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28 agosto
2012 - 10 Elul 5772 |
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Roberto
Della Rocca,
rabbino
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Nella parasha di Shofetim,
letta shabbat scorso, la Torah torna per la quarta e ultima volta sul
tema della città rifugio, una sorta di misura di custodia cautelare per
chi si è macchiato di un omicidio involontario e deve soggiornare al
riparo della vendetta del parente stretto della vittima “il
cui cuore è riscaldato, “ki yecham levavò” (Devarìm , 19; 6 ) dal
delitto commesso. Leggendo la pagina 10a del trattato talmudico
di Makkòt restiamo ammirati dall’elevato livello di
urbanesimo di queste città rifugio nelle quali devono essere
disponibili servizi che garantiscano al rifugiato una normale struttura
di una società ebraica, “…affinché rifugiandosi in una di queste città
possa salvarsi la vita (Devarìm, 19; 5): bisogna far di tutto affinché
egli possa veramente vivere...” (T.B. Makkòt 10a). Ancora
oggi nella libera e civilizzata società occidentale le condizioni delle
nostre carceri sono sempre più inaccettabili e la dignità
dell’uomo non ha più alcun valore. I nostri Maestri si sforzano di
trasformare anche una situazione tragica e oppressiva in una speranza
di vita. Vita nel senso pieno del termine. Un esilio quindi che non
deve significare una prigione o un campo di concentramento. E dove è
perfino previsto che il Maestro segua il suo discepolo assassino in
questa diaspora per non lasciarlo senza lo studio della
Torah.
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Dario
Calimani,
anglista
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In
tempi di witz, un orfano amico mi dice: "L’unica consolazione
dell’orfano è di non avere un padre cui possa essere chiesto un giorno
di sacrificare il proprio figlio". Raramente ci si rammarica, invece,
che il Maestro sopprima il discepolo per non esserne un giorno
soppresso. |
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Qui Venezia - La
Biennale ripensa lo spazio Italia
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La sfida è impegnativa:
disegnare il prototipo di un nuovo modo di abitare, capace di tenere
insieme cultura dell’ambiente e green economy. E’ questa la scommessa
del Padiglione Italia, che nella tredicesima edizione della Biennale
Architettura a Venezia il governo Monti ha affidato all’architetto Luca
Zevi, anche Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
L’inaugurazione, nel pomeriggio, di quella che promette di essere una
straordinaria vetrina di come il nostro Paese è cresciuto e potrà
crescere è uno degli appuntamenti più attesi della Mostra
internazionale curata da David Chipperfield e intitolata Common Ground.
Proprio nel segno della ricerca di un terreno comune, il Padiglione
italiano metterà a fuoco un progetto che, in tempi di profonda crisi
economica, punta a scrivere un nuovo patto tra cultura ed economia
lavorando al dialogo tra architettura, territorio, ambiente e sviluppo.
A questo scopo si parte dall’esperienza d’avanguardia di Adriano
Olivetti, che nell’Italia del secondo dopoguerra segnò una svolta per
la funzionalità e il design dei suoi prodotti e per la grande
attenzione agli uomini, ai luoghi della produzione e della vita
quotidiana.
Convinto che “fare impresa” non significa prescindere da un
atteggiamento etico e responsabile nei confronti dei lavoratori e del
territorio, Olivetti coinvolge i più geniali architetti e designer
degli anni Cinquanta facendo di ogni complesso industriale un’opera
d’arte. Architettura e industria divengono così i due attori principali
di un progetto di crescita.
Dal passato al
presente, con il racconto delle esperienze
architettoniche di alcuni marchi di eccellenza del Made in Italy che in
questi anni hanno scelto di costruire i loro luoghi di lavoro sulla
base di un progetto architettonico d’eccellenza, spezzando l’andamento
monotono della diffusione urbano e diventando importanti punti di
riferimento per le comunità. Infine l’Expo di Milano 2015 che, a
partire dalla nutrizione, affronta il concetto di comunità sostenibili
e il rapporto fra città e campagna, fra industrializzazione e
produzione agricola.
E per tradurre in pratica la possibilità di uno sviluppo sostenibile,
lo stesso Padiglione Italia diventa un luogo di sperimentazione
trasformandosi in un luogo autosufficiente: un ecosistema produttivo in
cui i bisogni fondamentali di riparo, acqua, cibo ed energia sono messi
a sistema in un ciclo chiuso che riduce al minimo gli scarti.
Daniela Gross - twitter
@dgrossmoked
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Quel medico pioniere
che inventò le Paralimpiadi
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Prende il via il 29 agosto
2012 la quattordicesima edizione dei Giochi paralimpici, la
quadriennale competizione per atleti diversamente abili. Ad animare
nuovamente Londra, dopo le Olimpiadi terminate il 12 agosto,
arriveranno 4200 atleti da tutto il mondo, migliaia di giornalisti,
oltre un milione di spettatori. E per la prima volta, renderà omaggio
al medico cui questa grande festa dello sport nel suo spirito più alto
si deve: sir Ludvig Guttmann. Nato nel 1899 nella città mineraria Tost
in Germania da una famiglia ebraica, iniziò a lavorare come volontario
in ospedale a 17 anni, e vide per la prima volta un paziente
paraplegico, un minatore che morì per le conseguenze di una frattura
alla spina dorsale. Studente di medicina a Freiburg, Guttmann fu attivo
membro di un’associazione ebraica che lavorava per contrastare
l’antisemitismo nelle Università tedesche, incoraggiando anche i suoi
compagni a praticare sport e allenarsi per essere non soltanto in
forma, ma più sicuri di se stessi e orgogliosi della propria identità
ebraica. Con l’avvento del nazismo nel 1933, il dottor Guttmann perse
il suo posto di assistente di neurologia all’Università di Amburgo,
dove lavorava con alcuni tra i più grandi medici dell’epoca, e si
trasferì all’ospedale ebraico di Breslau, di cui divenne direttore. Nel
1938, quando il clima per gli ebrei di Germania si faceva sempre più
irrespirabile, diede ordine di accogliere tutti i pazienti che si
fossero rivolti all’ospedale per cure, anche se non di religione
ebraica e fu pronto a difendere la sua decisione davanti alla Gestapo,
che ispezionò l’istituto la mattina successiva per chiedere conto dei
63 nuovi pazienti. A quel punto Guttamann comprese che era arrivato il
momento di andarsene, e con l’aiuto del Council for Assisting Refugee
Academics arrivò in Inghilterra nel 1939. A quell’epoca, il tasso di
mortalità in seguito a fratture alla colonna vertebrale nell’esercito
alleato era altissimo. Anche chi sopravviveva al trauma iniziale (circa
uno su cinque), aveva un’aspettativa di vita di tre mesi, senza alcun
aiuto da parte della società o della scienza medica. Con l’arrivo di
Guttmann cambiò tutto. Il medico tedesco accettò di aprire un centro
specializzato, e attraverso cure e allenamento fisico, ma anche la vera
e propria pratica sportiva, dal tiro con l’arco alla piscina e alla
palestra, Guttmann riusciva a curare i suoi pazienti non solo nel
corpo, ma anche nello spirito. Proprio a Londra, in occasione delle
Olimpiadi del 1948 ospitate dalla capitale inglese, 16 atleti, uomini e
donne, scoccarono le loro frecce nel giardino dell’ospedale, nella
prima gara paralimpica di sempre. E nel 1960, in occasione dei Giochi
olimpici di Roma, si ebbe la prima edizione ufficiale delle
Paralimpiadi quadriennali. Nel 1968 i Giochi paralimpici portarono una
grande gioia a Israele, dove vennero disputati per festeggiare il
ventesimo anniversario dell’Indipendenza dello Stato ebraico. Nominato
cavaliere dalla regina Elisabetta II nel 1956, Guttmann, morì nel 1980.
Un pioniere della medicina, ma soprattutto della capacità di creare
un’immagine forte e positiva di ciò che il mondo aveva sempre
considerato malato e debole.
Rossella
Tercatin - twitter @rtercatinmoked
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Giornata della cultura
ebraica - L’arte sottile del ridere di sé
tra Freud e Woody Allen
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Se veramente è il Super-io che
nell’umorismo parla in tono così amabilmente consolatorio all’Io
intimidito, ciò ci ammonisce che sulla natura del Super-io abbiamo
ancora moltissime cose da imparare. (S. Freud)
Nell’umorismo ebraico la tensione fra i due registri, quello
dell'accusa antisemita e dell'autodifesa ebraica, è massima, al punto
che basta poco per snaturare il significato. La delicata costruzione
del motto richiede che siano presenti tutti gli elementi per cui è
stato ideato per dispiegare pienamente il suo senso. Ha bisogno
innanzitutto del suo pubblico che a sua volta deve sapere che a
raccontare sia “qualcuno di noi”, che il contesto sia, per così dire,
heimlich. Altrimenti la storiella, soprattutto se appartenente alle più
feroci, rischia di essere stravolta nel suo significato. Nel discorso
antisemita l’ebreo è nella situazione descritta da Kafka nel Processo.
Qualunque cosa egli dica e faccia in propria difesa, gli si ritorce
contro. La sua è una colpa che trascende le responsabilità per la sua
condotta individuale. Egli è già colpevole in partenza, e la colpa si
aggrava per il fatto di difendersi.
È una logica senza scampo per chi la subisce, un ricatto permanente,
per certi aspetti ancora operante. Il witz è la risposta creativa a
questa situazione, la difesa di chi con una memoria animale sa già in
partenza che a nulla servirebbe controbattere “No! Non è vero. Ciò che
tu dici è falso”, e percepisce anche che affrontare l'antisemita sul
suo stesso terreno è già un'ammissione di colpa, che mette a dura prova
l'integrità morale e psichica della vittima. È perciò che il witz non
censura il discorso antisemita e gli dà, apparentemente, uguale dignità
di cittadinanza.
Poiché non può sfuggire all'accusa, l'ebreo la fa propria,
trasferendola su un terzo registro che la libera appunto dal circolo
infernale delle accuse e delle controaccuse.
L’effetto è catartico e l'ebreo può, alla fine, ridere delle sue
angosce e delle paure. Gli aspetti della vita ebraica sono sì
criticati, ma la loro messa in discussione determina nel contempo un
inaspettato capovolgimento di valori, che fa scaturire significati
nuovi e di segno opposto. Alla fine è l'accusatore che ha qualcosa da
apprendere. Le tensioni della vita ebraica sono artificialmente
riprodotte e drammatizzate con lo scopo di liberare chi ne è oggetto
dal fardello che impongono.
L’apparizione dell'altro, con le sue accuse, all'interno del discorso
ebraico, diviene nelle battute più riuscite uno strumento potente di
autocomprensione individuale e collettiva, una via alla simbolizzazione
e alla conoscenza.
Il successo dei film di Woody Allen è un esempio concreto di come
l’esperienza ebraica abbia assunto per larghi strati della cultura
contemporanea una valenza paradigmatica, un significato di valore più
ampio e universale. La condizione ebraica ha assunto un valore
paradigmatico, la figura dell’ebraismo è diventata una figura
dell’etica.
Un nuovo motto, scrive Freud “è quasi un avvenimento di interesse
generale e passa da una bocca all’altra come la notizia della più
recente vittoria”.
Il riso per il motto rimanda alla nascita imprevedibile di Isacco, che
significa appunto risata, da Sara sterile. Poiché Sara ha riso (zahaqà)
ascoltando la voce dell’angelo, il figlio si chiamò Isacco. E c’è da
chiedersi se il nome di Isacco non contenesse in sè l’esperienza
traumatica dell’Akedah, il legamento a cui verrà sottoposto in seguito
al comdandamento di sacrificarlo al Signore.
Nel racconto biblico Il Signore interviene quando Abramo sta per
sacrificare il figlio della promessa, il frutto del suo amore più
grande, la persona che gli era più cara.
Il monoteismo nasce con l’abolizione dei sacrifici umani e Isacco che
l’ha scampata porta nel nome l’esperienza del riso, che è appunto
sospensione del giudizio di morte. Il Talmud racconta che tra le dieci
cose create che esistevano nella mente divina prima della creazione ci
fosse l’animale sostitutivo che avrebbe preso il posto di Isacco.
Nella mente esiste una possibilità di sostituire la logica del processo
primario con quello terziario, la sterilità con la fecondità, l’invidia
con la creatività. Il motto non ama la coazione a ripetere. Al
vittimismo e all’odio contrappone una logica terza, che oltrepassa il
registro dell’accusa e delle controaccuse.
L’ausilio che pone in atto implica un dispendio culturale, che trova la
sua validità nella capacità di evocare in modo creativo e innovativo
regolarità naturali. Per parafrasare ancora il testo biblico: “Ve
nattatì lecha et hamauet ve et hachaim, ubachartà bachaim”. “Ed Io ho
posto dinanzi a te la morte e la vita, ma tu sceglierai la vita”. In
tal senso la psicoanalisi è una storia ebraica e Freud l’autore del
motto di spirito più riuscito.
David
Meghnagi, Pagine Ebraiche, 9 - 2012
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Diseguaglianze
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Intervenendo a un convegno
in Trentino, Franco Bernabè, Presidente di Telecom Italia, ha
affrontato il tema delle diseguaglianze sociali. Ha spiegato che alla
base della forbice sempre più larga c'è il crollo della piccola e
medio-piccola borghesia, falcidiata negli ultimi anni dalla riduzione
dei salari e dal progresso tecnologico. L'avvento di internet, infatti,
ha rivoluzionato il mercato del lavoro ma non produce occupazione:
secondo gli studi ogni dieci posti eliminati dall'innovazione
tecnologica ne viene creato solo uno in settori scientificamente
avanzati. Un rapporto di dieci a uno. È per questa ragione che i paesi
tecnologicamente più avanzati, Usa e Israele, sono anche quelli dove le
distanze sociali si sono più dilatate, nonostante in Israele vi fosse
una tradizione di Welfare di stampo socialista. Ne abbiamo già parlato
su queste colonne, ma mi pare che questa questione meriti un'attenzione
particolare da parte dell'ebraismo della Diaspora: il sostegno a
Israele passa anche da una selezione attenta dei progetti e delle
organizzazioni che si vogliono promuovere e aiutare finanziariamente. E
in questo senso non sarebbe male se ci sforzassimo di scegliere
soggetti dediti a favorire l'integrazione sociale, la mobilità, la
lotta alla povertà. Senza dimenticare un altro tema in qualche modo
collegato, quello dell'immigrazione in Israele di un numero sempre
crescente di immigrati e profughi sempre a rischio di finire ai margini
della società.
C'è un dato, tra i tanti, che fa ben sperare: secondo l'indice di
libertà dei dipendenti, cioè la capacità di un impiegato di dire ciò
che pensa al proprio capo, Israele è il paese più avanzato del mondo.
Al capo opposto della Cina, dove vige la massima coercizione. Come
dire, in Israele ognuno pensa con la propria testa. Che rimane la più
preziosa delle nostre risorse.
Tobia
Zevi, Associazione Hans Jonas - twitter @tobiazevi
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rassegna
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Qui
Venezia - L'ambasciatore Gilon
a colloquio con Luca Zaia
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la rassegna |
L'Ambasciatore d'Israele in
Italia Naor Gilon, a Venezia in questi giorni per l'inaugurazione del
padiglione di Israele alla Biennale dell'architettura, ha incontrato
questa mattina Luca Zaia, presidente della Regione del Veneto. Nel
corso del lungo e cordiale colloquio Zaia ha ricordato le
collaborazioni in atto in campo economico, culturale e produttivo e la
reciproca volontà di un loro ulteriore sviluppo.
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L'unica
notizia che riguarda direttamente Israele oggi nella rassegna stampa, è
il racconto di Michele Giorgio sul Manifesto, naturalmente a modo suo,
del fallimento dell'ultima provocazione della serie delle flottiglie,
“flytiglie” eccetera.
Ugo Volli twitter
@UgoVolli
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
che fossero interessati a offrire un
proprio contributo possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it
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