Laura
Quercioli Mincer,
slavista
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Nessuno
dirà mai ad un adulto «vattene», ma a un bambino lo si dice spesso.
Quando un adulto si dà da fare il bambino sta fra i piedi, l’adulto
scherza e il bambino buffoneggia, l’adulto piange e il bambino frigna e
piagnucola, l’adulto è vivace e il bambino irrequieto, l’adulto è
triste e il bambino ingrugnato, l’adulto è distratto e il bambino
tonto, sciocco. L’adulto è sovrappensiero, il bambino inebetito.
L’adulto fa qualcosa con lentezza, il bambino perde tempo. Sono solo
modi di dire scherzosi, ma quanto poco delicati. Un bimbetto, un
marmocchio, un moccioso, un monello: e questo persino quando non è
arrabbiato, quando vuole essere buono. Che farci, ci siamo abituati, ma
a volte questo disprezzo dispiace e irrita. (Janusz Korczak, Varsavia
1878, Treblinka 1942)
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Esistono
oggetti che condensano in sé storia, miti, leggende, emozioni che vanno
ben al di là di quanto qualsiasi approccio razionale possa accettare,
così come esistono storie che hanno una portata molto superiore a
quella che si potrebbe cogliere a una prima lettura. Alcuni di questi
oggetti prendono nei secoli un carattere così mitologico da trovarsi al
di fuori di ogni possibilità di comprensione, o sono talmente studiati,
e con i risultati più eterogenei, da rendere impossibile una risposta
definitiva. Altri perdono ogni contatto con la realtà per diventare
addirittura, dopo un lungo percorso, protagonisti di fiabe per bambini.
Ad esempio lo sviluppo della leggenda del Graal è stato tracciato in
dettaglio dagli storici culturali: sarebbe una leggenda orale gotica,
derivata forse da alcuni racconti folcloristici precristiani e
trascritta in forma di romanzo tra la fine del XII secolo e l’inizio
del XIII secolo, fino ai Cavalieri della Tavola rotonda. Poi ci sono i
casi che riuniscono tutte queste caratteristiche (fino ad arrivare al
finale più classico: la sparizione) e che sono diventati il simbolo di
un popolo. E di uno Stato. È dunque evidente che restare indifferenti
alla recentissima scoperta fatta a Roma è impossibile. Sono solo poche
scaglie di colore, un pigmento giallo ocra brillante, ma sono loro a
saldare in un unico momento di grande portata emotiva gli elementi di
una storia millenaria. Si tratta della scoperta della colorazione
originale della Menorah scolpita in uno dei bassorilievi dell’Arco di
Tito. Una traccia di colore che in una specie di folle vortice
temporale mette insieme narrazione biblica e storia, secoli di
sofferenze e tradizione ebraica, miti, leggende, orgoglio. Tutto anche
grazie alle più sofisticate tecniche di ricostruzione digitale e agli
spettrometri 3D utilizzati dall’équipe del professor Steven Fine, che
guida il progetto di restauro digitale dell’Arco di Tito portato avanti
dal Center for Israel Studies della Yeshiva University. Già prima della
scoperta l’entusiasmo era palpabile: “L’idea che l’Arco di Tito potesse
avere un aspetto differente da quello attuale, che avremmo potuto
comprendere meglio, che saremmo forse stati in grado di vederlo così
come lo vedevano all’epoca è entusiasmante”. E ora lo
straordinario studio archeologico internazionale, guidato dallo Yeshiva
University Center con la Soprintendenza Speciale per i Beni
Archeologici di Roma, ha concluso una mappatura tridimensionale
dell'Arco di Tito. Il lavoro verrà presentato nella sua interezza il
prossimo autunno ma è già evidente che fra le scoperte più emozionanti
c’è proprio quella di alcune tracce di giallo ocra sulla Menorah che
gli ebrei deportati da Gerusalemme dovettero portare nella capitale
dell'Impero come trofeo dei vincitori. Si tratta di una scoperta
sensazionale per il mondo scientifico e di una notizia di portata
travolgente per il mondo ebraico. Lo stesso Steven Fine ha affermato:
“La Menorah raffigurata nell'Arco di Tito è stato il simbolo della
determinazione ebraica per duemila anni e adesso è il simbolo del
moderno Stato di Israele. Trovarci di fronte al suo colore originale è
stato un autentico tuffo al cuore. Sono impaziente di vedere cosa altro
troveremo". La storia della Menorah inizia con queste parole:
“Farai una Menorah d’oro puro, tutta di un pezzo: il piedistallo e il
fusto, i suoi calici, i suoi boccioli e i suoi fiori da essa saranno”
(Esodo 25:31). E, come ha spiegato il rav Adolfo Locci in alcuni suoi
recenti interventi su moked.it, secondo Ben Ish Chay (Yosef Chayym di
Bagdad 1832-1909) la Menorah è oggi simboleggiata dalla Amidah che si
recita tre volte al giorno. Inoltre la recitazione dell’Amidah è uno
degli strumenti per restaurare la Shekhinah, la presenza divina che,
come la Menorah, deve avere alcune caratteristiche. Dev’essere di oro
puro (cioè recitata con espressione chiara e senza errori) e tutta di
un pezzo (ossia detta in un unica composizione, senza interruzioni)
compresi il piedistallo - le preghiere di supplica che seguono la
Amidah - e il fusto - le benedizioni che la compongono. I suoi calici
rappresentano le singole lettere e parole che formano le benedizioni; i
suoi boccioli simboleggiano il luogo del pensiero dell’uomo che deve
esprimersi nella recitazione dell’Amidah, i suoi fiori sono le aggiunte
che i maestri hanno permesso di fare all’interno delle benedizioni. Ben
Ish Chay sembra dirci, svelando questa simbologia nascosta, che quando
recitiamo l’Amidah, è come se stessimo davanti alla Menorah, anzi, come
se noi stessi fossimo una Menorah. Spiegano i Maestri anche che l’olio
per la Menorah, la cui luce simboleggia la Torah, rappresenta lo sforzo
diretto di ognuno di noi nella propria attività di studio. Uno studio
che deve essere continuo, perenne, fonte necessaria per alimentare la
Torah come l’olio lo era per la luce che irradiava dalla Menorah.
Quella originale, poi, fatta durante gli anni trascorsi a vagare nel
deserto, era di forma meravigliosa: si narra che Mosè avesse gettato
dell’oro nel fuoco e che essa si fosse formata da sola; invece quella
rappresentata nell’Arco di Tito è probabilmente una delle dieci
menoroth fatte da Hiram per il Tempio di Salomone e non l’originale
mosaica, che era stata nascosta prima delle distruzione del Primo
Tempio. In definitiva sussistono varie ipotesi su dove possa
trovarsi l'orignale della Menorah rappresentata nel bassorilievo:
secondo alcuni è proprio a Roma, in Vaticano (addirittura il ministro
israeliano Shimon Shitrit, nel 1996, ne chiese informazioni al papa),
oppure nascosta in una grotta a Gerusalemme sotto la spianata del
Tempio, o ancora nel Tevere, dove furono fatte anche alcune ricerche,
vicino all'isola Tiberina. Ma potrebbe essere anche arrivata fino a
Costantinopoli… Secondo il professor Fine, in verità, né quella né gli
altri oggetti depredati dal Tempio di Gerusalemme sarebbero
sopravvissuti all’antichità: furono probabilmente fusi, all’epoca della
distruzione dell’Impero romano, nel V secolo. L’unica traccia tangibile
è quindi in quell’Arco che, a sua volta, ha un altissimo valore
simbolico per il popolo ebraico: un arco trionfale di più di quindici
metri di altezza che ricorda a tutti il momento della Diaspora, al
punto che per secoli la legge ebraica ha proibito agli ebrei di
passarvi sotto, per non rischiare di dare in alcun modo onore ai
conquistatori romani. E ora, a distanza di quasi due millenni, a
pensare che proprio studiosi della Yeshiva University hanno portato
alla scoperta di quel piccolo frammento color ocra, è inevitabile
confessare la comparsa di un leggero senso di rivalsa.
Ada Treves, twitter @atrevesmoked, Pagine Ebraiche, agosto 2012
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Adeguarsi alla minoranza
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L’inserto
dell’Economist dello scorso 28 luglio distingue gli ebrei secondo
quattro principali denominazioni: Ultra-Orthodox (haredì),
Modern-Orthodox, Conservative, Reform. Dove stanno gli italiani? Fino a
qualche anno fa credo si sarebbe potuto rispondere senza troppe
esitazioni che si trattava di una categoria a sé, nominalmente
ortodossa ma di fatto, nei comportamenti di gran parte dei suoi membri
e anche in alcune scelte del suo rabbinato (per esempio sulle
conversioni), a volte più vicina a forme di ebraismo non ortodosso.
Oggi le cose sono cambiate: non saprei dire in quali proporzioni gli
ebrei italiani si autodefinirebbero “orthodox”, “traditional” o
“secular”, certamente il nostro rabbinato oggi è indubbiamente
“orthodox” (più o meno modern), così come mi pare siano
indiscutibilmente orthodox i nostri standard di kasherut, ecc. Ci siamo
adeguati a un mondo globalizzato, ed era inevitabile che accadesse. La
cosa curiosa è che, sempre secondo l’Economist, i modern orthodox sono
oggi il 10%, i haredim il 22%, gli altri sono non ortodossi. Dunque non
ci siamo adeguati alla maggioranza, ma alla minoranza. Può sembrare
illogico, ma in realtà ci sono valide ragioni per questo: i non
ortodossi, anche se ancora in maggioranza, tendono a diminuire
considerevolmente, gli ultra-ortodossi aumentano ma sono culturalmente
(almeno per ora) troppo lontani da noi perché possiamo pensare di
diventare come loro; inoltre la scelta di un ebraismo modern orthodox
appare l’unica potenzialmente in grado, pur tra molte difficoltà, di
mantenere il più possibile l’unità dell’ebraismo italiano. Resta
comunque il fatto che adeguarsi alla maggioranza può essere un
automatismo, ma adeguarsi alla minoranza è inevitabilmente una scelta
ideologica. In che misura siamo consapevoli di averla compiuta?
Anna
Segre, insegnante
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Noa incanta Roselle
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La
musica di Noa ha entusiasmato la Cava di Roselle. Per il Grey Cat Jazz
Festival la cantante israeliana ha fatto una performance internazionale
di altissimo livello, presentando il suo progetto “Noapolis”. Seppur
non propriamente, ma piuttosto influenzata dal jazz, la musica di Noa
al concerto alla Cava di Roselle, calzava a pennello con lo
spirito del Grey Cat Festival. I pezzi presentati attingevano al vasto
repertorio di Noa, un concerto coinvolgente che ha riscosso un meritato
successo.
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