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  16 agosto 2012 - 28 Av 5772
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elia richetti Elia
Richetti,
presidente dell'Assemblea rabbinica italiana
 


“Banìm attèm l-Ha-Shèm E-lokekhèm, lo’ thithgodedù we-lo’ thasìmu qorchà ben ‘enekhèm la-mèth”, “Voi siete figli del Signore D.o vostro, non fatevi incisioni e non radetevi tra i vostri occhi per un morto”.
Queste disposizioni sono evidentemente legate ad usanze pagane dalle quali l’ebreo deve tenersi lontano. Così le classifica il Maimonide, così le intendono la maggioranza dei commentatori. Ma il midràsh dà anche un’altra interpretazione: siccome siete tutti figli di Ha-Qadòsh Barùkh Hu’, “lo’ thithgodedù”, non suddividetevi in “agudòth” (gruppuscoli) e non mettete alcuna “qorchà” (radura, spazio vuoto) in mezzo ai vostri occhi: pur nel rispetto della pluralità delle opinioni (che è ricordata da Proverbi 19:21, “Molti sono i pensieri nel cuore dell’uomo...”), questa non deve portarci al frazionamento in gruppi che non hanno dialogo fra di loro, fra i quali c’è uno spazio, una radura, incolmabile. Anche l’eccessivo frazionamento è parte di una forma di paganesimo: il pensiero individuale diventa talmente preponderante da diventare una specie di idolo assoluto, da non lasciare spazio a una visione più globale, una visione che vede nella molteplicità delle idee uno stimolo anziché un’aberrazione.
Che quest’interpretazione non sia affatto peregrina è testimoniato anche dal fatto che l’ammonizione della Torah “lo’ thithgodedù” (non suddividetevi in gruppuscoli) è inserita tra due regole che hanno a che fare con la Qedushà, l’elevazione spirituale: l’obbligo di aborrire ogni forma di idolatria e il divieto di contaminarci con cibi impuri.
Il midràsh conosce a fondo la psicologia e l’animo umano: sa perfettamente che è cosa molto diffusa la radicalizzazione delle proprie idee. È per questo che ci mette in guardia, avvisandoci nel contempo che saper superare i propri personalismi è segno di elevatezza morale, di un livello che ci rende degni di definirci figli di Ha-Qadòsh Barùkh Hu’, creati veramente con il Suo sigillo e il Suo conio.


Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme


Sergio Della Pergola
I Giochi Olimpici di Londra non sono stati i più clamorosi per gli effetti speciali o i più memorabili per i risultati sportivi, ma verranno ricordati come una buona edizione, ben organizzata, interessante, ricca di veri confronti fra molti bravi atleti ditante nazioni. Israele non fa parte degli 85 paesi che hanno vinto almeno una medaglia – astinenza che non si verificava dal 1988. Se questo indichi una certa insufficienza dei programmi di educazione fisica nelle scuole dove cominciano a rivelarsi i giovani talenti è motivo di un'analisi che speriamo ci sarà. Ma è anche alla qualità della classe dirigente federale e allo spessore dei programmi di incentivi pubblici (e magari anche privati) agli atleti eccellenti che bisognerà guardare se si vorrà migliorare le future prestazioni complessive dello sport israeliano. L'Italia con le sue 28 medaglie può invece ritenersi ben soddisfatta da una prestazione di squadra con qualche delusione ma anche molti momenti di gioia dietro i quali è emersa evidente una preparazione altamente professionale e un carattere ammirevole da parte degli atleti in campo. Dell'Italia vista a Londra noi vogliamo ricordare in particolare una piccola immagine inedita, non sappiamo se studiata o casuale: quello scudetto sulle tute degli azzurri che sembrava tanto un piccolo candelabro a sei braccia, quasi una menorah.
 
davar
Quando passioni e ideologie scendono in campo
Prenderà il via tra una settimana la 72esima edizione della Ligat Ha'al, il massimo campionato israeliano di calcio. Campione in carica il 'piccolo' Hapoel Kiryath Shmona, trionfatore a sorpresa della passata stagione e adesso atteso alla difficile prova dei preliminari di Champions League.
Un'edizione che si annuncia molto accesa. In campo ma anche sugli spalti.

Una voce unica e ruggente si leva dagli spalti. Migliaia di persone intonano lo stesso coro, si abbracciano, esultano, si disperano. A unirle, sono i colori di una maglia, la fede, a tratti irrazionale e inquietante, per la stessa squadra. Il tifo calcistico è un esperimento straordinario di coesione sociale, una realtà che, tra luci e ombre, è da anni protagonista a livello internazionale della scena sportiva e non solo. Non fa eccezione Israele, dove nel fine settimana, da Gerusalemme a Tel Aviv, da Haifa a Beersheva, le città assistono all’esodo, direzione stadio, dei tanti, spesso esuberanti, tifosi. Bandieroni, sciarpe, maglie colorano le curve israeliane di verde, rosso, giallo e un’altra moltitudine di colori, simboli di una passione diffusa in tutto il paese. Purtroppo però, come accade in Europa, anche gli stadi israeliani hanno aperto le porte a un ospite ingombrante: la politica. Rivalità cittadine si sono mescolate a posizioni politiche diverse. Destra e sinistra, filo palestinesi e ultranazionalisti, persino askenaziti e sefarditi: gli ultras, lo zoccolo duro delle tifoserie, hanno portato sugli spalti uno spaccato radicale della società
israeliana. Troviamo i “rossi” dell’Hapoel Tel Aviv, sia come colore di maglia sia di orientamento politico; gli ultranazionalisti del Beitar Gerusalemme, che spesso si sono guadagnati l’onore delle cronache per manifestazioni di razzismo anti-arabo; la tendenza a destra del Maccabi Haifa; gli arabi israeliani del Bnei Sakhnin e così via. Il quadro delle tifoserie è variegato ed eterogeneo ma prima di addentrarsi in questo mondo è necessaria una premessa: la maggior parte delle persone in Israele va allo stadio per sostenere la propria squadra e godersi la partita, lasciando a casa ideologie e convinzioni politiche. Detto questo, alcune squadre, fin dalla loro origine, hanno rispecchiato le varie tendenze della società israeliana. Così durante il Mandato britannico ai primi del Novecento, nasceva l’Hapoel Tel Aviv (1923), squadra affiliata all’Histradrut (il più rappresentativo e forte sindacato d’Israele) e considerata espressione del proletariato. La borghesia invece era rappresentata calcisticamente dal Maccabi Tel Aviv, il team più vincente del paese e il secondo per numero di affezionati. Una divisione simile si aveva anche a Haifa, con Hapoel e Maccabi a contendersi lo scettro cittadino. A Gerusalemme troviamo il Beitar, la squadra terza per sostenitori (tra cui il premier Netanyahu) ma con più sanzioni disciplinari da parte dell’Ifa (Israel Football Association). La sponda più estremista dei suoi tifosi si è infatti resa a più riprese protagonista di comportamenti violenti contro la popolazione arabo israeliana, slogan razzisti contro giocatori di colore e altre poco nobili iniziative. Nato nel 1936, il team della Capitale era inizialmente formato dai giovani del Betar, il movimento ispirato alle idee del sionismo revisionista di Ze’ev Jabotisky. Un’impronta fortemente di destra a cui sono rimasti fedeli alcuni suoi sostenitori, riadattando il messaggio nazionalista alla violenza da stadio. Multe alla società, punti di penalizzazione e partite a porte chiuse non hanno trattenuto i facinorosi dal continuare nei loro atteggiamenti sprezzanti delle regole e nel boicottare, per esempio, l’acquisto di giocatori arabi. A rimetterci, la maggioranza dei tifosi della squadra. “Noi condanniamo il comportamento di queste persone e ne siamo purtroppo tra le vittime” spiegava alla televisione israeliana un tifoso con il figlio sulle spalle, bardato da una sciarpa giallo nera. La stupidità sembra però non avere freni e lo scorso marzo alcune centinaia di persone si sono macchiate di un atto incomprensibile: entrate nel centro commerciale di Mahla, quartiere dove sorge il Teddy Stadium, hanno dato sfogo alla loro rabbia aggredendo famiglie, picchiando selvaggiamente alcuni dipendenti, rivoltando sedie e distruggendo ciò che capitava loro sottomano. Per quanto riguarda le rivalità sportive e decisamente politiche, i nazionalisti di Beitar hanno come primi rivali i tifosi dell’Hapoel Tel Aviv. Un astio ricambiato. Insulti e improperi sono ordinaria amministrazione quando le due squadre si incontrano. A gettare benzina sul fuoco sono peraltro molto bravi i sostenitori dell’Hapoel. Su internet non molto tempo fa girava il testo di un loro coro che recitava: “Date Gerusalemme alla Giordania; non abbiamo bisogno né del Teddy Stadium né del Beitar; non il muro del pianto o la Knesset; tutto in quella città non serve”. Come biglietto da visita non c’è male. Ma i distinguo come sempre sono necessari. Non solo sono in pochi a cantare questo coro (che, se possibile, continua in modo ancora più offensivo) ma la definizione di tifoseria di sinistra per l’Hapoel non risponde del tutto al vero. Secondo un sondaggio, solo il 50 per cento dei supporter si connota politicamente nella “zona rossa”. In ogni caso è abbastanza comune vedere i volti di Che Guevara o Karl Marx risaltare tra bandiere e sciarpe rosse al Bloomsfield stadium, assieme a una gigantesca scritta “Proletari di tutto il mondo unitevi!”. Lo slancio socialista degli ultras dell’Hapoel si è tradotto negli anni nella partecipazione all’iniziativa Antifa, un network internazionale che si propone di combattere il razzismo e le derive fasciste negli stadi (Love Hapoel – Hate racism è uno dei motti della tifoseria). Non manca l’attenzione per alcune questioni sociali, con la raccolta fondi per i meno abbienti o la difesa dei diritti dei rifugiati, attualmente molto delicata in Israele. In una partita, ad esempio, i supporter hanno mostrato la scritta: “Chi qui non è un rifugiato?”. Molto apprezzati dalla popolazione araba per la loro posizione fortemente filo palestinese, i tifosi dell'Hapoel e la loro squadra non godono dello stesso sostegno nel resto di Israele. Tanto che l’Hapoel risulta essere il club più odiato del paese. Non ha aiutato lo striscione sempre presente al Bloomsfield Stadium: “Rappresentiamo l’Hapoel e non Israele” e il divieto in curva di sventolare la bandiera con la stella di Davide. Sono permessi solo i colori sociali, unica fede – o quasi – che può entrare allo stadio. Per tutta risposta i tifosi del Maccabi Haifa, gli yerukim (verdi) hanno mostrato recentemente un contro striscione che diceva: “Rappresentiamo il Maccabi e Israele”. Ufficialmente apolitica, la curva del Maccabi è equamente divisa tra sostenitori di destra e di sinistra. “Cerchiamo di tenere fuori dallo stadio la politica e comunque siamo in prima linea contro il razzismo – spiegava un tifoso sul giornale Yedioth Ahronot – Ad esempio una volta abbiamo giocato contro il Beitar a Gerusalemme e ha segnato Mohammed Ghadir, un giovane talento arabo israeliano, e provocatoriamente abbiamo cantato all’indirizzo degli avversari: guarda che goal ha fatto Mohammed!”. Non è quindi un caso che, assieme al Bnei Sakhnin, il Maccabi Haifa sia la società più seguita dagli arabi. Le spettacolari coreografie, che tengono testa a quelle del Maccabi e dell’Hapoel Tel Aviv, sono spesso affidate ai Kofim Yerukim (Scimmie Verdi), tra i gruppi organizzati più caldi. Un po’ di ironia nella scelta del nome: derisa dal Maccabi Tel Aviv (“scimmie di periferia”), la torcida di Haifa ha deciso di trasformare l’epiteto in un suo simbolo. Si citava prima il Bnei Sakhnin, squadra araba israeliana che nel 2004 è riuscita, tra lo stupore degli esperti e i mal di pancia degli estremisti, a vincere la coppa nazionale. Nel piccolo stadio Doha (8500 posti) risuonano cori in ebraico e in arabo, un accostamento che alcuni non sono disposti a sentire. Guardando i video su internet di queste squadre è difficile non farsi coinvolgere dall’entusiasmo. Mani che battono all’unisono, centinaia di persone che si abbracciano e cantano sventolando bandiere e sciarpe. Come in Europa, però, questa condivisione e solidarietà deve rimanere nelle sue accezioni positive e sportive; quando diventa valvola di sfogo di rabbie e frustrazioni non è solo pericoloso per le vittime ma per la società intera.

Daniel Reichel (Pagine Ebraiche agosto 2012)


pilpul
Informazioni e segreti
Un blogger israeliano ha rivelato quello che dovrebbe essere il piano segreto d'Israele per attaccare l'Iran. Non sappiamo ovviamente se sia vero o meno, ma è interessante vedere come l'utilizzo d'internet abbia stravolto ogni abitudine. Non è successo spesso infatti che nella storia le popolazioni coinvolte potessero avere un accesso diretto alle informazioni su ciò che stava avvenendo. Se da un lato questo potrebbe permette talora di prevenire qualche conflitto, dall'altra il rischio è che la quantità di informazioni, non tutte veritiere, possano causare l'effetto opposto creando diffidenza e reciproca ostilità. Per questo non sempre i mezzi di comunicazione sono d'aiuto e di certo c'è solo che della miriade d'informazioni che offre il web è bene farne una sana cernita.

Daniel Funaro, studente - twitter @danielfunaro


Il Tizio della Sera - Allucinazioni
notizieflash   rassegna stampa
Mariah Carey twitta con Israele
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“Le’chaim shout out to Israel”. Così la celebre pop star statunitense Mariah Carey in un messaggio postato su twitter che è spopolato tra i suoi molti fan israeliani. L'occasione era il compleanno di una cara amica, israeliana per l'appunto.
Non è la prima volta che la 42enne artista di Huntington dimostra una 'special connection' con Israele. Nel 2006, nel film Zohan-Tutte le donne vengono al pettine, aveva ad esempio cantato l'Hatikva.

 
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