David
Bidussa,
storico sociale delle idee
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Qualcuno
si ricorda di Erin Brockovich, l’eroina della class action immortalata
nel 2000 da Julia Roberts nell’omonimo film diretto da Steven
Soderbergh, segretaria di un piccolo studio legale che indaga sulla
Pacific Gas and Electric Company, il colosso americano produttore di
energia responsabile della contaminazione delle falde acquifere di un
paesino californiano provocando tumori e gravissime malattie ai
residenti? Il tutto conseguito inquinando prove e cercando, trovandole,
sponde solide tra funzionari pubblici compiacenti.
Ci ho pensato molto in questi giorni a proposito dell’Ilva di Taranto.
E mi sono chiesto come mai porre una questione di giustizia nel nostro
paese sia così difficile e perché nessuno abbia parlato. In ogni caso
perché nessuna figura morale - politica, civile, religiosa - a
prescindere dalla propria funzione pubblica, abbia posto la questione
della responsabilità pubblica. Deve essere che ognuno è talmente preso
dalla coltivazione della propria identità (dell’orgoglio di averne una,
o del timore di perdere quella che ha duramente conquistato) che si è
persa l’abitudine di porre, anche utilizzando il proprio bagaglio
culturale e identitario, questioni di carattere generale o che
riguardano la qualità della vita di tutti. Ovvero di pensarsi come
parte di un mondo. O forse, più semplicemente, di essere nel mondo.
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Le
sirene di radiomercato danno segnali sempre più forti sull'asse
Firenze-Londra. La Fiorentina, alla ricerca di un attaccante per
completare il reparto offensivo in vista dell'imminente avvio della
Serie A 2012-2013, sarebbe infatti sulle tracce del 'bimbo di Dimona',
all'anagrafe Yossi Benayoun, ala del Chelsea e uomo simbolo di una
generazione di calciatori israeliani riuscita ad affermarsi sui più
prestigiosi prati europei. Artefice della trattativa – alte le
possibilità di riuscita – il talent scout viola Eduardo Macia, che
Benayoun ben conosce avendolo avuto come dirigente ai tempi del
Liverpool, il club dove più ha lasciato il segno (92 presenze e 22
reti).
Superata la soglia dei 32 anni, Benayoun è entrato nella fase
declinante della carriera ma sembra ancora in grado di dare un
contributo più che significativo. Soprattutto se riuscirà a tenersi
lontano dai guai fisici che in questi ultimi anni lo hanno
ripetutamente colpito costringendolo a centellinare le presenze sul
terreno di gioco e relegandolo ai margini dei Blues di Abramovich e
prima ancora all'Arsenal, dove è stato in prestito dodici mesi senza
lasciare un ricordo indimenticabile del suo tesseramento. Adesso Yossi
ha in mano le ultime carte e vuole scegliere bene: restare in
Inghilterra e provare a guadagnarsi uno spazio nel club campione
d'Europa col rischio concreto di finire tagliato fuori oppure cambiare
drasticamente orizzonte abbracciando la sfida del campionato italiano,
certo meno prestigioso rispetto a un recente passato di gloria ma
comunque sempre luogo appetibile per ritagliarsi soddisfazioni di un
certo livello? La risposta la sapremo nelle prossime ore. Nel caso di
segnali positivi da Londra, legati eventualmente anche a un diritto di
prelazione da far valere su Jovetic nella prossima sessione di mercato,
l'arrivo di Benayoun a Firenze sarebbe cosa
quasi certa anche se il club gigliato continua a guardarsi attorno e
sonda alcune soluzioni alternative.
Entro la prossima settimana il nostro torneo potrebbe così accogliere
il terzo calciatore israeliano della sua storia dopo Tal Banin (tre
anni non proprio strepitosi a Brescia nella seconda metà degli anni
Novanta) e il più frizzante Eran Zahavi, jolly d'attacco del Palermo
chiamato quest'anno al definitivo salto di qualità. A Firenze tra
l'altro Benayoun ha già giocato come avversario nella Champions League
di tre anni fa bucando nel match di ritorno ad Anfield Road la porta
difesa da Frey con un calcio di punizione magistrale. A passare il
turno erano stati (a sorpresa) i viola, ma Yossi era stato l'ultimo ad
alzare bandiera bianca.
Adam Smulevich -
twitter @asmulevichmoked
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Davar Acher - Cosa abbiamo da ridere?
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E'
stato ampiamente annunciato: domenica 2 settembre, si svolgerà la
tradizionale giornata europea della cultura ebraica, che avrà come
oggetto l'umorismo. Come accade abbastanza spesso con questi
appuntamenti decisi su qualche tavolino europeo, con rapporti piuttosto
vaghi e indiretti con la produzione e la conservazione reale della
cultura viva del popolo ebraico, si tratta di un tema discutibile, che
sembra rispondere più che alla sfida dell'elaborazione dei tratti più
propri e più vitali di un popolo, a un'idea di cultura come
intrattenimento o industria culturale o al massimo produzione
antropologica. Ma forse proprio per questo, per la sua indiscutibile
facilità e per il suo probabile successo, esso richiede di essere
almeno un po' pensato e discusso.
C'è qualcosa di specificamente ebraico nell'umorismo o di specialmente
umoristico nell'ebraismo? Guardando la Torah non si direbbe: qualche
gioco di parole, con un contenuto più o meno amaro, come quello che
impone un nome che significa “riderai” al più triste fra i patriarchi e
forse di tutti i personaggi biblici, Isacco; o quello che interpreta
“Babele” con “confusione” invece che come “porta divina” come
probabilmente doveva apparire immediatamente a chi sapesse un po' di
aramaico. Qualche beffa, come quella di Giuseppe allo stesso Isacco, o
di Sansone ai Filistei. Poco più; ma soprattutto al contrario
l'evidente pretesa ebraica di far prendere sempre sul serio tutto il
testo della Torah, anche nei dettagli che oggi si potrebbero
interpretare come vagamente umoristici.
Lo stesso si può dire del Talmud, nonostante il tentativo di un libro
recente di Daniel Boyarin molto colto ma altrettanto tendenzioso
(“Socrates and the Fat Rabbis”, Un. of Chicago Press), di presentare in
parallelo la discussione talmudica e i dialoghi socratici sotto la
categoria bakhtiniana di mescolanza dei discorsi e degli stili alti e
bassi, con abbondanti paragoni con Rabelais e la satira ellenistica. La
realtà è che anche i più contorti e improbabili ragionamenti ed esempi
talmudici non sono messi lì per divertire il pubblico ma per insegnare
qualcosa, sia pure a mezzo dei ragionamenti per assurdo consapevolmente
assai bizzarri. Nella tradizione successiva, da Rashi a Maimonide,
dalla Kabbalah al chassidismo, la pretesa estrema di serietà
dell'ebraismo si conferma ampiamente. Certamente c'è chi ama paradossi
e favole come Nachman di Brazlav, chi non tene discorsi iperbolici come
gli autori dello Zohar, ma si tratta di eccezioni e ancora fatte non
per produrre allegria ma per insegnare meglio: chi prendesse qualche
dettaglio irrealistico di questi discorsi come pretesto per una risata
più o meno liberatoria smarrirebbe buona parte del loro senso.
Dunque la tradizione centrale e produttiva della cultura ebraica non è
particolarmente umoristica. Nessun Orazio o Moliére nel nostro canone,
per non parlare di Belli o Folengo. Anche il regime di senso di Purim
non è il ridicolo, ma semmai l'allegria selvaggia dello scampato
pericolo mortale, la derisione del carnefice impiccato allo stesso
patibolo che aveva preparato per noi. Tutt'altro che umorismo, dunque.
Eppure quello dell'umorismo ebraico è un luogo comune diffuso, che ha
dato luogo a numerose e fortunate pubblicazioni, raccolte di
barzellette e battute, spettacoli con relativi comici che fatto
carriera proprio specializzandosi in umorismo ebraico. Bisogna
chiedersi la ragione di questa esplosione di umorismo ai margini della
nostra alta cultura. Una traccia viene dal fatto che queste
manifestazioni vengono quasi solo dall'insediamento askenazita
dell'ebraismo e più specificamente dal momento della sua assimilazione.
Nelle raccolte delle storie chassidiche, che sono il cuore del mondo
yiddish non assimilato vi è infatti molto spirito ma pochissimo
umorismo. Il “Witz” è un'invenzione degli ebrei entrati nel mondo
borghese, il suo luogo più tipico è l'impero absburgico. La ragione la
spiega chiaramente Freud nel suo “Motto di spirito”. Messi di fronte a
un antisemitismo borghese e dunque obbligato ad evitare (almeno per un
po') la violenza diretta di un tempo e a sostituirla con manifestazioni
verbali e simboliche di disprezzo, gli ebrei di Vienna, di Praga, di
Berlino e delle altre civilissime metropoli che presto sarebbero state
teatro della Shoah cercarono di allontanare da sé la discriminazione
facendola propria per scherzo, un po' come agiscono certi ragazzi presi
in giro dalla loro classe: fanno i buffoni e si assumono da soli la
canzonatura in modo da prevenirla e - sperabilmente - da depotenziarla.
Per umorismo ebraico bisogna intendere infatti non solo quello che ha
la caratteristica di essere fatto dagli ebrei, ma soprattutto quello
che li ha come oggetto. E' l'umorismo degli ebrei contro gli ebrei:
un'auto-presa in giro cui altre popolazioni bersagliate dall'ironia
popolare (scozzesi, belgi per i francesi, carabinieri per gli italiani
eccetera) non hanno in genere fatto ricorso. Può essere un segno di
intelligenza collettiva e di disponibilità a mettersi in discussione,
come appare oggi ai più; ma probabilmente all'origine era invece un
segno di debolezza, l'espressione di una crisi di identità, di una
voglia traumatica di distaccarsi da sé.
La specificità dell'umorismo ebraico è questo tratto di
auto-aggressione omeopatica che mima il discorso antisemita per
prevenirlo, utilizzando perciò tutti gli stereotipi dell'antisemitismo
- solo depotenziati e resi buffi invece che truci: l'avarizia e il
familismo, la congiura e l'incredulità, il sovversivismo e la faccia
tosta, la menzogna e l'affarismo e tutti gli altri. Basta grattare un
po' la superficie delle battute sulle yiddishe mamele e sui
commercianti azkenazi e li ritroviamo tutti quanti. Questo spiega il
loro successo non solo nel mondo ebraico - che usandoli allenta la sua
tensione, la paura vera per la propria vita, come spiega Freud, o
magari fa qualche primo passo verso la rinuncia alla propria identità,
vedendola non più come venerabile e ricca, ma come inferiore e
ridicola. Il successo c'è ancor di più nel pubblico generale, che vi
trova conferma della propria antipatia e dei propri pregiudizi, ma col
consenso un po' untuoso della vittima. “Se lo dicono loro...” sarà un
po' vero... e certamente mancano di dignità se si deridono da soli in
questo modo... E i luoghi comuni in questa maniera si confermano e si
perpetuano.
Non dico questo ovviamente per condannare questa forma di
umorismo né la manifestazione che intende celebrarla come “cultura
ebraica”. Mi limito a dire che c'è un pericolo implicito in questa
storia, non solo per le sue conseguenze esterne, per esempio da parte
di chi, essendo poco fornito di sense of humour e magari intriso di un
po' di antisemitismo, può avere conferma che gli ebrei non solo sono
mascalzoni, mafiosi, oppressivi e maligni, ma lo confessano e
addirittura se ne vantano. Mi preoccupa di più il pericolo interno che
nasce da questa abitudine all'auto-preso in giro, l'assunzione dello
sguardo dell'altro, paternalista o giudicante, sul mondo ebraico.
Perché questa è una mossa che talvolta prelude all'odio di sé, a quel
disprezzo della vita ebraica e dei suoi obiettivi per cui possiamo
apparire a noi stesso “come insetti”, secondo quel sentimento dei primi
antisionisti della storia, gli esploratori spediti da Mosé a vedere
com'era la terra di Israele, che tornarono e dissero che era meglio
tornare a fare gli schiavi come sempre.
Ugo
Volli - twitter @UgoVolli
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rassegna
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Kippah
walk per le strade di Malmoe
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Una
vera e propria 'kippah walk' si è svolta venerdì pomeriggio per le
strade di Malmoe. Centinaia i cittadini svedesi che hanno sfilato per
le strade del centro indossando la kippah in segno di solidarietà verso
la comunità ebraica cittadina recentemente fatta oggetto di pesanti
aggressioni fisiche e verbali. Manifestazioni analoghe hanno avuto luogo anche nella capitale Stoccolma.
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Dov’è
Farouk al-Sha,ara, vice di Bashir al Assad? Sembra la domanda che
poneva astiosamente un Adolf Hitler nei suoi ultimi giorni di vita,
autoreclusosi nel bunker della cancelleria del Reich («millenario»…),
nel mentre i russi erano oramai a pochi chilometri dal suo rifugio(...).
continua >>
Claudio Vercelli
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