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Elia
Richetti,
presidente dell'Assemblea rabbinica italiana
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“Banìm attèm l-Ha-Shèm E-lokekhèm, lo’ thithgodedù we-lo’
thasìmu qorchà ben ‘enekhèm la-mèth”, “Voi siete figli del Signore D.o
vostro, non fatevi incisioni e non radetevi tra i vostri occhi per un
morto”.
Queste disposizioni sono evidentemente legate ad usanze pagane dalle
quali l’ebreo deve tenersi lontano. Così le classifica il Maimonide,
così le intendono la maggioranza dei commentatori. Ma il midràsh dà
anche un’altra interpretazione: siccome siete tutti figli di Ha-Qadòsh
Barùkh Hu’, “lo’ thithgodedù”, non suddividetevi in “agudòth”
(gruppuscoli) e non mettete alcuna “qorchà” (radura, spazio vuoto) in
mezzo ai vostri occhi: pur nel rispetto della pluralità delle opinioni
(che è ricordata da Proverbi 19:21, “Molti sono i pensieri nel cuore
dell’uomo...”), questa non deve portarci al frazionamento in gruppi che
non hanno dialogo fra di loro, fra i quali c’è uno spazio, una radura,
incolmabile. Anche l’eccessivo frazionamento è parte di una forma di
paganesimo: il pensiero individuale diventa talmente preponderante da
diventare una specie di idolo assoluto, da non lasciare spazio a una
visione più globale, una visione che vede nella molteplicità delle idee
uno stimolo anziché un’aberrazione.
Che quest’interpretazione non sia affatto peregrina è testimoniato
anche dal fatto che l’ammonizione della Torah “lo’ thithgodedù” (non
suddividetevi in gruppuscoli) è inserita tra due regole che hanno a che
fare con la Qedushà, l’elevazione spirituale: l’obbligo di aborrire
ogni forma di idolatria e il divieto di contaminarci con cibi impuri.
Il midràsh conosce a fondo la psicologia e l’animo umano: sa
perfettamente che è cosa molto diffusa la radicalizzazione delle
proprie idee. È per questo che ci mette in guardia, avvisandoci nel
contempo che saper superare i propri personalismi è segno di elevatezza
morale, di un livello che ci rende degni di definirci figli di
Ha-Qadòsh Barùkh Hu’, creati veramente con il Suo sigillo e il Suo
conio.
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Prenderà il via tra una settimana la
72esima edizione della Ligat Ha'al, il massimo campionato israeliano di
calcio. Campione in carica il 'piccolo' Hapoel Kiryath Shmona,
trionfatore a sorpresa della passata stagione e adesso atteso alla
difficile prova dei preliminari di Champions League.
Un'edizione che si
annuncia molto accesa. In campo ma anche sugli spalti.
Una voce unica e ruggente si leva dagli spalti. Migliaia di persone
intonano lo stesso coro, si abbracciano, esultano, si disperano. A
unirle, sono i colori di una maglia, la fede, a tratti irrazionale e
inquietante, per la stessa squadra. Il tifo calcistico è un esperimento
straordinario di coesione sociale, una realtà che, tra luci e ombre, è
da anni protagonista a livello internazionale della scena sportiva e
non solo. Non fa eccezione Israele, dove nel fine settimana, da
Gerusalemme a Tel Aviv, da Haifa a Beersheva, le città assistono
all’esodo, direzione stadio, dei tanti, spesso esuberanti, tifosi.
Bandieroni, sciarpe, maglie colorano le curve israeliane di verde,
rosso, giallo e un’altra moltitudine di colori, simboli di una passione
diffusa in tutto il paese. Purtroppo però, come accade in Europa, anche
gli stadi israeliani hanno aperto le porte a un ospite ingombrante: la
politica. Rivalità cittadine si sono mescolate a posizioni politiche
diverse. Destra e sinistra, filo palestinesi e ultranazionalisti,
persino askenaziti e sefarditi: gli ultras, lo zoccolo duro delle
tifoserie, hanno portato sugli spalti uno spaccato radicale della
società israeliana.
Troviamo i “rossi” dell’Hapoel Tel Aviv, sia come colore di maglia sia
di orientamento politico; gli ultranazionalisti del Beitar Gerusalemme,
che spesso si sono guadagnati l’onore delle cronache per manifestazioni
di razzismo anti-arabo; la tendenza a destra del Maccabi Haifa; gli
arabi israeliani del Bnei Sakhnin e così via. Il quadro delle tifoserie
è variegato ed eterogeneo ma prima di addentrarsi in questo mondo è
necessaria una premessa: la maggior parte delle persone in Israele va
allo stadio per sostenere la propria squadra e godersi la partita,
lasciando a casa ideologie e convinzioni politiche. Detto questo,
alcune squadre, fin dalla loro origine, hanno rispecchiato le varie
tendenze della società israeliana. Così durante il Mandato britannico
ai primi del Novecento, nasceva l’Hapoel Tel Aviv (1923), squadra
affiliata all’Histradrut (il più rappresentativo e forte sindacato
d’Israele) e considerata espressione del proletariato. La borghesia
invece era rappresentata calcisticamente dal Maccabi Tel Aviv, il team
più vincente del paese e il secondo per numero di affezionati. Una
divisione simile si aveva anche a Haifa, con Hapoel e Maccabi a
contendersi lo scettro cittadino. A Gerusalemme troviamo il Beitar, la
squadra terza per sostenitori (tra cui il premier Netanyahu) ma con più
sanzioni disciplinari da parte dell’Ifa (Israel Football Association).
La sponda più estremista dei suoi tifosi si è infatti resa a più
riprese protagonista di comportamenti violenti contro la popolazione
arabo israeliana, slogan razzisti contro giocatori di colore e altre
poco nobili iniziative. Nato nel 1936, il team della Capitale era
inizialmente formato dai giovani del Betar, il movimento ispirato alle
idee del sionismo
revisionista di Ze’ev Jabotisky. Un’impronta fortemente di destra a cui
sono rimasti fedeli alcuni suoi sostenitori, riadattando il messaggio
nazionalista alla violenza da stadio. Multe alla società, punti di
penalizzazione e partite a porte chiuse non hanno trattenuto i
facinorosi dal continuare nei loro atteggiamenti sprezzanti delle
regole e nel boicottare, per esempio, l’acquisto di giocatori arabi. A
rimetterci, la maggioranza dei tifosi della squadra. “Noi condanniamo
il comportamento di queste persone e ne siamo purtroppo tra le vittime”
spiegava alla televisione israeliana un tifoso con il figlio sulle
spalle, bardato da una sciarpa giallo nera. La stupidità sembra però
non avere freni e lo scorso marzo alcune centinaia di persone si sono
macchiate di un atto incomprensibile: entrate nel centro commerciale di
Mahla, quartiere dove sorge il Teddy Stadium, hanno dato sfogo alla
loro rabbia aggredendo famiglie, picchiando selvaggiamente alcuni
dipendenti, rivoltando sedie e distruggendo ciò che capitava loro
sottomano. Per quanto riguarda le rivalità sportive e decisamente
politiche, i nazionalisti di Beitar hanno come primi rivali i tifosi
dell’Hapoel Tel Aviv.
Un astio ricambiato. Insulti e improperi sono ordinaria amministrazione
quando le due squadre si incontrano. A gettare benzina sul fuoco sono
peraltro molto bravi i sostenitori dell’Hapoel. Su internet non molto
tempo fa girava il testo di un loro coro che recitava: “Date
Gerusalemme alla Giordania; non abbiamo bisogno né del Teddy Stadium né
del Beitar; non il muro del pianto o la Knesset; tutto in quella città
non serve”. Come biglietto da visita non c’è male. Ma i distinguo come
sempre sono necessari. Non solo sono in pochi a cantare questo coro
(che, se possibile, continua in modo ancora più offensivo) ma la
definizione di tifoseria di sinistra per l’Hapoel non risponde del
tutto al vero. Secondo un sondaggio, solo il 50 per cento dei supporter
si connota politicamente nella “zona rossa”. In ogni caso è abbastanza
comune vedere i volti di Che Guevara o Karl Marx risaltare tra bandiere
e sciarpe rosse al Bloomsfield stadium, assieme a una gigantesca
scritta “Proletari di tutto il mondo unitevi!”. Lo slancio socialista
degli ultras dell’Hapoel si è tradotto negli anni nella partecipazione
all’iniziativa Antifa, un network internazionale che si propone di
combattere il razzismo e le derive fasciste negli stadi (Love Hapoel –
Hate racism è uno dei motti della tifoseria). Non manca l’attenzione
per alcune questioni sociali, con la raccolta fondi per i meno abbienti
o la difesa dei diritti dei rifugiati, attualmente molto delicata in
Israele. In una partita, ad esempio, i supporter hanno mostrato la
scritta: “Chi qui non è un rifugiato?”. Molto apprezzati dalla
popolazione araba per la loro posizione fortemente filo palestinese, i
tifosi dell'Hapoel e la loro squadra non godono dello stesso sostegno
nel resto di Israele. Tanto che l’Hapoel risulta essere il club più
odiato del paese. Non ha aiutato lo striscione sempre presente al
Bloomsfield Stadium: “Rappresentiamo
l’Hapoel e non Israele” e il divieto in curva di sventolare la bandiera
con la stella di Davide. Sono permessi solo i colori sociali, unica
fede – o quasi – che può entrare allo stadio. Per tutta risposta i
tifosi del Maccabi Haifa, gli yerukim (verdi) hanno mostrato
recentemente un contro striscione che diceva: “Rappresentiamo il
Maccabi e Israele”. Ufficialmente apolitica, la curva del Maccabi è
equamente divisa tra sostenitori di destra e di sinistra. “Cerchiamo di
tenere fuori dallo stadio la politica e comunque siamo in prima linea
contro il razzismo – spiegava un tifoso sul giornale Yedioth Ahronot –
Ad esempio una volta abbiamo giocato contro il Beitar a Gerusalemme e
ha segnato Mohammed Ghadir, un giovane talento arabo israeliano, e
provocatoriamente abbiamo cantato all’indirizzo degli avversari: guarda
che goal ha fatto Mohammed!”. Non è quindi un caso che, assieme al Bnei
Sakhnin, il Maccabi Haifa sia la società più seguita dagli arabi. Le
spettacolari coreografie, che tengono testa a quelle del Maccabi e
dell’Hapoel Tel Aviv, sono spesso affidate ai Kofim Yerukim (Scimmie
Verdi), tra i gruppi organizzati più caldi. Un po’ di ironia nella
scelta del nome: derisa dal Maccabi Tel Aviv (“scimmie di periferia”),
la torcida di Haifa ha deciso di trasformare l’epiteto in un suo
simbolo. Si citava prima il Bnei Sakhnin, squadra araba israeliana che
nel 2004 è riuscita, tra lo stupore degli esperti e i mal di pancia
degli estremisti, a vincere la coppa nazionale. Nel piccolo stadio Doha
(8500 posti) risuonano cori in ebraico e in arabo, un accostamento che
alcuni non sono disposti a sentire. Guardando i video su internet di
queste squadre è difficile non farsi coinvolgere dall’entusiasmo. Mani
che battono all’unisono, centinaia di persone che si abbracciano e
cantano sventolando bandiere e sciarpe. Come in Europa, però, questa
condivisione e solidarietà deve rimanere nelle sue accezioni positive e
sportive; quando diventa valvola di sfogo di rabbie e frustrazioni non
è solo pericoloso per le vittime ma per la società intera.
Daniel Reichel
(Pagine Ebraiche agosto 2012)
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