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7 agosto 2012 - 19 Av 5772 |
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Roberto
Della Rocca,
rabbino
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Nel capitolo
4 di Devarìm che abbiamo letto shabbat scorso viene ripetuta la
disposizione di costruire delle città rifugio per dare asilo a colui
che ha commesso un omicidio involontario. Dopo aver elencato le tre
città rifugio, stanziate al di lò del Giordano nel territorio delle tre
tribù che si sono insediate fuori dalla Terra di Israele, la Torah cita
un famoso verso che invochiamo con le mani alzate quando viene
mostrato al pubblico il Sefer Torah: “...e questa è la Torah che Moshè
ha posto davanti ai figli di Israele…” (Devarìm, 4; 44). Perché questo
verso è collocato in questo contesto delle città rifugio? Quale è il
senso di questa singolare contiguità? Disporre la Torah dinnanzi ai
nostri occhi dovrebbere aiutarci a prevenire quella negligenza
che potrebbe portare a commettere un omicidio involontario e vederci
costretti in esilio. Ma ciò nonostante la Torah non dovrebbe mai
trasformarsi in una “citta rifugio”. Il Talmùd (Makkòt 10 a) ci ricorda
che la Torah costituisce un rifugio solo per chi se ne occupa con
continuità ma non per chi ci si dedica nelle pieghe del tempo.
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Dario
Calimani,
anglista
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A un gher non
si può ricordare il suo essere gher. Ma un gher ha il permesso di far
pesare, o anche solo di ricordare, agli altri il suo esserlo (stato)?
Si vorrebbero risposte suffragate ed esaurienti.
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Qui Londra - Il mondo dello sport non dimentica
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Grande
commozione ieri sera al prestigioso Guildhall di Londra per la
cerimonia di commemorazione delle undici vittime israeliane del
terrorismo alle Olimpiadi di Monaco in occasione del quarantesimo
anniversario della strage. Oltre un migliaio le persone che si sono
strette attorno alle vedove Ankie Spitzer e Ilana Romano e a tutta la
federazione israeliana presente nella capitale inglese con numerosi
dirigenti e atleti. L'appuntamento, organizzato dal Comitato
Olimpico israeliano in collaborazione con l’ambasciata di Israele a
Londra e con la comunità ebraica d'Inghilterra, ha chiamato a raccolta
le principali cariche istituzionali del paese assieme ai massimi
vertici dello sport mondiale. In primis il presidente del Comitato
Olimpico Internazionale Jacque Rogge, cui la vedova Spitzer ha
indirizzato accuse molto precise riguardo la mancata concessione di un
minuto di silenzio in memoria degli undici caduti nel corso della
cerimonia inaugurale dei Giochi (“il comportamento del CIO – ha detto –
è stato vergognoso e non ha giustificazioni di alcun tipo”). Tra gli
invitati anche il presidente del Maccabi Italia e consigliere
dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Vittorio Pavoncello, cui è
stato dato merito di essersi attivamente prodigato per sensibilizzare
l'opinione pubblica italiana su questo tragico capitolo di storia
olimpica. “Una commemorazione bellissima, intensa e struggente –
racconta in procinto
di affrontare il viaggio di ritorno a Roma – nel corso della
quale gli israeliani hanno dimostrato di non aver paura di dire quello
che pensano. Anche se non si è voluto tributare il minuto di silenzio è
comunque motivo di orgoglio aver fatto sì che tutto il mondo abbia
parlato di questa iniziativa evitando che su di essa potesse
tristemente cadere il velo dell'oblio”. Tra gli interventi più
attesi quello del premier britannico David Cameron. “L'attentato di
Monaco – ha spiegato – fu un crimine perpetrato non solo nei confronti
di Israele e del popolo ebraico ma di tutta l'umanità. Un crimine che
non possiamo dimenticare e che ricordiamo oggi in questa città che fu
colpita dal terrore appena sette anni fa e che, patria del
multiculturalismo e dell'incontro tra popoli, accoglie in questi giorni
sportivi da ben 204 paesi”. Parole molto significative anche dal
ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle. “Quel giorno – ha
affermato – ad essere colpita fu l'intera famiglia olimpica.
L'attentato di Monaco rappresentò un vile attacco ai valori di pace e
armonia che da sempre contraddistinguono questa competizione. Saremo
sempre al vostro fianco. La Germania non ha dimenticato e mai
dimenticherà”.
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La nostra Maturità - Stefano Levi Della Torre |
La
conferenza di Wannsee e la preparazione della Soluzione finale, nelle
parole di Hannah Arendt. Èuna delle tracce proposte quest’anno alle
prove dell’esame di maturità per il tema storico. Un argomento
complesso e delicato dalle implicazioni sia storiche sia filosofiche.
Ma che significato ha uno spunto di questo genere? Quanto aiuta
approfondire i meccanismi della Shoah? E in quali modi lo si può
declinare? Abbiamo girato questi interrogativi ad alcuni dei nostri
editorialisti, che in queste pagine si cimentano con la loro personale
versione del tema di Maturità: una sfida non facile che ci aiuta a
capire meglio.
La
scena si apre sugli affanni del sottosegretario Bühler: l’annunciata
deportazione di ebrei da occidente verso la sua giurisdizione in
Polonia gli avrebbe dato un mucchio di grattacapi organizzativi. Meglio
cominciare a sterminare gli ebrei presenti, che erano già fin troppi,
prima di importarne altri, intasando ferrovie e attrezzature di
sterminio: così, a suo parere, avrebbe pensato ogni persona di buon
senso e si affrettò a comunicare la proposta alle autorità superiori.
Anche i funzionari del ministero degli esteri si premurarono di
comunicare i loro “desideri e idee” circa lo sterminio degli ebrei, e
insomma intorno alla questione si manifestò un clima di collaborazione
creativa e di entusiasmo, giustamente apprezzato da Eichmann. Al quale,
d’altra parte, parve il sogno di un’intera vita quello di poter stare
in conferenza “tra cotanto senno”, cioè al cospetto dei vip nazisti che
avevano già tutto deciso nell’ora prima di cena. D’altra parte, era
stato lui stesso, Eichmann, incaricato di organizzare la riunione che
avrebbe dato il via alla Shoah, e il successivo rinfresco. Insomma,
aveva fatto la sua figura, tanto che fu ulteriormente premiato da un
memorabile dopo cena al caminetto niente meno che con Müller e
Heydrich, a chiacchierare del più e del meno fumando e bevendo: un
meritato riposo, dopo la decisione che aveva l’obiettivo di distruggere
undici milioni di vite umane, cosa che non è da tutti. In cose del
genere c’è sempre da aspettarsi non poche difficoltà e inconvenienti
tecnici. Il resoconto della Arendt mette in scena, in forma quasi
teatrale, la tensione tra il clima “umano” della conferenza di Wannsee
e il suo spaventoso argomento. Sullo sfondo dei campi di sterminio ci
vengono incontro gli atteggiamenti più banali: le preoccupazioni
organizzative di un funzionario, lo zelo di altri burocrati desiderosi
di contribuire a un’ambiziosa impresa nazionale, la soddisfazione di
Eichmann che si vede promosso a sedere tra i grandi, chiacchiere a cena
e poi il caminetto digestivo. Con chiarezza, viene in luce dal racconto
quello che Zygmunt Bauman chiama “problem solving”, come logica
aziendale del nazismo: non si discute l’obiettivo già deciso “a monte”,
ma solo i modi per realizzarlo; non si discute sullo sterminio: una
volta posto il problema indiscutibile di distruggere milioni di vite
umane, si tratta unicamente di stabilire il modo più razionale per
risolverlo. L’obiettivo irrazionale, carico della mitologia antisemita
sedimentata nei secoli, si arma di razionalità esecutiva. Ma questo
cortocircuito tra irrazionale dei moventi e razionalità dei mezzi è una
patologia latente nel capitalismo, patologia di cui il nazismo è
un’eruzione estrema. Fino alla produzione industriale della morte di
massa. Ma qual è l’elemento di sutura tra il mostruoso movente
irrazionale e la sua gigantesca strumentazione razionale? E’ appunto la
banalità degli atteggiamenti umani. Il nazismo è stato l’organizzazione
straordinaria della normalità ordinaria, dove ognuno faceva il compito
a lui o a lei assegnato, svolgeva la sua piccola parte parcellizzata
come in una catena di montaggio tayloristica, senza curarsi
dell’insieme e del suo senso, dacché aveva delegato all’ideologia di
Stato il senso del tutto. Ma torniamo ancora un attimo alla scena
descritta da Hannah Arendt, e alla banalità degli atteggiamenti umani
che vi sono rappresentati, perché da quelli ci viene un inquietante
messaggio: se il nazismo era una mostruosità, coloro che la facevano
vivere e agire erano persone normali. Nel leggere e rileggere I
sommersi e i salvati di Primo Levi, uno dei testi fondamentali su cui
si fonda la nostra memoria e la nostra riflessione su Auschwitz, ci
imbattiamo in un’affermazione che a prima vista ci sorprende e ci
spiazza: “Nei campi di sterminio, tra i tedeschi i sadici erano
relativamente pochi”. Che cosa ci saremmo aspettati? Che quell’atrocità
organizzata su vasta scala e senza limiti non potesse venir condotta se
non da esseri “disumani”. Questa era la nostra aspettativa “logica”.
Un’aspettativa in un certo senso rassicurante: gente normale come noi
non arriverebbe mai a fare simili cose; solo dei sadici patologici
potrebbero spingersi a tanto, giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Questo è un nostro meccanismo di riparo dall’orrore: spontaneamente
cerchiamo un sollievo dall’angoscia pensando “logicamente” che, nel suo
complesso, il personale del Lager fosse di una specie animale diversa
da noi. L’affermazione di Primo Levi ci impedisce questo sollievo,
questo pensiero rassicurante su noi stessi. La sua affermazione ci dice
che, in genere, gli stessi funzionari del Lager erano gente comune, e
ci pone una domanda inquietante: che cosa ci garantisce da che ciascuno
di noi, in determinate circostanze e sotto la pressione di una
propaganda capace di produrre un senso comune pervertito non sarebbe
indotto (per conformismo, per opportunismo, per bisogno di un posto di
lavoro e di uno stipendio) a farsi rotella di un immenso meccanismo di
oppressione e di strage? Il burocrate che gestiva i documenti e gli
archivi, il ferroviere che conduceva i convogli della deportazione di
massa verso i campi della morte, la guardia che conduceva i semi-vivi
al loro lavoro di schiavi, che guidava alle camere a gas una massa
umana, resa repellente dalla sporcizia, dalle privazioni e dalle
violenze, erano padri e madri di famiglia che svolgevano le loro
mansioni parcellizzate e feroci pensando amorevolmente ai propri figli
ecc. L’affermazione di Primo Levi sulla banale normalità dei funzionari
del Lager non diminuisce l’orrore; al contrario lo aumenta, perché ci
dice come la normalità, la nostra stessa normalità, interessata al
proprio particolare, possa trovare mille giustificazioni private che la
rendano disponibile a far funzionare, ciascuno per la sua parte, un
colossale sistema pubblico di distruzione dell’uomo. Un sistema
capace di trasformare la normalità delle persone in una macchina di
sterminio, immersa e lubrificata dal consenso o dal conformismo di
massa. E’ qui il massimo ammonimento che ci viene dalla memoria di
Auschwitz. Un ammonimento condensato nel titolo del libro di Hannah
Arendt, La banalità del male (Feltrinelli 1964), sul processo del 1961
ad Adolf Eichmann, che dal suo ufficio lontano dal sangue e dalla
sofferenza gestiva, senza odio ma con dedizione coscienziosa di banale
burocrate, tutta l’organizzazione continentale della deportazione e
dello sterminio.
Pagine Ebraiche, agosto 2012
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La crisi economica
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La
crisi economica che viviamo, e che cerchiamo affannosamente di
comprendere, è qualcosa di multiforme e complesso. Non è solo mancanza
di denaro, è difficoltà a ridefinire le nostre esistenze. Se guardiamo
alla nostra epoca da un punto di vista globale, potremmo azzardare una
considerazione semplice: si allarga la platea di coloro che mangiano,
consumano, si arricchiscono nel mondo, e di conseguenza si restringono
le possibilità di quelli che già mangiavano, consumavano, vivevano nel
benessere. Se partiamo da questo presupposto potremmo addirittura
pensare a questa crisi come a qualcosa di "giusto", come a una dinamica
di redistribuzione della ricchezza tra tutti gli abitanti del pianeta.
Il problema è un altro. Tra i paesi già sviluppati che oggi
sperimentano il declino si ingigantiscono le disuguaglianze: la
ricchezza è sempre più concentrata e le differenze sociali si dilatano
assai più velocemente dello spread. L'Italia, particolarmente in
difficoltà, è forse tra i più ingiusti. E, alla lunga, non c'è sviluppo
se il benessere non si divide tra tutti. Anche Israele, però, che ha
un'economia che cresce velocemente, vede acuirsi la distanza tra ricchi
e poveri. È un aspetto che va considerato e affrontato. Su queste
colonne Sergio Della Pergola ci ha recentemente invitato a non pensare
a Israele come a una realtà monolitica, indistinta, ma di sforzarci di
cogliere le sfumature. Penso che nei prossimi anni sarebbe giusto se
ognuno di noi, sostenendo Israele anche materialmente, si ponesse
davvero il problema delle sempre maggiori ingiustizie: supportare
progetti di sostegno alla povertà, di creazione di opportunità per le
fasce più deboli, di lotta alle disuguaglianze (sociali, ma anche
etniche, religiose) sarebbe un modo utile di essere vicino a Israele.
Tobia
Zevi, Associazione Hans Jonas - twitter @tobiazevi
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rassegna
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Shimon Peres in Grecia: "Vogliamo un mondo di turisti non di terroristi"
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Prosegue
il viaggio del presidente israeliano Shimon Peres in Grecia. Peres ha
ribadito il bisogno che il Medio Oriente ha di pace e sicurezza
all'indomani di un attacco da parte di un commando di jihadisti che è
costato la vita a 16 guardie di frontiera egiziane al confine con la
Striscia di Gaza e ha definito l'Iran "la base del terrorismo odierno".
Il capo dello Stato ebraico, parlando in una conferenza stampa
congiunta al termine di un colloquio con il presidente della Repubblica
ellenico Karolos Papoulias, ha aggiunto: "Noi vogliamo un mondo di
turisti, non di terroristi". Anche Papoulias, da parte sua, nel suo
intervento ha avuto parole di condanna del terrorismo "da qualunque
parte esso provenga".
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Mentre lentamente si sgretola il regime di Assad (Battistini
sul Corriere), gli occhi attenti a Israele sono puntati a Sud, al
confine con Gaza e l'Egitto, dove l'altro ieri si è avuta un'azione
terrorista fra le più complesse e coordinate.
Ugo Volli twitter
@UgoVolli
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