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20 agosto 2012 - 2 Elul 5772
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Adolfo Locci, rabbino capo
di Padova

Nella pagina talmudica quotidiana di ieri, si racconta dei figli di Rabbi Chiya che si dispiacevano di aver dimenticato gran parte di quanto avevano studiato. Tuttavia, tra i due si instaura una discussione: se questo loro dispiacere poteva provocarne uno simile al loro padre oramai defunto. Uno sosteneva che i morti sanno e l'altro affermava invece che i defunti non possono sapere ciò che accade nella nostra realtà. La questione, nella pagina di ieri, non trova una risposta definitiva, rimane aperta, forse per indicarci che se ci comportiamo correttamente e sbagliamo il meno possibile, avremo meno dispiaceri, nel caso "i morti sapessero"... 

Anna
Foa,
 storica

   
Anna Foa
E' cominciata, con due settimane di anticipo, la discussione sul tema della prossima giornata della cultura ebraica: l'umorismo ebraico. Mi sembra una buona cosa. Personalmento, non avevo mai interpretato la straordinaria autoironia di ciò che chiamiamo umorismo ebraico come una forma di odio di sè o come un gradino verso l'assimilazione più bieca. Anzi, avevo sempre considerato la capacità di ironizzare su sè stessi, la capacità di sorridere di sè, come una grande acquisizione, sia a livello individuale che collettivo. Una cultura capace di prendersi gioco di sè ha, mi sembrava, gli antivirus contro l'intolleranza, il fanatismo, l'egocentrismo e fin la violenza. E l'assimilazione? facciamoci una risata! oops, dimenticavo, non c'è nulla da ridere.

davar
Giornata della cultura 2012 - Appuntamento a Venezia
Meno di due settimane all’appuntamento con la Giornata europea della cultura ebraica, che domenica 2 settembre coinvolgerà oltre sessanta località in Italia e decine di paesi europei. Tema scelto per l’edizione 2012, l’umorismo ebraico.Tra film, laboratori, mostre e musica, gli appuntamenti in programma racconteranno dunque una delle caratteristiche più affascinanti della realtà ebraica: l’arte di saper ridere e far ridere, nei momenti positivi e in quelli più difficili. Da Woody Allen a Mel Brooks, agli autori di comics, l’ironia è un filo portante che percorre un’intera cultura declinandosi nei secoli in mille forme e contenuti.
Di seguito l’intervento di Amos Luzzatto, presidente della Comunità ebraica di Venezia, città capofila della rassegna. Il programma completo su www.ucei.it/giornatadellacultura. Le iniziative europee su www.jewisheritage.org

"Sorrisi. Più o meno amari"

Su quale fondamento culturale nasce e si sviluppa l’umorismo ebraico? Non certo sulla vita serena, abbondante di risorse e di soddisfazioni di una collettività umana apprezzata dal mondo che la circondava, senza preoccupazioni materiali e morali. Se nella Storia degli ebrei ci sono stati anche periodi con queste caratteristiche, essi sono stati fugaci e inerti, vere parentesi eccezionali. Dispersi in Comunità spesso piccolissime, generalmente incompresi, considerati strani residui di tempi e di società passate, spesso detestati o derisi, gli ebrei traevano la loro forza anche dalla capacità di ridere, più spesso di sorridere dei propri limiti e dei propri difetti facendoli diventare un modo di vivere come tanti altri: questi siamo noi, questi sono i nostri limiti e la nostra realtà: non siamo migliori, ma forse neppure peggiori degli altri. Vi porterò un esempio letterario.Nell’Europa orientale, dove l’Impero zarista raccoglieva la massima parte degli ebrei del Continente, alla fine del XIX/inizio del XX secolo scriveva in yiddish (poi tradotto in ebraico sotto la sua guida) lo scrittore Schalom Jakov Abramowitz, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Mendale Moikher Sfurim, Mendale il libraio (1835-1917), un classico dell’umorismo ebraico. Un suo racconto famoso, I viaggi di Beniamino terzo è stato tradotto anche in italiano. Vi si narra la storia di un Don Chisciotte ebreo che vuole simulare le gesta di due viaggiatori ebrei medioevali, dal nome di Beniamino, come il protagonista. Beniamino terzo vive in un mondo fantastico, che è la sua realtà; ha una rispettabile cultura ebraica tradizionale, è poverissimo, trasforma in realtà vecchi miti e vuole raggiungere le tribù ebraiche scomparse attraversando il fiume leggendario e pericoloso che porta non acqua ma sassi, il Sambatyon; questo fiume “riposa” il Sabato, quando però un ebreo osservante non dovrebbe attraversarlo. Nel suo primo tentativo subisce un colpo di sole e viene riportato al suo villaggio da un contadino ucraino. Come comunicare con il soccorritore? Quello non parla lo yiddish, (e perché dovrebbe?), e quanto a Beniamino, lui conosceva un tempo una sola lingua straniera, i làzis del commentatore biblico Rashi; ma ora li ha dimenticati. Fatica inutile: si tratta infatti di parole del francese antico, linguisticamente anche interessanti, ma che sicuramente il contadino ucraino non avrebbe capito. Ecco qui l’umorismo ebraico, che sorride, con amaro affetto, dei propri limiti, persino del triste isolamento linguistico e culturale di molte comunità ebraiche. È consapevole di questo limite, di questa debolezza. Ma poi ci ride sopra, si stringe nelle spalle, dice “mèile!”, che è una specie di “e va bene!” e riprende la dura vita di tutti i giorni. Certo, le migrazioni del XX secolo, i pogrom dei nostri tempi e il nuovo feroce antisemitismo dell’Europa progredita hanno introdotto motivi nuovi, non ultima la scoperta di società nuove. Ed ecco l’immigrato in America che si ostina a dire che sua moglie is in the chicken to cook a kitchen, ma si esprime correttamente non appena trovato un lavoro. O l’immigrante dalla Russia che a tavola, al compito viaggiatore francese che gli dice bon appetit e lui risponde Goldmann, convinto che il francese si sia presentato con il suo cognome, ma, una volta capito l’equivoco e formulato correttamente l’augurio, ha la sorpresa di sentirsi rispondere Goldmàn. Certo, c’è anche questo, c’è il witz che cerca di rendere la vita sopportabile. E ci sono i miti novelli, come quelli del magico, onnipotente Rothschild. Anche l’Italia è stata teatro di immigrazione ebraica, da altri lidi del Mediterraneo e poi anche dall’Europa centro-orientale. In linea di massima, i nuovi arrivati si assimilavano bene all’ebraismo italiano e all’Italia in genere. Non sempre, però. Io stesso ho cercato di descrivere nel mio libro Hermann le difficoltà di ambientamento di un dotto ebreo tedesco, uno di quelli che sono designati come jekke. In Israele esiste una intera letteratura umoristica su di loro, che insiste spesso su equivoci linguistici, come nel caso dei due guardiani, uno jekke e uno sefardita, che comunicano con il vocabolario. Il primo, allarmato per rumori sospetti, vuol dire al compagno “gib acht!”(fai attenzione), ma traduce con “ten shmone!”(dai otto); e quando questi gli chiede che cosa sia successo, il primo, stringendosi nelle spalle, per dire “ich weiss!” (che ne so!), traduce “io bianco”. C’erano barriere linguistiche? Certo; ma anche queste sono state superate con il sorriso. Mi sia concesso ricordare a questo proposito che fra i primi teatri in lingua ebraica nella nascente Israele non c’era solo la gloriosa Habima che metteva in scena il Dibbuk, ma anche la compagnia del Matatè, La scopa, che presentava pezzi umoristici. Possiamo affermare che anche nell’epopea della costruzione di questa nuova realtà sociale, culturale e statuale che si chiama Israele l’antico e sempre nuovo umorismo ebraico ha trovato il suo spazio e ha dato il suo irrinunciabile contributo.

Amos Luzzatto, presidente della Comunità Ebraica di Venezia
(da Pagine Ebraiche, settembre 2012)

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In cornice - Immagini di città
daniele liberanomeParigi: 2,5 milioni di abitanti (dieci con l'hinterland), la quinta città più popolata d'Europa (la seconda con l'hinterland). Uscendo da una qualsiasi delle sue 380 fermate di metropolitana, disseminate ovunque, nessuno può pensare di essere in un'altra città, di essere capitato a Londra o a Milano o chissà dove. Parigi ha una sua identità, ha una sua caratteristica distintiva e non solo nel centro storico; le grandi strade sono intervallati da piazze, la gerarchia fra grandi strade da cui si passa a quelle più piccole, per finire alle viuzze è chiara, comprensibile. Così assumono pure un senso gli interventi architettonici di rottura (Tour Eiffel, Centre Pompidou etc.) che assumono un loro valore perché si confrontano con una città che ha un senso. Tutto questo non è avvenuto in un sol colpo: certo molto si deve a Napoleone III e al suo architetto Haussmann, che hanno riorganizzato la città, ma non l'hanno certo edificata tutta. Parigi è la storia di sovrapposizioni di edifici e di strade pensate da molti uomini diversi ma con attenzione, con la volontà comune di ingrandire una città non di creare un ammasso di case. Le nostre città italiane sono lontane mille miglia da Parigi: appena abbandonati i centri storici, si entra in grovigli informi di strade, ci si imbatte in edifici che non dicono nulla se non a chi ci abita, in edifici-cadavere vicino ad altri pieni di vita, in zone alberate vicine ad altre totalmente cementificate. Hanno vinto gli speculatori.

Daniele Liberanome, critico d'arte

Tea for Two - Radical chic
daniele liberanomeDopo aver cercato invano di essere una di quelle che riesce a camminare stoicamente con i tacchi sui sampietrini (tentativo che ha portato molte cadute e scarpe tagliate a metà) ho deciso di virare senza molto successo sul radical chic. Termine mutuato dallo scrittore del Falò delle vanità Tom Wolfe. Detesto i radical chic perché vorrei essere come loro, dire distrattamente: "Si, io seguo lo stesso corso di talmud di Lapo e indosso una collana comprata con Margherita Missoni in Guatemala." I radical chic indossano effortless bisacce di cuoio (meglio se comprate dagli artigiani di Tolfa) e hanno biciclette per districarsi dalla metropoli labirintica che amano e odiano a tempi alterni. Non credo arriverò mai a questi livelli di poco affettato snobismo, perché con cappelli calati con noncuranza sembrerei una turista ingenua e perché lo snobismo mi attrae e inquieta allo stesso tempo. L'unico elemento connaturato che probabilmente mi aiuterebbe nello scopo è il background ebraico. Cosa c'è di più radical chic dell'ebraismo? Vi siete accorti di come gli esperti del settore vi guardano ammirati quando vi spaccate i denti con la matzah, pardon con il pane azzimo? E credo che ogni radical chic che si rispetti venderebbe la sua ingioiellata suocera per offrire un brunch a Nathan Eglander, Safran Foer e la mogliettina Nicole Krauss. Il nostro essere non convenzionali terrorizza le masse e affascina le nicchie intellettualoidi. "Parlami ancora del gefilte fish, raccontami dell'infanzia a Brooklyn - Ma io veramente sono di Roma - allora quanto c'è di Allen Ginsberg nella tua formazione?". Già, ce ne abbiamo uno pure nella Beat generation ragazzi. Ma questa è un'altra storia. Il termine radical chic non ha una connotazione positiva, wikipedia insegna che in Irlanda si dice smoked salmon socialist, in Finlandia socialiste vin rouge, ma a me destano un misto di simpatia e ironia ariostesca. Il loro è un mondo anacronistico, dove si cerca di ricreare una vita bohemienne e si ricopre tutto di coperte comprate a Machu Picchu. Mentre l'abitante medio sembra un dannato uscito dalla Terra desolata di Eliot, il radical chic si illude di poter cambiare il mondo. Senza perdere la speranza. Cercando di non inquinare, favorendo l'artigianato e volenti o nolenti continuando a portare sempre più persone a interessarsi e di conseguenza mantenere viva, la cultura ebraica. Allora quando il prossimo 2 settembre ne incontrerete uno alla Giornata della Cultura, non temetelo, non alzate il sopracciglio ma sorridetegli. Alcuni forse ci vedono come dei panda in via d'estinzione o come macchiette stilizzate, ma almeno hanno voglia di sapere. E di questi tempi non è poco.

Rachel Silvera, studentessa twitter @RachelSilvera2

notizie flash   rassegna stampa
Israele - Il prezzo della benzina
è il terzo più caro al mondo
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Secondo la classifica stilata dall’agenzia Bloomberg, il prezzo della benzina in Israele è il terzo più caro al mondo, con i suoi 9,28 dollari per gallone (pari a 3,78 litri). Ai primi posti la Norvegia e la Turchia (10,20 e 9,41 dollari al gallone). L’Italia è settima con 8,41 dollari. Il carburante più economico? In Kuwait, a soli 89 centesimi per gallone.
 
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