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9 agosto
2012 - 21 Av
5772 |
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Elia
Richetti,
presidente dell'Assemblea rabbinica italiana
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Dopo
aver elencato ed abbondantemente esemplificato gli innumerevoli segni
dell’attenzione e dell’amore divino per Israel, Moshè osserva:
“We-‘attà Israel, ma Ha-Shèm E-lokékha sho’èl me-‘immàkh, ki im
le-yir’à eth Ha-Shèm E-lokékha?”, “Ed ora, Israel, che cosa il Signore
tuo D.o ti chiede, se non di venerare il Signore tuo D.o?”. Rashì
spiega questo verso sottolineando che nonostante tutto ciò che gli
Ebrei hanno fatto di male, tuttavia Ha-Qadòsh Barùkh Hu’ si accontenta
del semplice rispetto dell’impegno a venerarLo ed amarLo, e non chiede
particolari atti di contrizione o penitenza. Tuttavia il modo in cui la
Torà presenta la questione è tale da lasciare ancora insoluta una
domanda che i Maestri del Midràsh pongono in maniera evidente: “È forse
cosa da poco quella che viene chiesta, di venerare in maniera acconcia
il Creatore?”. A ben vedere, forse tutto l’Ebraismo è concentrato in
quest’idea che qui viene presentata come una cosa da poco! La risposta
dei Maestri è a prima vista spiazzante: “Non intendere ‘Ma’ (‘che
cosa’), bensì ‘me’à’ (‘cento’): il Signore ci chiede di recitare per
Lui cento benedizioni ogni giorno”. Ma è proprio così? Realmente se noi
recitiamo cento benedizioni ogni giorno abbiamo fatto tutto quello che
Ha-Qadòsh Barùkh Hu’ ci chiede? Che ne è del precetto dello Tzitzìth,
dei Tefillìn, della Kasherùth, dello Shabbàth? E soprattutto, tutto il
timore di D.o si esplica nella recitazione meccanica di cento
formulette? O forse, cento benedizioni sono un numero tanto esorbitante
da richiedere un impegno immane? E se così fosse, perché viene
presentato come un impegno minimo? Per dare una risposta a questi
quesiti, che non sono solo di pura esegesi ma investono anche aspetti
fondamentali del pensiero ebraico e del pensiero religioso in genere,
dobbiamo soffermarci un attimo sulla richiesta divina e sulle sue
implicazioni. Cento benedizioni al giorno sono assolutamente di routine
nella vita quotidiana. Basti pensare che già al risveglio l’Ebreo
osservante ne recita una ventina; altre ventisette se ne recita nel
corso della Tefillà del mattino, ogni volta che mangia o beve qualcosa
ne recita una o due, superando così la decina, diciannove ne dice nella
Tefillà pomeridiana, ventitré in quella serale ed un’altra prima di
addormentarsi. È quindi vero che l’impegno non è eccessivo. Ma ciò che
conta qui non è l’impegno materiale, bensì il suo significato. Recitare
cento berakhòth significa in realtà ripetersi cento volte che siamo
legati a D.o, che Lo celebriamo, Lo ringraziamo, Gli siamo vicini, ne
riconosciamo la maestà (“...Mélekh Ha-‘olàm”): siamo qui di fronte
all’ennesimo segno della pedagogia divina, che attraverso l’azione fa
sì che principi fondamentali entrino a far parte del nostro essere.
Cento berakhòth sono cosa da poco, ma hanno il potere enorme di
insegnarci a “venerare il Signore tuo D.o”, come ci insegna la Torà;
sono cosa da poco a confronto di ciò che Lui ha fatto e fa per noi ed a
confronto di quanto abbiamo sempre mancato nei Suoi confronti (come
dice Rashì), ma sono – se recitate con consapevolezza di ciò che stiamo
facendo – una grande affermazione del nostro rapporto con Lui.
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Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme
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La passione
con cui vengono seguite le vicende di Israele ricorda da vicino uno
stadio dove in campo gioca la squadra del cuore e sugli spalti vocifera
la tifoseria. Lassù, tutti sono capaci di fare i direttori tecnici,
d'insultare gli avversari oltre che (a volte giustamente) l'arbitro e i
guardialinee, e magari di prendersela perfino coi propri giocatori.
L'incoraggiamento della tifoseria può aiutare gli attori in campo,
infondendo loro entusiasmo, ma può anche deconcentrarli quando si
richiede strategia, preparazione tecnica, freddezza, precisione,
coesione, pragmatismo e astuzia. A volte gli striscioni graffianti o
intemperanti dei tifosi causano gravi problemi d'immagine alla squadra
tanto amata, fino all'ammenda o alla squalifica del campo. Ci sono poi
i tifosi fedelissimi e quelli che venti o trent'anni fa tifavano per la
squadra avversaria. Una cosa vorrei far capire ai tifosacci: una
squadra davvero grande non può essere prigioniera di un pensiero unico,
non può usare un solo modulo di gioco – quello urlato dalle tribune.
Alla fine conta sempre il risultato, conta l'allenatore, e contano
soprattutto i giocatori. Il bello è che nel caso d'Israele, in
qualunque momento i tifosi, se lo vogliono, possono scendere in campo,
unirsi alla squadra, e giocare. Forse allora capiranno che – come disse
Ariel Sharon una volta divenuto Primo Ministro – da qui si vedono cose
che da lì non si vedono.
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LiveU, così Israele ha
conquistato le Olimpiadi
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Una
tecnologia modernissima, un innovativo sistema che sfrutta la rete
cellulare per le dirette televisive, per quello che si può davvero
considerare l’evento sportivo più antico al mondo. I primi giochi
olimpici della storia infatti si svolsero nel 776 a.e.v. Per più di un
millennio ininterrottamente, ogni quattro anni si fermavano addirittura
le guerre per permettere ad atleti e migliaia di spettatori di
partecipare e assistere alle gare. Una vera e propria migrazione da
ogni città dell’Ellade verso Olimpia. E ancora oggi si può dire che i
giochi olimpici mantengano l’importanza che avevano nell’antichità, e
su scala di gran lunga maggiore, considerato il numero di Paesi che
partecipano. Però ormai è sufficiente migrare in salotto davanti al
televisore per vivere in diretta le emozioni delle gare, senza troppa
fatica. Questo è possibile anche grazie a una tecnologia brevettata in
Israele, che già dall’edizione di Pechino 2008 permette a moltissime
reti televisive di tutto il mondo di trasmettere in diretta le
competizioni in modo ancora più semplice, economico e sicuro che nel
passato. Si tratta di LiveU, un sistema che sfrutta la rete di
trasmissioni cellulari per inviare le immagini ai centri delle emittenti
televisive. La soluzione funziona con qualsiasi tipo di telecamera, e
si serve di modem 3G e 4G che aggregano tutte le connessioni dati
contemporaneamente per ottenere un’elevata larghezza di banda e una
trasmissione senza intoppi. E anche i livelli di larghezza di banda e
il segnale cambiano attraverso i diversi collegamenti. E per fare
questo è sufficiente un dispositivo delle dimensioni all’incirca di un
computer portatile.
Nata nel 2006, LiveU è l’unica azienda finora
a fornire questo tipo di servizio. Ha il suo quartier generale in
Israele e una succursale negli Stati Uniti, nel New Jersey. Fra i suoi
clienti si contano reti televisive di tutto il mondo. Per le Olimpiadi
di Londra se ne servono la statunitense NBC, molte reti che trasmettono
in tutta l’America latina, come le brasiliane Globosat e TV Record e la
messicana Televisa, e soprattutto la BBC. La rete inglese si avvale
di questa tecnologia da anni per trasmettere grandi eventi televisivi,
per esempio tutte le dirette delle elezioni di metà mandato degli Stati
Uniti nel 2010 e la visita in Irlanda della regina Elisabetta nel 2011.
Ma in questo modo sono già stati mandati in onda anche grossi eventi
sportivi fra cui diversi Super Bowls, i celebri All Star
Games
dell’ NBA e i mondiali di calcio in Sudafrica di due anni fa. E poi
Grammy Awards, serate degli Oscar, persino il Carnevale brasiliano è
andato in diretta con questo sistema.
Prima che LiveU sviluppasse
questa soluzione le reti televisive si affidavano al satellite per
inviare i video ai centri di trasmissione. Ma le
trasmissioni satellitari richiedono una linea di connessione al
satellite, perciò questo sistema risulta poco pratico per dirette da
luoghi chiusi, sotto ponti, o dentro grotte, e persino quando il cielo
è molto nuvoloso. Situazione quest’ultima che a Londra non è del tutto
improbabile, a pensarci bene. Ariel Galinski, Vicepresidente di LiveU,
ha spiegato: “Usando la rete cellulare non solo il nostro dispositivo
può trasmettere da luoghi dove il satellite sarebbe fuori discussione,
ma è anche molto più economico rispetto all’affitto di un furgone
satellitare o dell’utilizzo di un telefono satellitare, il cui costo al
minuto è elevatissimo”.
Per le Olimpiadi di quest’anno LiveU ha
distribuito in totale un centinaio di dispositivi, un risultato davvero
importante per una startup israeliana. E migliorare la qualità della
trasmissione di questi grandi eventi è un risultato davvero importante
anche per gli spettatori di tutto il mondo: perché è vero che oggi ci
sono gli aerei, ma naturalmente Pechino o Londra sono molto più lontane
per chi vive dall’altra parte del globo terrestre di quanto Olimpia lo
fosse per un abitante di una qualsiasi polis greca. E forse anche stare
seduti davanti a un televisore, con una bibita ghiacciata o una
cioccolata calda a seconda dell’emisfero in cui ci si trova, a guardare
atleti che parlano tutte le lingue e hanno la pelle di tutti i
colori gareggiare sotto i cinque cerchi, può essere un modo
per
dimenticarsi per un momento delle guerre.
Francesca
Matalon – twitter @MatalonF
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La nostra Maturità -
Anna Segre |
La
conferenza di Wannsee e la preparazione della Soluzione finale, nelle
parole di Hanna Arendt. È una delle tracce proposte quest’anno alle
prove dell’esame di maturità per il tema storico. Un argomento
complesso e delicato dalle implicazioni sia storiche sia filosofiche.
Ma che significato ha uno spunto di questo genere? Quanto aiuta
approfondire i meccanismi della Shoah? E in quali modi lo si può
declinare? Abbiamo girato questi interrogativi ad alcuni dei nostri
editorialisti, che si sono cimentati con la loro personale versione del
tema di Maturità: una sfida non facile che ci aiuta a capire meglio
Nel 1961 Hannah Arendt
assisteva a Gerusalemme come inviata del New Yorker al processo
Eichmann. Da quell’esperienza è nato il libro La banalità del male.
Eichmann a Gerusalemme. Il brano proposto all’esame di stato è tratto
dal capitolo La conferenza di Wannsee, ovvero Ponzio Pilato, il cui
titolo riprende un’affermazione dello stesso Eichmann che si trova nel
paragrafo immediatamente successivo a quello del tema: “Ma anche per
un’altra ragione quella giornata fu indimenticabile per Eichmann.
Benché egli avesse fatto del suo meglio per contribuire alla soluzione
finale, fino ad allora aveva sempre nutrito qualche dubbio su ‘una
soluzione così violenta e cruenta’. Ora questi dubbi furono fugati.
‘Qui, a questa conferenza, avevano parlato i personaggi più illustri, i
papi del Terzo Reich. […] In quel momento mi sentii una specie di
Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa’”. Il testo della Arendt
non è – e non è nato con lo scopo di essere – un libro di storia. E’
scritto a caldo, per commentare un processo sulle cui modalità di
svolgimento l’autrice non sempre concorda pienamente (anche se in
seguito chiarirà che non intendeva metterne in discussione la
legittimità); in particolare non condivide l’intento di farne un
processo alla Shoah anziché al singolo imputato. Per questo il testo si
concentra ampiamente sulla personalità di Adolf Eichmann, sulla sua
carriera, sul suo comportamento e sulle sue affermazioni nel corso del
processo. A questo resoconto la Arendt affianca alcuni capitoli più
specificamente storici, che risultano oggi piuttosto imprecisi, sia
perché sono inevitabilmente datati, sia perché risentono dei pregiudizi
dell’autrice, che per sottolineare maggiormente le colpe dei propri
connazionali tedeschi finisce per essere troppo benevola con altri, per
esempio con l’Italia fascista, tanto da lasciare intendere che le leggi
razziali di fatto non siano state applicate quasi per nulla
(interpretando la “discriminazione” come totale esenzione e
attribuendola erroneamente a tutti gli ebrei con un parente iscritto al
partito fascista), o che le deportazioni di ebrei dall’Italia verso
Auschwitz siano iniziate solo nella primavera del 1944. Se non lo si
legge come libro di storia e non si prendono per oro colato le opinioni
dell’autrice il testo è molto interessante. Vale la pena citare anche
un film del 1999 che dichiara di ispirarsi al libro della Arendt, Uno
specialista - Ritratto di un criminale moderno, di Eyal Sivan,
costruito utilizzando esclusivamente le riprese originali del processo
Eichmann. Senza dubbio l’autore, concentrando in 123 minuti le
centinaia di ore del processo, ha scelto i momenti più appropriati per
confermare le tesi della Arendt. Comunque sia il film è profondamente
inquietante: il criminale nazista responsabile della deportazione di
milioni di ebrei ci appare davvero nella sua “banalità”, con un’aria da
impiegato zelante ma un po’ grigio, ossequioso verso la corte, formale
nelle risposte e nel modo di esprimersi. A personaggi come Eichmann,
che hanno seguito l’”imperativo categorico del Terzo Reich”, cioè
“agisci in una maniera che il Führer, se conoscesse le tue azioni,
approverebbe”, si possono contrapporre coloro che antepongono all’etica
pubblica la propria etica individuale: personaggi della Torah (per
esempio la figlia del Faraone che salva Mosè pur sapendo benissimo che
si tratta di un bambino ebreo), del mito (Antigone), ma anche persone
vissute nello stesso contesto storico di Eichmann e che lo hanno anche
materialmente incontrato, come Giorgio Perlasca, la cui storia è
raccontata da Enrico Deaglio in un libro non a caso intitolato La
banalità del bene. A un certo punto si racconta del salvataggio di due
bambini ebrei che Perlasca aveva nascosto nella sua macchina e che
Eichmann, dopo un breve dialogo, lascia andare dichiarando che verrà il
momento anche per loro. “Giorgio Perlasca e Adolf Eichmann si
incontrarono per una manciata di minuti, in una mattina di ordinario
macabro trasporto di ebrei ungheresi verso Auschwitz - scrive Deaglio -
Fu un match breve, tra un calmo tenente colonnello delle SS contro un
emozionato diplomatico spagnolo. Avevano più o meno la stessa età, uno
aveva il potere e l’altro non l’aveva. Ma vinse quest’ultimo, che non
era un diplomatico e neppure spagnolo. Di questa storia che è rimasta
così impressa nella memoria di Giorgio Perlasca quello che mi piace di
più è che ci fu una scelta. L’italiano vide i due ragazzi gemelli ed
ebbe uno scatto pensando che si poteva far qualcosa per evitare che
fossero uccisi. Il tenente colonnello tedesco forse non li vide neanche
(me li immagino rannicchiati dentro la macchina) e, con un gesto della
mano, li lasciò vivere. Per lui erano due numeri, non due persone. Un
fatto statistico”. Il problema del rapporto tra etica individuale ed
etica pubblica è molto interessante, complesso (ovviamente la questione
non è così semplice come gli esempi di Eichmann e Perlasca farebbero
supporre) e, a mio parere, potrebbe essere molto adatto alle
riflessioni di un giovane che affronta l’esame di stato. In effetti
nella mia scuola è stato proposto come saggio breve storico per la
simulazione prima dell’esame. Il tema proposto dal ministero, invece,
non parlava di questo, e non chiedeva neanche di riflettere su
Eichmann, sul libro di Hannah Arendt, e neppure sulla conferenza di
Wannsee, ma di “soffermarsi” (qualunque cosa questa parola significhi)
sulla Shoah nel suo complesso. Un’impresa che personalmente non
azzarderei mai senza testi a disposizione, tanto più che la
formulazione del titolo suggeriva che il candidato avrebbe dovuto
discutere se e in che misura lo sterminio degli ebrei fosse stato
pianificato fin dall’inizio, questione ancora dibattuta tra gli storici
e su cui non mi sentirei competente a esprimere un’opinione personale.
Insomma, se fossi stata una studentessa probabilmente avrei scelto
un’altra traccia.
Pagine Ebraiche, agosto 2012
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Frescate |
Causa
crisi, quest'estate il Tizio non può andare al mare. Però adesso non
capisce come mai nonostante questa circostanza lo adombri moltissimo,
non sente fresco.
Il Tizio della Sera
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Evitiamo le
generalizzazioni
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Tutti noi siamo rimasti colpiti
dal caso di Alex Schwazer, il ragazzo acqua e sapone, medaglia d'oro
olimpica a Pechino e beccato da un controllo antidoping. Fin troppo
facile generalizzare e augurarci di mandarlo alla forca. La verità vera
è che il mondo dello sport è dopato. Alex Schwazer ha fatto un errore
di calcolo, il doping ha i suoi tempi, se non si fosse sbagliato
staremmo a festeggiarlo, ad osannarlo. Lo sport deve tornare ad essere
gioia pura. Io credo che ai livelli olimpici siano tutti dopati, più
accorti di Alex Schwazer, non sbagliano i tempi, forniscono prestazioni
al limite dell'incredibile, ma avranno la vita accorciata di 30 anni,
avranno SLA e altre malattie terrificanti. La famiglia svolge un ruolo
importante: quando a 14/15 anni gli allenatori delle varie discipline
si rivolgono ai genitori, chiedendo loro che intenzioni abbiano nelle
aspettative sportive dei propri figli, continuare a divertirsi o farlo
professionalmente, il 90% dei genitori dice no, ma ci saranno sempre
quei genitori che vorranno i loro figli primeggiare e accettare tutte
le fasi dello sport professionale. Meglio che i nostri figli giochino
sotto casa, nel torneo amatoriale con gli amici di sempre, per
divertimento.
Non crocifiggiamo Alex Schwazer, mettiamo sotto accusa il sistema
sport, vengano squalificati a vita gli atleti che commettono
comportamenti antisportivi.
Vale per chi si dopa e si vede comminate squalifiche di uno o due anni,
vale per quei calciatori che si vendono le partite, che tacciono sulle
combine. Sarebbe uno sport più pulito, più credibile, più godibile.
Vittorio Pavoncello, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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Una questione di spread |
Le
Olimpiadi di Londra dimostrano che se esiste uno spread tra noi e il
resto del mondo non riguarda soltanto l’economia. Hanno ragione coloro
che ritengono che la diminuzione del differenziale tra il valore dei
titoli di Stato italiani e tedeschi sia una priorità, ma è pur vero che
esiste un problema culturale, tutto italiano, che va affrontato al più
presto possibile. I casi Pellegrini e Schwazer ne sono la
prova.
Il trattamento ricevuto dai due sportivi è l’emblema di un’italica
abitudine dura a morire: quella di esaltare e osannare chi ha successo
pronti, in men che non si dica, ad abbandonarlo al momento del suo
fallimento. Così a Pechino la Pellegrini e Schwazer rappresentavano
l’Italia migliore, quella che ci rende orgogliosi di essere italiani.
Mentre oggi, dopo un Olimpiade non proprio esaltante per lei, e uno
scandalo doping per lui, in tanti, anzi in troppi, si scagliano contro
di loro, dimenticando quanto di buono fatto fin qui. Non si tratta di
una rendita di posizione, ma della semplice presa di coscienze per gli
italiani che gli insuccessi fanno parte della natura delle cose e che,
soprattutto, non possono essere una condanna perpetua, quanto invece
uno stimolo a migliorarsi. Una piccola rivoluzione culturale per
l’Italia che, son sicuro, farebbe bene anche all’altro spread, quello
economico, che tanto ci impaurisce.
Daniel
Funaro, studente - twitter @danielfunaro
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notizieflash |
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rassegna
stampa |
Sanità - Collaborazione fra Israele e Abruzzo
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L'Abruzzo
guarda ad Israele per migliorare il servizio sanitario regionale e
modernizzare l'offerta sul territorio. E' con queste premesse che si è
tenuta all'Aquila una riunione tra il presidente della Regione, Gianni
Chiodi, e l'ambasciatore di Israele in Italia, Naor Gilon, che di fatto
ha avviato una nuova collaborazione in materia sanitaria destinata a
diventare modello di riferimento in ambito nazionale. Il modello
sanitario israeliano è considerato uno dei migliori al mondo e quello
che maggiormente si avvicina ai modelli di assistenza pubblica dei
Paesi occidentali; da qui l'idea di sviluppare con lo Stato di Israele
una collaborazione che riguarda in particolare il sistema delle
emergenze-urgenze sul territorio. Alla riunione con il presidente
Chiodi e l'ambasciatore Gilon erano presenti il presidente del
Consiglio regionale, Nazario Pagano, i direttori generali delle quattro
Asl abruzzesi, il responsabile dell'associazione Monte Sinai, Enrico
Mairov, e il capitano dei carabinieri, Emilio Di Genova, che insieme
hanno ideato il progetto ''Abruzzo Regione sicura''.
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
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