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23 luglio 2012 - 4 Av 5772 |
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 | Jonathan Sacks, rabbino capo
del Commonwealth
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Gli
scandali finanziari di questi tempi possono forse rappresentare un
segnale positivo se ci risvegliano alla consapevolezza di cosa conta
davvero. La rettitudine conta.
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Anna Foa, storica
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Veramente
inquietante la frase con cui, secondo le rivelazioni apparse in questi
giorni sulla stampa, il presidente del Comitato olimpico tedesco
avrebbe nel 1972 respinto la proposta di maggiori controlli al
villaggio olimpico di Monaco nel 1972, dopo che si era avuto sentore di
possibili attacchi palestinesi: "Qui non siamo in un lager".
Inquietante perchè pronunciata a Monaco, a pochi chilometri dal campo
di concentramento di Dachau, aperto nel marzo 1933 dai nazisti subito
dopo la presa del potere di Hitler. Inquietante perchè rivelatrice di
un curioso rovesciamento di senso, dove il lager viene attribuito,
sostanzialmente, agli ebrei, non ai tedeschi. Una frase che è indizio
di quanto ancora, nel 1972, molti tedeschi si sentissero vittime degli
ebrei che avevano sterminato. Tanto da rifiutare di difenderli, per non
essere, ancora una volta!, obbligati a trasformare le loro città in
lager, i loro stadi in prigioni.
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Redazione aperta - Gattegna: "Costruire la community"
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E'
stata una giornata al sole e al vento, in una Trieste luminosa e
sferzata dalle raffiche di bora, quella del presidente dell'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna a Redazione aperta. Al
centro del confronto le tematiche dell'informazione, la sua particolare
declinazione ebraica e la necessità di sviluppare una vera e propria
'community' dell'ebraismo italiano. Ospiti della redazione anche il
presidente della Comunità ebraica di Trieste Alessandro Salonichio e i
due consiglieri Mauro Tabor e Nathan Israel con i quali il presidente
dell'Unione si è a lungo trattenuto in intensi colloqui sulle
prospettive di futuro delle realtà ebraiche italiane.
Si parte facendo il punto sui numerosi incontri che hanno
caratterizzato questi primi sette giorni di lavoro. Esperti di
comunicazione, pubblicitari, giornalisti, sociologi e rabbini.
Differenti approcci e punti di vista per affermare un comune obiettivo
da perseguire: edificare e rafforzare, come spiegava venerdì scorso al Caffè
San Marco Roberto Weber, presidente dell'istituto di rilevazione Swg,
una sorta di 'perimetro di sicurezza'. Un processo imprescindibile per
una identità piccola nei numeri e che deve necessariamente incanalarsi
in una prospettiva di allargamento delle persone che le orbitano
attorno. È questa filosofia ad ispirare il concetto di 'community', un
obiettivo che il presidente dell'Unione ha indicato tra i punti
prioritari del suo terzo mandato. “Bisogna includere, coinvolgere,
aprirsi maggiormente a tutta la società italiana – ha affermato
Gattegna – Il lavoro deve essere indirizzato a dare una risposta
adeguata a tutte quelle persone che manifestano interesse verso il
nostro mondo. Centrali in questo senso sono le politiche legate
all'informazione. Pagine Ebraiche e gli altri media editi dall'Unione
sono una grande conquista per tutti noi e possono permetterci,
attraverso una politica distributiva razionale e coinvolgente, di
aumentare seguito e consensi tra la popolazione italiana”.
Le riflessioni del presidente Gattegna hanno aperto un lungo dibattito
sulle metodologie e sulle strade più efficaci da percorrere in questo
senso. Proposte, spunti e nuove sfide sono approdate anche a tavola,
nel corso della cena ufficiale organizzata nella colonia carsica di
Opicina per festeggiare lo scollinamento tra le due settimane di
laboratorio.
Adam Smulevich - twitter@asmulevichmoked
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Redazione aperta - "I numeri, strumento di conoscenza" |
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Tornare
a conoscere chi sono e dove vanno gli ebrei italiani quarant’anni dopo
l’ultimo studio promosso per scoprirlo (Anatomia dell’ebraismo italiano
di Sergio Della Pergola). Enzo Campelli, docente di metodologia delle
Scienze sociali alla Sapienza di Roma e coordinatore della ricerca che
fotograferà il nuovo volto dell’Italia ebraica ha partecipato al
laboratorio di Redazione aperta offrendo la sua prospettiva sui temi
caratterizzanti la quarta edizione del laboratorio: quali contenuti
devono contraddistinguere la proiezione dell’ebraismo italiano nella
società e come raggiungere gli interlocutori che per questi contenuti
mostrano una particolare attenzione.
Attraverso ricerche sociologiche sarebbe possibile aprire un nuovo
orizzonte di conoscenza della società italiana: non più soltanto le
sacche di razzismo e intolleranza che vi si annidano, ma al contrario
quelle persone e quei gruppi sociali che guardano al mondo ebraico con
interesse. Un’idea già in precedenza approfondita nel confronto della
redazione con i sondaggisti Renato Mannheimer e Roberto Weber, e che
anche a parere di Campelli dovrebbe essere considerata. Con una
necessaria premessa, c'è il rischio di andare incontro a disillusioni:
“Siamo abituati a preoccuparci dei pregiudizi negativi - ha spiegato -
e troppo spesso dimentichiamo che anche il pregiudizio positivo ha la
stessa radice. Ogni posizione preconcetta e squilibrata dovrebbe
spaventarci. Per questo dovremmo essere preparati a trovare non
soltanto elementi positivi, ma anche zone d’ombra”. Anche se, secondo
il professore, non necessariamente un’indagine demoscopica dovrebbe
essere lo strumento privilegiato per raggiungere la società e capire
cosa si aspetta da noi. Mentre sul fronte del dibattito interno alle
Comunità ebraiche, Campelli ha sottolineato che “sarebbe importante
riuscire a rendere il confronto più produttivo” anche per trovare il
modo di aumentare le risorse a disposizione piuttosto che concentrarsi
solo su come impiegarle.
L’incontro è stato anche occasione per capire i meccanismi dietro la
professione del sociologo, prendendo come spunto l’indagine
sull’ebraismo italiano in corso in questi mesi. Con un necessario
avvertimento: “In tempi di crisi c’è la corsa a tagliare gli
investimenti su quelle idee che sembrano all’apparenza meno produttive:
le scienze sociali sono un esempio. Questa tendenza è pericolosa. Pur
ricordando sempre come i numeri rappresentino un fondamentale strumento
di conoscenza ma non la conoscenza in sé: bisogna guardarsi anche
dall’ossessione di misurare tutto”.
Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked
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In cornice - Che succede al Guggenheim?
| Sembrava
una corrazzata poderosa con comandanti di valore che avevano capito il
futuro del mondo dell'arte e invece inizia a perdere colpi. La
Fondazione Guggenheim ha creato un sistema museale con una visione che
guarda ai prossimi decenni e dopo New York e Venezia, ha aperto Bilbao
e Berlino, sta costruendo Dubai e aveva avviato un piano anche per
Helsinki. Alla base idee chiare: bisogna organizzare grandi mostre per
far crescere un museo e per soddisfare artisti, galleristi e
collezionisti. Ma le grandi mostre costano sempre di più e quindi
bisogna suddividere i costi su più sedi. Queste sedi non sono semplici
dependance di New York, ma creano loro stessi delle mostre basate su
artisti locali che poi fanno il giro del mondo. Cosmopolitismo e
localismo insieme. Perfetto, e infatti il successo - si pensi anche
solo a Bilbao - è stato grande. Fatto sta che Berlino, che era gestito
in collaborazione con Deutsche Bank, sta per chiudere; che Helsinki non
si farà più; che a Dubai si rischia che alcuni importanti artisti
mediorientali e asiatici (Shirin Nishat etc.) non vogliano essere della
partita. Colpa della crisi economica che colpisce la banche e la Nokia
(che domina in Finlandia)? O l'offuscamento ulteriore della stella
americana di cui comunque il Guggenheim e' un'espressione? O le
divisioni interne alla Fondazione?.
Daniele Liberanome, critico d'arte
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Tea for Two - Ooh, rabbia... | IInizi
un nuovo percorso di studi e ti ripeti: "Questa volta posso presentare
una nuova versione di me a persone ancora ignote". Allora cambi taglio
di capelli e decidi di essere una ragazza da giacca di ecopelle e
vagamente graffiante. Quando ho iniziato Lettere, ho deciso di non
presentarmi subito come di religione ebraica, ma di aspettare. L'aura
di mistero si è schiantata quando una ex compagna di classe del liceo
ha detto una frase della serie: "Sapete che se le lancio un oggetto di
sabato lei non lo può raccogliere e tenere?". A quel punto una
dozzina di facce si è voltata puntandomi uno sguardo interrogativo e io
ho cominciato a spiegare. Da quel momento i miei colleghi (come i
compagni del liceo in precedenza) sono stati investiti da una infinità
di nozioni di kasheruth, riti, digiuni e compagnia bella. Cecilia
adesso potrebbe praticamente ripetere su un piede solo tutte le
festività, Francesco sostiene imperterrito che leggo, ascolto canzoni,
vedo film solo di artisti ebrei ma quando andiamo tutti a cena a casa
sua non si astiene dal prepararmi un pasto speciale e Giulia si
preoccupa di trovarmi un buon marito. Ma sappiamo che prima o poi la
domanda arriverà. E proprio quando meno la aspettavo, lei ha fatto
capolino. A una di quelle cene molto university chic in cui si ascolta
musica alternativa, si finge di aver letto libri di spessore e si ride
beatamente, come un fulmine a ciel sereno eccola: un university boy
molto filosofico e riccioluto mi chiede: "Che ne pensi della terra di
Sion?". Già chiamare Israele 'la terra di Sion' con una inarcatura del
sopracciglio indica una punta di faziosità. "Ohh rabbia" direi se fossi
Winnie the pooh alle prese con il miele. Eccola, prepariamoci
spiritualmente, memorizziamo date e dati storici e cominciamo. La
domanda anima inizialmente un po' tutti gli invitati, ma con il passare
del tempo rimaniamo solo io e lui. Ed è terribile, perché la testa si
surriscalda e le guance avvampano. Le mie ovviamente, lui è
assolutamente serafico. Gli altri osservano impettiti noi due sul ring
che sembriamo due galli in combattimento. Poi però lui sigilla la fine
del certamen con una frase: "Tanto a me non frega nulla" e mi rendo
conto che è assolutamente così. Io ho aumentato la frequenza cardiaca,
ho fatto impennare la pressione e lui l'ha vissuto come un puro
esercizio di retorica. Io sembravo una concorrente dell'Isola dei
famosi che impazzisce per il poco cibo e lui era un raffinato sofista.
E allora mi chiedo: "Non sta diventando una moda? Non è una
deformazione tipica del pensiero occidentale che porta alla necessità
di un dualismo: del giusto e dello sbagliato, del mondo delle idee e
del materialismo, dei buoni o cattivi? Non è che forse avere una causa
da portare avanti, un pensiero ben definito rassicura chi si trova
nell'epoca dell'incertezza?" Lui è felice come una pasqua perché è
dalla parte della giustizia e della rettitudine e attaccando Israele si
sente un uomo migliore (per non parlare della frase ricorrente "Proprio
voi che avete sofferto tanto poi avete un comportamento fascista") e io
devo giustificarmi e dimostrare di essere una brava persona. Tanto a
lui "non frega poi nulla". La mia pressione però non accenna ad
abbassarsi. La cosa più divertente è che poi la tensione viene
stemperata da un altro che dice qualcosa totalmente fuori luogo e
finalmente il discorso si sposta alle tematiche universitarie più
disparate. Ma, "ohh rabbia", lo so che prima o poi qualcun altro mi
chiederà della terra di Sion avendo già una propria risposta
irreprensibile.
Rachel Silvera, studentessa - twitter@RachelSilvera2
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| notizie flash | | rassegna stampa | Viene da Israele il segreto
delle capigliature hollywoodiane
| | Leggi la rassegna | Chiome
fluenti e sempre scintillanti. Al top in qualsiasi situazione, orario e
contesto. Quale il segreto delle capigliature delle star di Hollywood?
Un prodotto per il benessere tricologico made in Israel. A rivelarlo
Madonna e altre protagoniste del tappeto rosso sul magazine People.
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