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7 settembre 2012 - 20 Elul 5772
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Jonathan Sacks, rabbino capo
del Commonwealth

 


Essere liberi significa abbandonare l'odio, perché l'odio è l'abdicazione della libertà. L'odio è la proiezione dei nostri conflitti verso una forza esterna, che possiamo così incolpare, ma solo al prezzo di negare la nostra responsabilità.
Laura
Quercioli Mincer,
 slavista



laura quercioli mincer

Nel romanzo La straniera dell’italo-iracheno Younis Tawfik, vincitore del Premio Grinzane Cavour nel 2000, il protagonista, un architetto arabo residente da decenni a Torino, si trova coinvolto in una discussione pseudopolitica con dei colleghi italiani. Quando gli chiedono cosa ne pensi della situazione in Medio Oriente il protagonista fa varie considerazioni, terminando con: “la sicurezza dello Stato ebraico può essere garantita solo dalla pace”. Nella versione cinematografica, trasmessa anche dalla RAI qualche settimana fa, lo stesso personaggio asserisce, nell’entusiasmo generale, che gli ebrei devono andarsene al più presto da Israele e se la caveranno benissimo altrove, così come i francesi dopo aver lasciato l’Algeria. Sugli schermi italiani un arabo non anti-israeliano sarebbe forse apparso troppo poco credibile? O forse semplicemente poco “sexy”.

davar
Qui Mantova - A tu per tu con Etgar Keret 
Non è una novità che gli scrittori israeliani, sempre un numero considerevole tra gli ospiti, siano seguiti con enorme affetto e partecipazione dal pubblico del Festivaletteratura di Mantova. Ciò che però contraddistingue l'incontro con Etgar Keret, intervistato da Gianluca Foglia nel chiostro del museo diocesano in occasione dell'uscita presso Feltrinelli della sua ultima raccolta di racconti dal titolo All'improvviso bussano alla porta, è la sensazione di trovarsi a tu per tu con un autore che intende realmente mettere a parte della sua vita artistica e di ciò che muove la sua creatività ogni singolo spettatore.
Il mio bisogno di scrivere è simile a quello di Sherazade ne Le mille e una notte, esordisce Keret. Scrivo per sopravvivere, anche se nel mio caso non c'è nessuno che minacci di tagliarmi la testa se smetto di raccontare. Scrivo per sopportare una vita che è spesso overwhelming, espressione inglese di difficile traduzione che sta per “troppo intensa, in cui succedono troppe cose troppo velocemente”.
Ci sono scrittori - soprattutto romanzieri -  che scrivono per poter controllare tutto: nei loro romanzi possono far smettere di piovere quando vogliono, far arrivare l'autobus in tempo...Io, al contrario, sono un control-freak già nella vita e la scrittura è l'unico luogo in cui posso invece lasciare che le cose succedano come vogliono loro, perché tanto non causano incidenti, accadono e basta senza mietere vittime.
A questo punto si interrompe per commentare l'effetto che gli fa sentirsi tradotto: suono molto più saggio in italiano, dovrei avere con me un'interprete italiana ovunque vada, forse i miei amici inizierebbero a prendermi sul serio.
Di autoironia d'altronde Keret sembra essere ben equipaggiato; ne è prova il racconto dell'effetto prodotto in casa sua da una delle prime recensioni apparse sul New York Times, che sancì il suo successo. Mio fratello tornò a casa e mi disse: adesso non è più soltanto la mamma a dire che sei un genio, lo pensa anche il New York Times. Sono in due.
L'anno scorso, proprio a Mantova, Amos Oz indicò Keret come lo scrittore più rappresentativo della nuova onda di scrittori israeliani. L'autore racconta però di avere un rapporto difficile con la tradizione letteraria del suo Paese: ho sempre amato molto gli scrittori israeliani, ma da giovane non pensavo di poter diventare uno di essi perché sono scrittori-profeti, che guidano il popolo come un papa laico, come un faro morale che addita il cammino al lettore.. Io quel ruolo non ho mai pensato di poterlo assumere. Poi è successo che durante il servizio militare ho iniziato a leggere alcuni grandi autori ebrei della diaspora: Kafka, Shalom Alechem, Babel, Bashevis Singer... Allora ho capito che forse sì potevo scrivere, ma così, non come uno che ti guida, come uno che condivide col lettore la sua inadeguatezza, il dubbio... Come uno che incontri sul treno e ti racconta la sua vita.
Al termine dell'incontro una signora del pubblico chiede e ottiene da Keret che legga lui stesso l'inizio del suo racconto Le cose che abbiamo in tasca. Vuole sentire come suona in ebraico. Suona bene. Stralunato e ironico, come uno che è lì per caso.
Uno scrittore israeliano dallo stile diasporico, nutrito dal dubbio e refrattario alle certezze. Forse è proprio questo a fare di Etgar Keret uno degli israeliani più amati e tradotti nel mondo.

Miriam Camerini

Crimini informatici, il ritardo italiano
L’Italia non ha ancora ratificato il Protocollo addizionale della Convenzione di Budapest sul Cyber Crime mediante il quale verrebbero adeguatamente individuate e sanzionate – anche in un contesto internazionale - le incitazioni all’odio razziale e religioso attraverso il web. Il Protocollo che comporta un’estensione della Convenzione sulla cibercriminalità, comprese le sue concrete disposizioni di cooperazione procedurali ed internazionali risponde concretamente all’esigenza di evitare l’utilizzo del web per attacchi razzisti e xenofobi che, ricordiamolo, non sono banalmente delle esternazioni deliranti, ma costituiscono dei veri e propri atti di istigazioni all’odio di massa, destinati - in assenza di una norma - a restare del tutto anonimi e impuniti, così come denunciato recentemente dal Ministro della Cooperazione internazionale e dell'Integrazione Andrea Riccardi.
E’ quindi fondamentale che l’Italia ratifichi il Protocollo aggiuntivo, anche solo riportando le medesime espressioni normative utilizzate in tale ambito, il quale prevede non solo l’incriminazione degli atti e delle istigazioni tipici dell’odio razziale o etnico, ma anche il contrasto all’apologia, alla negazione e alla minimizzazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra. Se si vuole impedire che la predicazione del disprezzo e dell’odio germini nelle giovani generazioni, come ricordato dallo stesso Ministro nella sua visita alla Comunità ebraica di Roma, occorre che le lacrime versate dopo ogni strage diventino impegni fattivi per lottare contro i seminatori dell’odio. Sarebbe quindi auspicabile che il nuovo “Parlamentino” dell’UCEI approvasse un documento che solleciti un intervento urgente del Governo italiano sul tema.   

Joseph Di Porto, assessore della Comunità ebraica di Roma

Qui Roma - Moshe Idel: “La mistica del comprendere”
Tornano le emozioni della Notte della Cabala e del Festival Internazionale di Letteratura e Cultura Ebraica. L'appuntamento è per domani sera, all'uscita dello shabbat, per una notte di arte, musica e parole che si annuncia indimenticabile. Tra gli eventi più attesi l'incontro tra il rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, e il grande cabalista Moshe Idel che al Palazzo della Cultura alle 22.30 daranno vita a un dialogo di grande intensità sul pensiero mistico ebraico, sulle sue molte correnti e declinazioni e sull'immenso patrimonio di valori in esso racchiuso.


Cominciare una ricerca nel tentativo di sciogliere la complessità di Moshe Idel significa trovarsi davanti a un oceano di articoli, saggi, testi e lezioni su argomenti complessi e a volte controversi. L’unica scelta possibile è cercare di non farsi prendere dal panico e iniziare dalle cose più semplici, quasi scontate, per provare ad orientarsi e per alimentare la speranza di riuscire a cogliere almeno un poco lo spirito con cui lo studioso - considerato il più grande esperto al mondo di mistica ebraica - affronta un mondo così particolare, e con cui ha rivoluzionato il modo di guardare tradizioni prima considerate intoccabili. Quando si parla di mistica ebraica il pensiero corre subito alla kabalah, e da lì il passaggio a Madonna e alla moda hollywoodiana è breve. Moda che per altro non scandalizza Moshe Idel, che vi accenna con l’ironia leggera che solo chi ha dedicato all’argomento una vita di studi si può permettere. La materia però è talmente complessa che il rischio di cortocircuiti anche spiacevoli è sempre in agguato: si passa con leggerezza dalla kabalah alla mistica, alle scienze esoteriche, fino ad arrivare alla magia e alla stregoneria, argomenti che proprio Gli ebrei di Saturno, l’ultimo libro di Moshe Idel tradotto in italiano e in uscita in questi giorni per Giuntina, affronta con la solita profondità. Nonostante nel mondo si diffonda principalmente come forma mistica deformata attraverso una lente new age, si possono trovare legami assolutamente imprevedibili fra questa prassi religiosa che viene da tempi lontani e lo studio dell’inconscio affrontato con le tecniche proprie della psicoanalisi. In ebraico moderno la parola kabalah deriva dal verbo leqabbel, ricevere. Non è questa una ragione sufficiente per trattarla come una tradizione intoccabile, come vorrebbe una traduzione letterale del termine. Idel spiega infatti che “La kabalah è senza dubbio una Tradizione, come tale ci viene tramandata e dunque va studiata col dovuto rigore. Cosa che non ci esime dal reinterpretarla depurandola dalle distorsioni di chi ci ha preceduto”.
Cos’è la kabalah e che insegnamento possiamo trarne, in questo momento storico? Kabalah è in realtà un termine generico, che viene usato per indicare una varietà di scuole esoteriche emerse in Europa alla fine del XII secolo, che si sono sviluppate diventando una delle principali interpretazioni del giudaismo. Uno studio serio della kabalah può arricchire la comprensione del quadro complesso di una cultura, come si è sviluppata in Europa, nonché facilitare una migliore conoscenza della capacità creativa di una minoranza, che potrebbe arricchire la cultura della maggioranza.
Come si inserisce la kabalah all’interno della letteratura mistica ebraica?
Il misticismo ebraico compare già nelle letterature della tarda antichità, secoli prima della nascita della kabalah. Ci sono anche altre forme di misticismo ebraico che non fanno parte della kabalah, per esempio la letteratura Hasidei Ashkenazi, e ci sono stati gruppi di ebrei influenzati dal misticismo Sufi, soprattutto in Egitto e in Siria nel XIII e XIV secolo. La kabalah ha portato a una varietà di approcci spirituali ai rituali ebraici e ha creato nuove forme di teologia che hanno permesso l'interazione tra gli ebrei e D-o.
La kabalah estatica, quella che più affascina chi vi si avvicina, forse con qualche ingenuità, quanto era veramente diffusa?
Non è una risposta semplice, bisogna ovviamente fare delle distinzioni a seconda della regione e del periodo di cui si parla. Per quanto riguarda l'Italia, dal XIII secolo al Rinascimento, fu senz'altro la più studiata e praticata. Nel mondo dei kabalisti gli insegnamenti di Abulafia furono i più seguiti. Abulafia scrisse moltissimo, e i suoi manoscritti mostravano una via per raggiungere un'esperienza profetica, erano in qualche modo delle tecniche personalizzate per i molti allievi che ebbe.
La prossima domanda a questo punto è scontata: lei che è uno studioso di kabalah, ha avuto la tentazione dell’esperienza mistica?
No, me lo hanno chiesto in tanti ma io sono solo uno studioso. Gershom Scholem da giovane – ne parla lui stesso nella sua autobiografia – ha usato alcune delle tecniche che studiava, proprio per avvicinarsi più profondamente alla kabalah. Non è un caso che poi sia arrivato ad elevarla a sistema di pensiero ebraico, da porre in contrapposizione ai sistemi filosofici organici proposti da Kant e da Hegel. Non mi ritrovo in questa sua scelta: per me la kabalah identifica, anzi è, una maniera di vivere. Ritengo che il ritmo della vita sia ben più significativo delle idee, non è affatto necessario andare a cercare delle contrapposizioni filosofiche.
Con il suo lavoro e specialmente con il libro Qabbalah, nuove prospettive (Adelphi), lei ha scosso il mondo accademico. Ne è nata una accesissima controversia e lei è addirittura stato accusato di aver tradito proprio Gershom Scholem. È vero?
Forse può sembrare ironico ma proprio le mie idee, che vennero allora bollate come eretiche, hanno portato la ricerca ad avvicinarsi alla concezione più tradizionalmente ebraica della kabalah. E devo a questo punto raccontare che quando incontrai per la prima volta Sholem io ero giovanissimo. Gli esposi alcune mie osservazioni su suoi testi di epoche diverse che a me parevano essere in contraddizione fra loro. Lui fu molto secco ma si fece lasciare i miei appunti e qualche giorno dopo ricevetti una dettagliatissima risposta. Concludeva la sua lettera con una frase che non ho mai dimenticato, un insegnamento che cerco tuttora di seguire. Mi scrisse: “Benedetto colui che ti aiuta a correggere i tuoi errori invece di scagliarteli contro”.
Lei si definisce studioso, dice di non essere un mistico e non è un filosofo. Perché e come, allora, entrare nella sfera dell’irrazionale?
Definirsi razionali o irrazionali per me non ha senso. Così come non è giusto cercare delle verità nei sistemi filosofici: tutto quello che pensiamo rientra nella sfera dell’immaginario. E poi nel mondo ebraico la soggettività non è prevalente: si insegna cosa fare per essere un buon ebreo e non ha importanza se nel procedere religioso ci si sente felici o tristi. Parallelamente i kabalisti estatici insegnano una tecnica e non si sorprendono quando funziona. Lo sanno che deve funzionare, per l'ebraismo non è così strano pensare di poter entrare in contatto con Dio. L'importante è il rapporto che ci può essere tra la struttura del divino e le mitzvot che dobbiamo compiere. Sapere senza fare, senza mettere in pratica è una cosa assolutamente priva di significato.
La passione attuale per la kabalah è collegata alla maniera in cui la mistica ebraica ha anticipato lo studio psicanalitico dell’animo umano. È d’accordo?
È stata pubblicata alla fine degli anni Cinquanta una ricerca che voleva dimostrare come Sigmund Freud sia stato influenzato dal pensiero dei kabalisti. Io non credo sia vero, penso sia un’esagerazione ma è invece certo che a Vienna in quel periodo i rabbini contavano, e molto. Non bisogna dimenticare che la cultura ebraica di Freud era molto più vasta di quel che normalmente si pensa. Non mi stupirei se fosse stato influenzato dal hassidismo, mentre non credo conoscesse davvero la kabalah.
Possiamo trovare degli elementi moderni nella kabalah?
Un certo mondo intellettuale ne è attratto, pensiamo per esempio a Umberto Eco, Jacques Derrida o Harold Bloom. Nella kabalah il linguaggio coincide con la realtà, e questo è un concetto che sta diventando sempre più ovvio per tutti noi. Poi capita che certi mistici diventino integralisti perché si convincono di essere in possesso di verità assolute e nei momenti di cambiamento una convinzione forte diventa fondamentalismo. Ma il misticismo non è sovrapponibile all’integralismo.
Non è un paradosso, questo?
I paradossi ci sono solo se affronto la realtà con i miei valori, non esistono paradossi interni alla realtà. La cosa importante è capire e capire non è giudicare. Giudicare a me non interessa. Chi giudica non capisce. La realtà è complessa e nella realtà hanno spazio molte cose. L’unica cosa davvero importante è mettere a fuoco questo.

Ada Treves, Pagine Ebraiche, settembre 2012, twitter @atrevesmoked

(nelle immagini Moshe Idel disegni di Giorgio Albertini)

Qui Mantova - Storie vecie all'ombra del vecchio ghetto
Grande successo di pubblico ieri sera a Mantova per il primo dei due incontri Storie vecie-passeggiando sotto la luna organizzati dalla Comunità ebraica virgiliana in collaborazione con il Festivaletteratura. L'incontro, un reading di poesie in dialetto giudaico-mantovano accompagnato da una sessione musicale nell'antico ghetto cittadino e da un momento degustativo di specialità tipiche della gastronomia kosher, è nato da un'idea congiunta del presidente della Comunità ebraica Emanuele Colorni e di Mauro Patuzzi, autori del saggio di recente pubblicazione 'C'era una volta il ghetto' (ed. Di Pellegrini), e ha visto la partecipazione tra gli altri dell'esperta di linguistica Sara Natale, dell'attore Adolfo Vaini e della violinista Mirella Lodi Rizzi. Con loro anche Loredana Leghziel, che sempre per Di Pellegrini ha raccontato il suo itinerario tra sapori, identità e tradizione ne 'La mia cucina ebraica'. Secondo appuntamento della serie domani alle 21 di fronte all'ingresso della Comunità ebraica in via Govi.

Qui Roma - Il ritorno a casa di Asif
Asif Asaf è tornato nella 'sua' città. Indimenticato shaliach del Bene Akiva, educatore di una generazione di ebrei romani che ha fatto strada nelle istituzioni comunitarie, ad accoglierlo al centro sociale di via Venuti, per una serata segnata da grandi emozioni e sorprese, i suoi vecchi chanichim di un tempo. Visibilmente commosso, Asif ha rinverdito ricordi mai sopiti, frammenti più o meno leggeri di una stagione partecipativa molto intensa per la realtà ebraica capitolina. Ma si è anche soffermato su alcuni aspetti più intimi della sua vicenda personale: l'amputazione di un arto in seguito allo scoppio di una mina egiziana nel Canale di Suez, l'attentato orchestrato da un suo dipendente palestinese non arrivato a conclusione per una serie incredibile di circostanze, la lunga permanenza nel campo di Gush Katif a Gaza (dove aveva aperto un'attività commerciale agricola di successo) prima dello smantellamento del nucleo abitativo a seguito della storica decisione presa in questo senso dall'allora premier Ariel Sharon. Non poche quindi le difficoltà e le insidie affrontate ma da queste Asif è sempre riuscito a rialzarsi grazie a una determinazione e a un coraggio fuori dal comune. “Perdersi nelle recriminazioni e nei rimpianti non è costruttivo, nella vita – ha spiegato ai suoi ex allievi – bisogna sempre guardare al futuro con ottimismo. Unire pratica e teoria, lavorare con e per gli altri, andare avanti. Ma sono certo che queste cose le sapete bene, i risultati li ho avuti sotto i miei occhi in questi giorni romani. La Comunità è cambiata molto e in bene, sono davvero felice per voi”.
Asif risiede da alcuni anni a Ganei Tal, insediamento nei pressi di Ashdod dove vive con la moglie e con le altre 65 famiglie che hanno lasciato Gush Katif e che è stato singolarmente costruito grazie a una raccolta fondi del Keren Kayemeth LeIsrael Italia. Una coincidenza ricordata con commozione, così come commovente è stato l'abbraccio con ciascuno dei suoi ragazzi prima di un 'lehitrahot', un arrivederci, pronunciato con la consapevolezza di non essere mai andato via.

(Nell'immagine Asif Asaf, al centro, con il presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici e il leader dell'Irgun Olè Italia Vito Anav)

a.s - twitter @asmulevichmoked

pilpul
Dove cercare l’umorismo ebraico?
Anna SegreMettere in mostra l’umorismo ebraico presentava una serie infinita di problemi (cosa è umoristico? Cosa è ebraico? Basta un vignettista ebreo su qualunque argomento? Basta che si parli di ebrei?), e comunque, conclusa la Giornata Europea della Cultura Ebraica, rimane l’impressione che sia stato trascurato qualcosa di essenziale. Per esempio, la mostra di Torino presentava alcuni modi di dire degli ebrei di varie regioni; pur trovandoli simpatici, non ho potuto fare a meno di pensare che la parlata giudaico-piemontese è descritta in modo ben più divertente da Primo Levi in Argon, il primo racconto del Sistema periodico. Ecco cosa mancava: la letteratura. È inevitabile, non è colpa degli organizzatori. È relativamente facile mettere in mostra vignette, spezzoni di film, barzellette, ma come si fa con i libri? E poi forse la letteratura non è la prima cosa che viene in mente parlando di umorismo: si ride più facilmente in compagnia, a teatro, al cinema, tra amici, persino in classe; leggendo un libro nella solitudine della propria stanza capita di sorridere, di riflettere razionalmente sulla comicità di una situazione, di assaporare un gioco di parole,raramente di scoppiare in quelle risate convulse che tolgono il fiato. Almeno, a me è capitato così poche volte che potrei raccontarle una per una. Forse a qualcuno può sembrare strano (i meccanismi del riso sono insondabili e diversi per ciascuno di noi), ma mi è capitato più di una volta, anche a decenni di distanza, leggendo La tregua, che pure di solito non è considerata un testo umoristico (e in effetti contiene anche pagine terribili): per esempio la scena della ricerca notturna di una gallina presso un villaggio russo mi fa ridere ogni volta che la rileggo. Ho citato per due volte Primo Levi, uno scrittore che probabilmente quasi tutti i visitatori della Giornata Europea conoscono, ma che certo non viene associato immediatamente all’idea di umorismo ebraico. Una giornata di studio sull’umorismo di Primo Levi (che non mi risulta sia mai stata organizzata) probabilmente coglierebbe molti di sorpresa; eppure i suoi testi divertenti non sono pochi, tanto che non mi azzardo ad elencarli per paura di dimenticarne qualcuno. Se esistesse un modo ragionevole per mettere in mostra la letteratura la Giornata sull’umorismo avrebbe potuto essere un’ottima occasione perfar conoscere un lato meno noto di uno scrittore troppo spesso appiattito sul ruolo di testimone.
Al di là di Primo Levi (che peraltro non è un caso isolato: si potrebbe fare un discorso analogo su altri scrittori, per esempio Svevo) mi pare che tutti i discorsi che hanno preceduto e accompagnato la Giornata Europea della Cultura Ebraica dimostrino almeno una cosa: può darsi che a volte si voglia vedere a tutti i costi l’umorismo ebraico dove non c’è, ma capita altrettanto spesso che non lo si veda dove invece indiscutibilmente c’è.

Anna Segre, insegnante

notizieflash   rassegna stampa
Il ministro Terzi: "Morsi rispetterà
il trattato di pace con Israele"
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Il presidente egiziano, Mohamed Morsi, "rispetterà il Trattato di pace con Israele". Ad affermarlo il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, spiegando di aver parlato al presidente egiziano degli incontri avuti a Gerusalemme con la leadership israeliana in cui è stata affrontata la questione. Al Cairo Terzi ha avuto un colloquio a cinque con il presidente egiziano, Mohamed Morsi, a cui hanno partecipato anche i ministri degli Esteri di Grecia, Dimitrios Avramopoulos, Cipro, Erato Kozakuo-Marcoullis, e Malta, Tonio Borg.

 
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