si produca la
Memoria in unì’epoca in cui la terza età e l’affermarsi della quarta
età inducono a riflettere intorno alla coabitazione ella comunicazione
tra generazioni. Si tratta infine di riflettere su che cosa siano la
cultura e i tratti del carattere locale e che cosa significhi
continuità e innovazione e quale sia il rapporto e come coabitino
sapere scientifico e sapere umanistico a fronte di un rapporto
polarizzato. Come si ricostruisce la propria autobiografia culturale e
dunque quali siano le molte sinapsi che si attivano. Senza dimenticare,
peraltro, che accanto a quei temi stava la Memoria della propria
esperienza tragica, del confronto drammatico e talora affaticato con
altri che con quell’esperienza si sono misurati. Ma questo appunto
stava in un reticolo ed era parte di un costrutto, senza definire una
struttura gerarchica di cause, effetti, di centro e di periferie. Non
varrebbe perciò la pena cogliere quest’opportunità e provare ad aprire
– se non timidamente almeno sommessamente – quel cantiere di
riflessione pubblica che Primo Levi ha in una forma precisa delineato e
lasciato in eredità?
David
Bidussa, Pagine Ebraiche, aprile 2012
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Qui Roma - Insieme per il prossimo. Nel nome di Gilad |
L'obiettivo
è quello di avvicinare i giovani al volontariato portandoli a confronto
con le sfide e con le gratificazioni dell'impegno nel sociale. Lanciata
negli scorsi giorni con un primo incontro informale svoltosi al centro
culturale Il Pitigliani, una intensa collaborazione nel segno di
iniziative e progetti congiunti prenderà presto avvio tra Unione
Giovani Ebrei d'Italia e Associazione Nazionale Vigili del Fuoco in
Congedo Gilad Shalit, gruppo nato di recente per rendere omaggio al
giovane soldato israeliano lungamente prigioniero di Hamas e per le
sorti del quale molte milioni di persone, in Italia e nel mondo,
avevano trattenuto il fiato per quasi cinque anni e mezzo. Già
operativa su numerosi fronti, dagli eventi sportivi all'emergenza neve,
l'Associazione è presieduta da Alberto Pontecorvo e presenta varie
opportunità di sostegno e partecipazione. “Guardiamo al volontariato
con molto interesse e in questo senso – spiega il presidente Ugei
Daniele Regard – auspichiamo di fare da ponte verso una realtà che che
merita di essere conosciuta e frequentata. Alcuni ragazzi si sono già
iscritti dopo l'incontro al Pitigliani, altri ancora spero lo faranno a
breve”. La prossima occasione in questo senso si presenterà per la
festa di Lag Ba Omer (10 maggio) con una grigliata comune nella
Capitale. Sul fuoco in quella occasione tanta carne, ma anche progetti
e idee di qualità.
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Il Titanic, Pesach e il Brit Milah |
Esattamente
cento anni fa, il Titanic, l’inaffondabile, navigava in mezzo
all’oceano Atlantico, per il suo primo (e ancora non si sapeva, ma
ultimo) viaggio da Southampton a New York. A ricordarcelo sono
programmi televisivi, articoli di giornale, il colossal di James
Cameron con Leonardo di Caprio e Kate Winslet che 15 anni dopo è
tornato al cinema in versione 3D. A ricordarmelo, durante questi giorni
di Pesach, è stato anche il discorso del rav Avraham Hazan in occasione
del secondo giorno di Moed. Il rav è partito dal fatto che la cerimonia
del Brit Milah è, insieme al Seder di Pesach, l’unico momento in cui è
previsto l’arrivo di Eliyahu HaNavì, il profeta Elia, e ha raccontato
una storia che del significato di questa mitzvah è intrisa. Una storia
originariamente pubblicata sul libro “In Titanic: Women and Children
First” (Sul Titanic: prima donne e bambini) di Judith B. Geller. Il
Titanic lasciò il porto di Southampton il 10 aprile 1912, il giorno
dopo la fine di Pesach 5762. A bordo, in terza classe, anche Leah Aks,
18 anni e il suo bimbo di dieci mesi Philip. Nata in Polonia, Leah
partiva per raggiungere il marito Sam negli Stati Uniti. Quando in
quella terribile notte del 14 aprile i membri dell’equipaggio aprirono
finalmente i cancelli della terza classe per far passare donne e
bambini, Leah e Filly riuscirono a raggiungere il ponte per cercare
salvezza sulle scialuppe. Ma mentre stavano per imbarcarsi, un uomo,
impazzito, strappò il bambino dalle braccia della madre, e urlando “Ora
ti faccio vedere che significa prima donne e bambini”, gettò il piccolo
fuoribordo. Leah, distrutta, fu spinta su una scialuppa. Alcune ore
dopo, la nave Carpathia, arrivò a raccogliere i sopravvissuti.
Passarono due giorni. Leah stava facendo un giro sul ponte dove
un’altra passeggera l’aveva convinta a salire per prendere un po’
d’aria, quando sentì il pianto di un bambino. Suo figlio. Senza che lei
lo sapesse infatti, Filly era caduto su una scialuppa, direttamente fra
le braccia di una donna italiana, Argene Del Carlo, sposata da pochi
mesi e incinta. Al marito non era stato permesso seguirla e Argene si
convinse che quel bambino le fosse stato mandato per compensarla della
perdita del marito e perché il piccolo che portava in grembo avesse un
fratellino. Quando Leah reclamò suo figlio, la donna rifiutò di
restituirglielo e il caso finì davanti al Capitano della nave che si
trovò, come Salomone, a dover decidere chi fosse la vera madre. Ma
Filly era circonciso, come solo un bambino ebreo poteva essere: così fu
restituito a Leah, che poté ricostituire la sua famiglia. Nove mesi più
tardi, al piccolo nacque una sorellina, che i genitori decisero di
chiamare Sara Carpathia in onore della nave della salvezza. Ma
all’ospedale le infermiere si confusero e registrarono la bambina come
Sara Titanic Aks. A bordo del Titanic c’erano 2207 passeggeri e
1178 posti sulle scialuppe di salvataggio. Molte di esse però si
riempirono solo a metà, e così i superstiti furono solo 705. A perire
nel naufragio furono anche molti personaggi illustri. Tra questi Isidor
Straus, comproprietario del famoso grande magazzino Macy’s e fidato
consigliere del presidente americano Grover Cleveland. Isidor e la
moglie erano amati e rispettati nella comunità ebraica newyorkese per
le loro opere filantropiche a favore di tutte le istituzioni cittadine,
e per l’aiuto che offrivano agli immigrati che giungevano in America
dall’Europa dell’Est per adattarsi alla nuova vita. “La loro vita fu bella, e la loro morte gloriosa” recita la targa che i dipendenti di Macy’s dedicarono loro.
Rossella Tercatin - twitter @rtercatin
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Le vere parole di Levi
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Esattamente un quarto di
secolo fa, l’11 aprile del 1987, Primo Levi, com’è noto, poneva termine
alla sua vita, precipitandosi nella tromba delle scale della sua casa
torinese. In questi 25 anni, la sua straordinaria testimonianza ha
raggiunto cerchie sempre più ampie di persone, in molti Paesi del
mondo, le sue opere sono state tradotte in diverse lingue, alla sua
figura sono stati dedicati numerosi libri, seminari, congressi, almeno
due centri di studio a lui nominati sono attivi, in permanenza, a
Torino e a New York. Parallelamente, la conoscenza della Shoah, nei
suoi infiniti episodi particolari, ha fatto – nonostante tutti i
negazionismi e revisionismi - passi da gigante, in tutto il mondo,
uscendo – anche se solo in parte - dalla zona buia di silenzio,
occultamento e rimozione a cui sembravano averla consegnata
l’ammutolimento dei sopravvissuti, la vergogna dei vinti, la cattiva
coscienza dei vincitori, l’universale desiderio di non parlarne, di
girare pagina. Soprattutto negli ultimi anni, com’è noto, la memoria di
ciò che è accaduto è diventata, pur tra non poche difficoltà e
controversie, una sorta di religione civile, una specie di “prima
pietra” della civiltà umana. Il contributo che la parola di Levi ha
dato a tutto questo è incommensurabile.
Un imprescindibile dovere, per chiunque intenda, in ogni modo, onorarne
la memoria, dovrebbe essere, a mio avviso, quello di difendere il suo
testamento morale dai ripetuti, insidiosi tentativi di manipolazione e
stravolgimento, messi in atto, a volte con lampante mala fede, e con
mezzi particolarmente vili, per piegarne l’insegnamento in direzioni
nuove, del tutto estranee ai suoi effettivi contenuti. Ci riferiamo, in
particolare, alla dolosa distorsione del pensiero di Primo Levi,
attraverso la quale, in più occasioni, le sue ripetute e, a volte,
severe critiche alla condotta dei governi israeliani sono state
artatamente trasformate in radicale delegittimazione dello stato di
Israele nel suo insieme, fino al logoro insulto del “ribaltamento di
posizioni”, che vedrebbe gli ebrei trasformati, da vittime di ieri, in
carnefici di oggi.
È merito di Domenico Scarpa e Irene Soave, con un denso articolo,
intitolato “Le vere parole di Levi”, pubblicato su Il Sole 24 ore di
domenica scorsa, 8 aprile, avere smascherato un falso particolarmente
turpe e maligno, per la gravità della sua portata e la vastità della
sua circolazione, ossia l’attribuzione a Primo Levi della seguente
frase: “Ognuno è l’ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei
di Israele”. Un’asserzione che, come documentano gli autori, è ormai
assurta al rango di “tenace leggenda metropolitana”, largamente
accreditata dall’autorità della rete, che la diffonde senza sosta.
Ormai la frase fa parte della storia, della biografia ufficiale di
Primo Levi, la cui vita, il cui pensiero e la cui morte sono
definitivamente votati alla santificazione dei “nuovi ebrei”, i
palestinesi, e alla demonizzazione dei “nuovi nazisti”, gli israeliani.
Peccato che Primo Levi non abbia mai detto niente del genere. Sua, nel
romanzo “Se non ora, quando?”, del 1982, è unicamente la frase generica
“Ognuno è l’ebreo di qualcuno”. In un’intervista apparsa su la
Repubblica del 28 giugno di quello stesso anno (l’anno dell’invasione
del Libano, in cui particolarmente violento fu l’attacco della comunità
internazionale contro Israele, e in cui Levi si pronunciò contro le
opzioni militari del governo di Begin), a proposito della presunta
analogia tra la condizione dei palestinesi di quel momento e quella
degli ebrei durante la Shoah, il pur critico Levi rifiutò espressamente
la grossolana equazione, ricordando che “non esiste un piano di
sterminio del popolo palestinese”. Ma, in un articolo apparso il giorno
dopo su il Manifesto, la famosa frase “Ognuno è l’ebreo di qualcuno” fu
riportata, tra virgolette, e commentata dall’articolista
(correttamente, dopo la chiusura delle virgolette) con la successiva
annotazione: “E oggi i palestinesi sono gli ebrei degli israeliani”.
Un’aggiunta, quest’ultima, che Levi noin ha mai scritto, mai detto, mai
pensato. Ma che, ciò non di meno, gli si è voluto falsamente
attribuire, semplicemente spostando di qualche carattere la chiusura
delle virgolette. Evidentemente, l’occasione di potere così sfruttare
il nome di Primo Levi contro la patria degli ebrei era troppo ghiotta
per potervi resistere.
Non imiteremo il comportamento dei falsari, e non trasformeremo Levi in
uno strenuo difensore di Israele. Non lo è stato. Ma ricordiamo che
l’ultima volta in cui ne ha parlato è stato nella pagina finale de I
sommersi e i salvati, pubblicato nel 1986, poco prima della sua morte.
E le sue ultime parole sono le seguenti: “I superstiti ebrei disperati,
in fuga dall’Europa dopo il gran naufragio, hanno creato in seno al
mondo arabo un’isola di civiltà occidentale, una portentosa palingenesi
dell’ebraismo, ed il pretesto per un odio rinnovato”.
Francesco
Lucrezi, storico
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notizie
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rassegna
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Israele - Uno studio sui tumori, presto curati come malattie croniche
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Leggi la rassegna |
Perché
non controllare i tumori come una qualsiasi malattia cronica? E' quello
che stanno studiando un gruppo di ricercatori del Technion-Israel
Institute of Technology e del Rambam Medical Center di Haifa in una
ricerca pubblicata su Stem Cells e riportata dall'Osservatorio Malattie
Rare. I ricercatori hanno in pratica scoperto un nuovo modello di
crescita e proliferazione delle cellule tumorali che faciliterà la
messa a punto di farmaci mirati e il processo di autorinnovamento.
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L'11
aprile di 25 anni fa, un sabato, Primo Levi precipitava dalla tromba
delle scale di casa sua, ed in Italia e non solo iniziano le
commemorazioni di colui che, come ricordava Piero Terracina nei giorni
scorsi in Polonia, tracciò il sentiero per tutti i deportati.
Emanuel Segre Amar
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