“Un Museo storico non deve
dare spazio né a ‘critici’ né a ‘difensori’! Deve ricostruire,
sintetizzare ed esporre fatti ed eventi, quando del caso esponendone la
problematicità, ma mai ponendosi come osservatore impossibilitato a
comprendere”. In un editoriale che apparirà sul prossimo numero di
Pagine Ebraiche, anche Michele
Sarfatti, storico e direttore della Fondazione Centro di
documentazione ebraica contemporanea interviene duramente nei confronti
dello Yad Vashem, il Museo della Shoah di Gerusalemme, punto di
riferimento mondiale per lo studio e il ricordo di quegli anni, che ha
deciso negli scorsi giorni di rivedere il testo che accompagna le
immagini di Pio XII, pontefice dal 1939 al 1958. Il riferimento è alla
scelta di esporre sia la tesi di coloro che criticano l’operato del
papa, sia quella di chi invece lo difende.
Il cambiamento operato dallo Yad Vashem ha suscitato negli scorsi giorni un ampio dibattito. Dura era stata la presa
di posizione del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni,
che l’aveva definito “una decisione che lascia l’amaro in bocca”,
ritenendola motivata da intenti politici più che storici.
Una dichiarazione che a Gerusalemme
non è passata inosservata: e così Dan Michman e Bella Gutterman,
rispettivamente capo e direttore dell’International Institute for
Holocaust Research, la storica Dina Porat e Yehuda Bauer, consulente
accademico, hanno deciso di rivolgersi al rav Di Segni “Come storici
della Shoah abbiamo letto con grande interesse e attenzione le sue
osservazione sull’Unione Informa del 2 luglio 2012.
Avendo il massimo rispetto per lei e per la sua opinione, desideriamo
affrontare i suoi commenti, che ci sembrano basati su cattive
informazioni” hanno spiegato gli storici in una lettera indirizzata al rav, esponendo poi le ragioni del
cambiamento. Gli studiosi
hanno negato con vigore l’asserzione che la revisione del testo rappresenti
il frutto di pressioni da parte del Vaticano (“Non ci sono parole per
smentire questa affermazione con forza sufficiente”), attribuendola
invece a risultati di anni di ricerche e all’attuale stato degli studi
sul tema e annunciando la prossima pubblicazione degli atti del
convegno sull’argomento del 2009, che forniranno le basi storiche del
nuovo pannello. Nel messaggio viene poi dato conto della scelta di
riportare sia le posizioni critiche nei confronti di Pio XII che quelle
dei difensori del suo operato, sottolineando come questa soluzione
rifletta meglio l’innegabile contesa che circonda le scelte del papa.
“Inoltre oggi viene proposto al visitatore il testo integrale del
messaggio radiofonico di Pio XII del Natale 1942, il punto centrale
dell’intera controversia” l'osservazione conclusiva.
Una spiegazione molto vicina a quella che è stata la considerazione
espressa dalla storica Anna
Foa all’indomani dell’annuncio “Il cambiamento della
didascalia su Pio XII al Museo di Yad Vashem era da tempo in programma.
Contrariamente a quel che si è subito detto dai media, non mi sembra
che la nuova didascalia rappresenti un ammorbidimento del giudizio
rispetto a quella precedente, che esprimeva una recisa condanna della
posizione di Pio XII verso lo sterminio degli ebrei europei. Quello che
la nuova didascalia riflette è, mi sembra, un giudizio più che morale,
storico: la consapevolezza che ci si trova all’interno di un dibattito
ancora aperto, in cui molta nuova documentazione ha già contribuito a
modificare le valutazioni e in cui ci si aspetta che l’apertura degli
archivi per gli anni della guerra porti altri contributi rilevanti. La
didascalia precedente era frutto, a mio avviso, di un giudizio
dogmatico, assoluto, che prescindeva dall’esistenza di un dibattito a
livello storiografico e dell’esistenza di nuova documentazione a
livello dell’individuazione dei fatti. La nuova apre la strada ad
ulteriori modifiche, in un senso o nell’altro, a dimostrazione che la
storia si basa sui documenti e sulle interpretazioni, non sui
pregiudizi politici o sul senso comune. E i responsabili di Yad Vashem
hanno dimostrato, con questo gesto coraggioso, di esserne pienamente
consapevoli". Mentre di “esigenza di revisione della scritta
illustrativa da tempo avvertita” aveva parlato il diplomatico e
saggista Vittorio Dan
Segre, che aveva aggiunto “Il fatto che l'istituto abbia
ora deciso di metterci mano dimostra che siamo vicini a nuovi accordi
complessivi fra Israele e Vaticano su cui si è a lungo lavorato e che
potrebbero essere presto siglati. La battaglia di chi da parte ebraica
vorrebbe condannare la figura di papa Pacelli a restare perennemente
rinchiusa in una dimensione di condanna morale senza appello non è alla
lunga sostenibile sotto il profilo politico e forse anche sotto quello
storiografico. Ma quello che più conta è comprendere che l'argomento,
da qualunque parte lo si voglia guardare, oggi è in grado di suscitare
solo un interesse limitato nelle opinioni pubbliche che le parti in
causa dovrebbero rappresentare. Certo interessa poco all'opinione
pubblica israeliana e certo ancora di meno a un mondo cattolico che
comincia a temere il moltiplicarsi di massacri ai danni delle
popolazioni cristiane in Africa e nel mondo islamico. C'è un
contenzioso da chiudere, fra Israele e il Vaticano, e questo deve
avvenire nel migliore dei modi possibili senza lasciarsi condizionare
eccessivamente dalle ferite che la storia ci ha lasciato in eredità”.
Chiarimenti e spiegazioni che però non hanno rassicurato il rabbino
capo di Roma. “Non è la disinformazione, ma la mancanza di
informazioni, la ragione delle mie considerazioni. Se esistono
ulteriori documenti in vostro possesso, lasciate che altri, studiosi e
non, li conoscano. In caso contrario il pubblico sarà, così come si
sente adesso, scioccato da quella che sembra essere una decisione
unilaterale - ha sottolineato rav Di Segni nella sua risposta agli
studiosi dello Yad Vashem, esprimendo poi il dolore della sua gente -
Vi prego di comprendere l’impatto della vostra decisione sulla nostra
comunità. Non sono storici, è gente che la storia l’ha subita. Possono
cambiare la loro opinione, ma solo sulla base di fatti e di documenti”.
Sulla stessa lunghezza d’onda era stata la presa di posizione
dell'ambasciatore Sergio
Minerbi, esponente di spicco della comunità degli Italkim
e considerato fra i massimi esperti delle relazioni fra Israele e il
Vaticano. “Che vergogna, è bastata una protesta del Nunzio della Santa
Sede, per far cambiare allo Yad Vashem il testo della didascalia sotto
la fotografia di Pio XII. Non so se sia per incompetenza in materia o
per voler andar d'accordo con tutti, ed ignoro fino a qual punto abbia
influito l'ebreo americano Gary Krupp, di Pave the Way, fiero della sua
decorazione vaticana, la ‘patacca’ di San Gregorio Magno. Nel nuovo
testo, se verrà confermato, Yad Vashem agisce come se fosse neutrale in
materia e si limita ad affermare che alcuni critici ‘sostengono che ci
fu un fallimento morale’. Ma l'istituto non ha un'opinione propria su
una questione tanto sensibile? E allora a che serve questa mastodontica
istituzione, cosa insegna ai suoi numerosi ricercatori? Come è
possibile ammettere che Yad Vashem si limiti a constatare che ‘la
reazione di Pio XII è questione controversa fra gli studiosi’? Va in
ogni caso ricordato che Pio XII non pronunciò una sola volta in
pubblico la parola ebrei durante tutta la seconda guerra mondiale,
questo punto almeno non è oggetto di controversia. Alla deportazione
degli ebrei di Roma, Pio XII non reagì né in pubblico né in segreto. I
suoi incontri diplomatici in quei giorni vertevano su Roma città aperta
o sui rifornimenti alimentari e nulla più. Yad Vashem potrebbe agire
secondo l'esempio di un gesuita, John Morley, che termina il suo libro
sulla Shoah con queste parole: ‘Bisogna concludere che la diplomazia
vaticana fallì nei confronti degli Ebrei durante l'Olocausto non
facendo quanto era possibile fare (per venire) in loro aiuto’.”
Una soluzione, almeno parziale, della controversia, potrebbe venire
dall’apertura degli archivi vaticani. Un auspicio condiviso da tutti
gli storici e ribadito anche dal canadese Michael M. Marrus,
professore di Holocaust studies all’Università di Toronto, che
ha commentato gli accadimenti sul New York Times “Diversi anni fa, il
Vaticano, rispondendo alle insistenti richieste di studiosi e non,
compresa una commissione storica ebraico-cattolica di cui io stesso ho
fatto parte, ha finalmente accettato di mettere gli archivi a
disposizione dei ricercatori. Ad oggi questa promessa non ha avuto
alcun seguito. Finché questo non accade, seri interrogativi a proposito
di papa Pio XII persistono”.
Rossella
Tercatin twitter
@rtercatinmoked
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Qui Roma - La città unita a presidio della Memoria
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Un'ondata
di indignazione sta attraversando la capitale a seguito della
rimozione, da parte di ignoti teppisti antisemiti, della targa
toponomastica di via Settimia Spizzichino, la strada intitolata
all’unica donna sopravvissuta alla deportazione degli ebrei dal ghetto
di Roma del 16 ottobre 1943. La nipote della donna Carla Di
Veroli ha lanciato un appello alla mobilitazione “Credo che questa sia
la risposta di coloro che male hanno sopportato la mia recente
battaglia per impedire che a Roma fosse intitolata una strada a Giorgio
Almirante. Chiedo che tutte le forze democratiche e antifasciste
rispondano ad un oltraggio così grave, fatto contro la memoria di
Settimia Spizzichino, unica donna tornata viva dalla retata del 16
ottobre del 1943 nel Ghetto di Roma. Mi aspetto che il presidente del
Municipio Roma XX (dove si trova la via ndr) e il sindaco Alemanno
ripristino immediatamente la targa sottratta, con una cerimonia
cittadina". Una richiesta fatta propria anche dal presidente della
Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici “Qualora si tratti di un
'semplice' atto vandalico, è evidente che la condanna è netta. Rivolgo
al contempo un appello al sindaco, affinché venga ripristinata la
targa, perché Settimia Spizzichino, unica sopravvissuta alla retata del
16 ottobre del 1943, rappresenta un simbolo - ha sottolineato, offrendo
anche il suo personale ricordo - Quella di Settimia è una storia
particolare: è la storia di una donna, l'unica, che appena rientrata
decise di iniziare a raccontare, di fronte alle perplessità di molti,
ciò che aveva vissuto. E lo ha fatto fino alla sua morte. Settimia
Spizzichino è stata una donna che ha continuato a combattere, ogni
giorno della sua vita, contro le ideologie nostalgiche del nazismo e
del fascismo. Se invece stiamo parlando di un atto ostile, proprio per
i significati che ho appena enunciato - ha poi ammonito Pacifici - è
evidente che oltre a ripristinare la targa, è corretto promuovere
insieme a tutte le autorità locali (Comune, Regione, Provincia), una
grande cerimonia. In quell’occasione Roma vorrà gridare che la città
vuole la sua via alla memoria di Settimia Spizzichino. Oltre a
condannare queste azioni, che ogni tanto si ripresentano nella città e
non solo a Roma, dobbiamo anche dire a questi signori che non ci
impauriscono. Se loro hanno voglia di riproporre gesti così vigliacchi
e di infierire su una donna che ha visto tutto, noi continueremo a
combatterli. Le istituzioni tutte, a cominciare da quelle cittadini,
monitorino i luoghi di aggregazione di coloro che si rifanno a certe
ideologie, perché alimentano nelle giovani generazioni un culto di
un'ideologia che noi mai sopporteremo in questo Paese, nato sulle
ceneri del nazifascismo”. Pronta la risposta delle autorità
locali. Per il presidente della provincia Nicola Zingaretti “l'episodio
è una ferita per la città, un gesto vigliacco che colpisce
profondamente tutti noi. Per questo mi auguro che venga ripristinata in
tempi brevissimi. Settimia Spizzichino rappresenta un'eroina dei nostri
tempi, una donna coraggiosa che ha avuto la forza di condividere i suoi
atroci ricordi, raccontando tutte le terribili umiliazioni subite e le
sofferenze vissute alle nuove generazioni. Le sue parole sono state di
enorme valore per tutti noi: hanno contribuito a non disperdere la
memoria della Shoah. Mi auguro che il prima possibile siano individuati
i responsabili di tale gesto e individuate le ragioni della rimozione
della targa. E’ opportuno, e non è secondario - ha concluso Zingaretti
- capire se si è trattato di un atto vandalico o di un atto rivolto a
colpire un simbolo della storia della Shoah”. “E’ stato un gesto vile
che offende la memoria e l’onore di una donna che ha vissuto il male
assoluto della Shoah. Il Campidoglio ripristinerà la targa al più
presto con una cerimonia di commemorazione aperta a tutta la città.
Simili comportamenti vanno condannati con assoluta fermezza. Roma,
città simbolo della lotta di liberazione, dei valori di civiltà,
libertà e democrazia, non merita di essere sfregiata in questo modo” la
dura condanna del sindaco Gianni Alemanno.
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Davar Acher - Hatikvah
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Anche a me sembra importante
commentare la bizzarra proposta di “rivedere” se non di abolire del
tutto l'inno nazionale Hatikvah “per rispettare la sensibilità degli
arabi” che è stata avanzata in Israele un mese fa da alcuni
intellettuali e militanti di sinistra, ed è stata oggetto di
un'inchiesta nell'ultimo numero di Pagine ebraiche (clicca qui per leggerla su Facebook) e di
un commento di Francesco Lucrezi su
questo sito. La discussione, decisamente improponibile in tutto il
resto del mondo, mi sembra infatti un sintomo assai caratteristico del
distacco di una certa - autodesignata - élite intellettuale e
giornalistica israeliana dai sentimenti del paese e anche dal buon
senso. Non ripeterò qui gli argomenti esposti da Lucrezi per illustrare
l'assurdità dell'idea, argomenti che sottoscrivo integralmente. Vorrei
invece provare a mettere in luce le illusioni che stanno alla base di
una proposta come questa e di molti altri atteggiamenti “post-sionisti”
in Israele e altrove.
La prima illusione è quella un po' infantile della responsabilità
universale del popolo ebraico o di Israele per tutto quel che gli
accade. Basterebbe che noi ci comportassimo nella maniera giusta, che
fossimo buoni e bravi e saremmo finalmente al riparo di ogni guaio. Per
questa illusione, i pacifisti dicono che siamo noi e non gli arabi che
portiamo la responsabilità del conflitto in Medio Oriente e possiamo
risolverlo comportandoci a dovere; come - sostengono alcuni charedim -
è stata colpa nostra e non di Hitler la Shoah, e magari la colpa è
stata proprio quella di provare a tornare in Eretz Israel. Si può
considerare quest'illusione come una versione collettiva di quella
”onnipotenza infantile” che come sanno gli psicologi dell'età evolutiva
genera il “pensiero magico” dei bambini e anche certi persistenti sensi
di colpa per disgrazie con cui il bambino non può fare nulla, come la
scomparsa di parenti. Oppure la si può vedere una versione rozzamente
laicizzata della responsabilità che nella nostra tradizione solo la
Divinità può imporre a Israele per i suoi peccati. Il fatto è che tutta
la nostra storia di piccola minoranza dispersa fra gli altri popoli
mostra che è la loro iniziativa e non solo la nostra, sono le loro
modificazioni economiche e sociali e non solo la nostra etica a dar
luogo alle maggiori vicissitudini del nostro popolo. Qualcosa accadde
nell'XI secolo nell'Europa renana, nel XV in Spagna, nel XX in Germania
per provocare le persecuzioni; non certo nei comportamenti degli ebrei
che le subirono.
La seconda illusione, in un certo senso subordinata a questa, può
essere definita della proba cittadinanza: se ci comportiamo secondo i
modi approvati dai popoli, se ci conformiamo ai criteri e agli usi
della società circostante, se mangiamo e ci vestiamo come fanno loro,
se adottiamo le politiche prescritte dai preti o dagli intellettuali
(che in fondo sono solo la versione modernizzata dei primi), se
diventiamo patrioti leali, bravi cittadini indistinguibili dagli altri,
ebbene, allora smetteranno di volerci male e farci male, saremo
finalmente accettati. Che la maggior parte degli ebrei tedeschi
perseguitati da Hitler o di quelli italiani discriminati da Mussolini
fossero per l'appunto bravi borghesi che si vestivano, ascoltavano
musica e leggevano poesie come gli altri, che avevano partecipato con
onore allo sviluppo del paese e magari si erano conquistate medaglie in
guerra; che gli ebrei dell'URSS fossero più socialisti dei loro
concittadini, eppure che gli uni e gli altri siano stati perseguitati,
espulsi, distrutti - non ha insegnato molto a chi nutre
quest'illusione. E non vale l'obiezione che fascismo, nazismo e
comunismo erano dittature totalitarie e in una democrazia questa cose
non accadono. Anche Dreyfus era un ottimo cittadino e soldato di una
patria democratica, ma questo non impedì la sua degradazione e condanna.
La terza illusione, più specificamente legata a Israele, è quella del
buon vicinato: se convinceremo gli arabi che non siamo dei cattivi
vicini, anzi, che la nostra convivenza può essere di vantaggio per
loro, e che comunque noi non vogliamo loro male, anzi nutriamo simpatia
e vogliamo essere amici, il conflitto che dura da un secolo si calmerà
finalmente e tutti vivremo felici e contenti. Secondo questa illusione,
i responsabili del sionismo hanno avuto troppa fretta, o troppe cattive
maniere, o troppa incapacità di mostrare la loro volontà di
collaborazione, troppa indifferenza per la nobile cultura araba e di
qui è nato il conflitto: questione di equivoci, naturalmente, oltre che
colpa nostra, secondo l'illusione numero uno. Bisogna dunque rimediare:
se mostreremo la nostra volontà di amicizia, se dunque faremo dei passi
indietro e daremo dei segnali di non voler essere troppo ebrei in
Israele ma ci sforzeremo di assumere un basso profilo e un colore
neutro, se dunque rinunceremo all'inno (e magari, come suggerisce
ironicamente Lucrezi, anche alla bandiera, allo stemma nazionale, al
nome del paese), come d'incanto gli arabi capiranno che siamo buoni
come certamente sono loro e (secondo l'illusione numero due),
rinunceranno a far la guerra contro di noi e saranno finalmente
disponibili ai magnifici destini e progressivi che si apriranno alla
nostra collaborazione. Che questa sia un'illusione, perpetuata da
decenni da alcune anime belle ben decise a ignorare la realtà, è
dimostrato dalla lunghezza e dalla durezza del conflitto. Sono
cent'anni che gli arabi spargono il nostro sangue - e senza dubbio
anche il loro - per espellerci dal Medio Oriente; i vantaggi economici,
la buona volontà di alcuni, la pressione internazionale non contano; se
ci sono delle interruzioni della violenza queste sono per loro delle
tregue in un compito che dev'essere realizzato e lo sarà senz'altro.
Ancora in questi giorni, se a Tel Aviv qualcuno manifesta per la pace,
a Ramallah si fanno manifestazioni contro la lontanissima possibilità
di una ripresa delle trattative.
La quarta illusione, dipendente dalle altre tre, è che degli atti
simbolici e anche molto concreti di apertura alle ragioni dell'altro
possano disinnescare il conflitto. Andarsene da Gaza o lasciare all'Anp
buona parte dei territori liberati nel '67 non ha affatto diminuito la
violenza, anche se la separazione dei popoli può avere un senso
strategico. Sostituire la Hatikvah con “Funiculì funiculà”, il Maghen
David sulla bandiera con un felafel stilizzato e rinominare Israele
“Aranceto” o “Bagni Mariuccia” o come vi pare, non risolverebbe affatto
il conflitto. Anzi, tutto ciò sarebbe letto dall'altra parte, così come
è avvenuto per tutte le concessioni del passato, come un segno di
debolezza e rinfocolerebbe le certezze arabe e la combattività che ne
deriva.
E in effetti questa lettura sarebbe giusta: perché rinunciare all'inno
che ha segnato tutto il tragitto del movimento sionista e riassume le
ragioni dell'iniziativa ebraica dell'ultimo secolo e mezzo sarebbe una
sorta di suicidio simbolico. Certo, la Hatikvah non è lo Shemah o il
Kaddish, non contiene il cuore religioso del popolo e ebraico se non
per cenni (gli accenni a Sion, per esempio, che i riformisti vorrebbero
togliere). Ma essa riassume il destino storico che si è assunto il
nostro popolo: cancellarlo, per simbolizzare un'improbabile nazionalità
israeliana distinta da quella ebraica, sarebbe una ferita gravissima
insieme all'identità ebraica e a quella di Israele (o dell' “Aranceto”
prossimo venturo). L'ebraismo, estirpato da Israele, si troverebbe
ridotto suo malgrado al ruolo di fossile religioso stranamente
sopravvissuto, come lo hanno definito per secoli la Chiesa e in era
moderna anche gli intellettuali laici. Israele diverrebbe un paese
senza ragione e senza identità, senza progetto, davvero quel residuo
coloniale fallito che vedono gli ultrasinistri di tutti i tipi e le
nazioni. Ma il suicidio simbolico, è bene ripeterlo, non impedisce
affatto la guerra e il tentativo di genocidio: gli ebrei laici e
dimentichi di sé furono travolti dalla Shoah come i più sionisti o i
più religiosi. Gli arabi continuerebbero ad assalire l' “Aranceto”,
entrerebbero nelle case dei falafalisti o orangisti che fossero e ne
sgozzerebbero i bambini, se non si fossero previamente convertiti, e
continuerebbero a volere un Medio Oriente Judenrein. Conclusione:
abbandoniamo le illusioni, nei limiti del possibile, cerchiamo di
essere noi stessi e di assumere con dignità il nostro destino storico
comune.
Ugo
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Tirat Tzvi batte tutti sul caldo
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Il
kibbutz israeliano di Tirat Tzvi, 220 metri sotto il livello del mare,
entra nella top ten dei posti più caldi al mondo della classifica
stilata dalla rivista Foreign Policy. Il termometro di Tirat Tzvi ha
infatti segnato i 53,88 gradi centigradi nel 1942, la nona temperatura
più alta mai registrata. Il primato va al deserto iraniano di Lut (70
gradi), mentre al quinto posto figura la famosa Death Valley
californiana.
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Cominciamo la lettura dei
giornali rimandando all’intervista di Alain Elkann a Jonathan Sacks su la Stampa. Il Gran rabbino della
Gran Bretagna e del Commonwealth, nota figura di umanista, conosciuto
nel nostro paese grazie anche alla traduzione del suo libro su «la
dignità della differenza» (pubblicato da Garzanti nel 2004), riflette,
tra le altre cose, sul «principio speranza» come strumento nella
costruzione dei rapporti interpersonali e come elemento fondamentale
della democrazia.
continua
Claudio Vercelli
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