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23 settembre 2012 - 7 Tishri 5773
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Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino

 

"'Rabbi Eliezer dice: - Pentiti un giorno prima della tua morte' (Tb Shabbat 153a). Questo è detto in modo che l'uomo sappia bene che ha questo giorno soltanto" (R. Menachem Mendel di Kotzk)

David Bidussa, storico sociale
delle idee


Il prossimo 21 ottobre Agnes Heller, filosofo ungherese, esponente di quella corrente di dissenso comunista che a partire dal 1956 viene progressivamente emarginata e poi messa a tacere, riceverà a Genova il premio internazionale Primo Levi. Agnes Heller dal 1956 non ha mai smesso di criticare quelli della sua parte e dal 1989 ha continuato anche con i nuovi potenti ungheresi, fino a quelli di ora. E’ una buona notizia che il Centro culturale Primo Levi di Genova si sia ricordato di questa intellettuale europea, ebrea, sopravvissuta ad Auschwitz, e ne riconosca il valore e il ruolo pubblico. E’ così raro che qualcuno si accorga che gli intellettuali sono tali non solo perché sono intelligenti, o pubblicano libri di successo, o godono di un alto audience televisivo, ma anche perché si danno il compito di stringere il potere alle corde. E quel compito lo eseguono nella stessa misura, con gli avversari come con i loro stessi compagni di partito, o con chi dice di essere dalla loro stessa parte, senza mollare mai. E’ troppo facile essere esigenti e intransigenti solo con quelli dell’altra parte.

davar
Qui Pordenone - Gran finale con Aharon Appelfeld
Sarà uno dei massimi scrittori israeliani, Aharon Appelfeld, a coronare oggi la tredicesima edizione di Pordenonelegge. L’autore di Storia di una vita e di Badenheim, di cui da poco Guanda ha mandato in libreria Il ragazzo che voleva dormire (301 pp., traduzione di Elena Loewenthal), incontrerà il suo pubblico questa sera al Convento di San Francesco. La sala preannuncia già il tutto esaurito, tanto che gli organizzatori suggerivano ieri di recarsi sul posto con buon anticipo. Appelfeld, con suoi modi garbati e schivi e la poesia lieve e densa che contraddistingue la sua opera, è d’altronde ormai uno degli autori israeliani più amati e apprezzati dai lettori italiani che mai come in queste occasioni mostrano vitalità e voglia di conoscere.
Da Alain Finkielkraut a Niccolò Ammaniti, dal grande poeta americano Charles Simic a Ian Mc Ewan, da Peter Cameron a Claudio Magris, gli appuntamenti del festival curato da Alberto Garlini, Valentina Gasparet e Gian Mario Villalta registrano un riscontro senza precedenti. Segno che malgrado il crollo nelle vendite dei libri stimato a livello nazionale nell’ordine del 20 per cento (ma i librai locali parlano di quasi il 40 per cento) il piacere della cultura rimane forte. Tanto che catturano il pubblico anche incontri di non immediata lettura quale quello con Alain Finkielkraut, il filosofo francese che questa mattina ha affrontato le grandi domande del nostro tempo: che cos’è la civiltà? cosa sono l’arte, l’ideale e la grazia? Tutti quesiti che, secondo l’autore di Un cuore intelligente, possono trovare risposta nella letteratura. “Se sappiamo qualcosa sull’amore, sull’odio o sui sentimenti, sono stati portati al linguaggio dalla letteratura – afferma
Non abbiamo bisogno della letteratura per imparare a leggere ma per sottrarre il mondo alle letture sommarie: la realtà ci viene nascosta da molti sipari e leggende che la letteratura contribuisce a strappare”.
E a confermare l’attrazione per la lettura, l’interesse suscitato da Pagine Ebraiche. Presenza già apprezzata e gradita in molti appuntamenti culturali, dal Salone del libro di Torino al Festivaletteratura di Mantova, quest’anno il giornale dell’ebraismo ha infatti debuttato anche a Pordenonelegge con un dossier sul complesso tema della lingua e dei linguaggi, affrontato attraverso una serie d’interviste a grandi autori contemporanei.

d.g
 
L'esilio amaro delle parole


Anche a guardarla dal punto di vista della lingua la sua vicenda è a dir poco straordinaria. La scrittura letteraria si nutre, in modo inevitabile, dell’idioma materno, di quei suoni e voci che accompagnano gli anni bambini. E solo in casi eccezionali l’espressione artistica ce la fa a sgorgare in una lingua appresa: Nabokov, Conrad, Beckett. Non a caso il grande scrittore rumeno Norman Manea, costretto a lasciare il suo paese dalla dittatura socialista, descrive con profonda amarezza la sua nuova condizione di libertà. “Nell'esilio felice dell'affrancamento, quando potevo, infine, parlare liberamente, mi è stata tagliata la lingua. L'esilio linguistico è, per lo scrittore, una combustione in profondità, il suo Olocausto... ”.  
Ma nel caso di Aharon Appelfeld i termini si rovesciano. Arriva in Israele nel 1946, quando ha tredici anni e mezzo. La persecuzione nazista lo ha privato dei genitori e del suo mondo. Fuggito da un campo di concentramento sopravvive, bambino, per tre lunghi anni nei boschi e nei campi. Completamente solo, smarrisce le lingue che hanno accompagnato la sua infanzia. Il tedesco, la lingua che la madre amava e coltivava con passione (“Nella sua bocca le parole suonavano limpide come se le avesse pronunciate attraverso un’esotica campana di vetro”). Ma anche lo yiddish parlato dai nonni che per lui conserva ancor oggi il sapore acidulo della composta di prugne secche. Insieme al ruteno e al rumeno che costellavano la quotidianità della sua Czernowitz.
Poco a poco, con fatica immensa, dice addio alle parole madri. Si trova a fare i conti con l’ebraico, che conquista faticosamente giorno dopo giorno. E, anche grazie alla lezione poetica della Bibbia, ne fa uno strumento di purezza cristallina capace di raccontare con potenza e delicatezza le tenebre della memoria, il suo mondo scomparso, la voglia di vivere e di ricostruire. Raggiunto al telefono nella sua casa di Gerusalemme, ripercorre questa traiettoria di vita e arte con toni sommessi e una cortesia rara. Animato da una profonda consapevolezza dell’inestricabile legame tra passato e presente che anima l’intera sua opera.
Aharon Appelfeld, la lingua è uno dei temi centrali dei suoi libri: da Storia di una vita del ’99 a Il ragazzo che voleva dormire, appena pubblicato in Italia da Guanda. Per quale motivo ha un ruolo così importante?
Fino a otto anni e mezzo la mia lingua madre è stata il tedesco. Quando sono arrivato in Israele non avevo più nessuno con cui parlarlo e, ragazzino, ho cominciato a studiare l’ebraico. Ma la lingua madre è come il latte materno. Un uomo che ne viene privato è malato per tutta la vita: la lingua materna non la parli, scorre: quando te la portano via ti si crea dentro una voragine e devi sforzarti in ogni modo di colmarla. Così ho iniziato a studiare l’ebraico e l’ebraico è divenuto la mia lingua madre. E’ stato un grande sforzo, una fatica impegnativa.
Cosa rimane oggi delle quattro lingue che hanno accompagnato la sua infanzia? Le parla ancora? E come si riflettono sul suo lavoro?
Oggi parlo il tedesco, anche se è una lingua in cui non mi sento del tutto libero. Parlo un po’ di russo, pochissimo rumeno. Ho studiato molto l’yiddish. Volente o nolente, le diverse lingue che conosco influiscono sulla mia scrittura. Non ne sono sempre consapevole, mi vengono a trovare e risuonano nella pagina. In questi anni parlo anche molto inglese, che in Israele come nel resto del mondo è divenuto la seconda lingua, una lingua che valica i confini. In esilio tanti scrittori smettono di scrivere. Nel suo caso è avvenuto l’opposto. Forse perché ho iniziato a conquistare l’ebraico a tredici anni e mezzo: un’età in cui non si è più bambini ma non si è ancora divenuti uomini. La mia grande fortuna è che sono arrivato in Israele senza essere andato a scuola. Prima della Shoah avevo terminato soltanto la prima classe. Se avessi studiato di più sarei arrivato nel mio nuovo Paese portando nella testa i libri e i vocabolari su cui avevo studiato. Così ho potuto invece costruire dal nulla e l’ho fatto in ebraico. Altrimenti avrei potuto imparare a comunicare in questa lingua, ma non sarei stato in grado di utilizzarla per la mia scrittura.
Spesso ha ripetuto quanto fosse duro l’ebraico per la sua sensibilità di ragazzo. “Suonava come degli ordini: andare, dormire, sistemare - ha detto in un’intervista - Suonava come fosse sorta dal mare, dalle sabbie che ci circondavano ad Atlit. Non era una lingua che sgorgava da te, era come riempirsi di ghiaia”.
Nel primo periodo della mia vita in Israele ho lavorato in un kibbutz e poi sono stato nell’esercito. La lingua per me era allora molto militare. Adesso non è più così. L’ebraico è ricco di infiniti significati e sfumature e può essere molto dolce e articolato.
In Storia di una vita torna spesso il tema del linguaggio del corpo: lei scrive che il corpo può ricordare ma è al tempo stesso un modo di dialogare con l’altro. Che differenza c’è tra la lingua del corpo e quella della bocca? Dicono cose diverse?
Il corpo registra quanto ci sta intorno tanto quanto la testa. Non lo diciamo mai di una gamba o di una mano, ma tutte le parti del nostro corpo sono antenne sensibilissime capaci di ricordare quanto ci accade e di raccontare le emozioni più profonde in un linguaggio tutto loro.
Una delle sue grandi paure, ha scritto, è quella di perdere l’ebraico. Al punto da sognare spesso di ritrovarsene privato. Perché questo timore?
Perché è una lingua che ho acquisito da ragazzo, non ci sono nato. La lingua acquisita devi sorvegliarla tutto il tempo perché non vi penetri nulla di straniero. L’ebraico è ormai la mia lingua materna. Sogno e scrivo in ebraico. Ma ancora oggi ho paura che se ne vada. Talvolta mi sveglio e questo ebraico imparato con tanta fatica svanisce, scompare. Voglio afferrarlo ma non ci riesco.
Cosa prova quando sente parlare l’ebraico di oggi? E’ diverso da quello che ha studiato?
In un certo senso sì. Ci sono molto slang e localismi, ma non potrebbe essere altrimenti. Ogni generazione esprime un suo ritmo nella lingua, toglie o aggiunge qualcosa. E poiché Israele è un grande crogiolo di popoli e di culture questa mescolanza si percepisce in modo significativo. Ma non vi è nulla di negativo in tutto ciò. E’ un pluralismo linguistico che apprezzo molto. Non credo che la lingua vada preservata in una sua fissità: è bello veder convivere tanti suoni e tante sfumature.
Nella Diaspora la conoscenza dell’ebraico ancora oggi è poco diffusa: in che modo ciò influisce sulla percezione di sé?
Se un ebreo vuole essere tale in modo profondo dovrebbe conoscere l’ebraico, così come dovrebbe conoscere i testi fondamentali della nostra tradizione, la filosofia, la mistica. La lingua è parte integrante dell’identità ebraica: non a caso tantissimi studiosi, anche in Italia, nel passato hanno scelto di scrivere in ebraico.
Ha scritto che non ama chi parla in modo troppo levigato e scorrevole perché le dà la sensazione che nel discorso via sia un vuoto nascosto. Come si sente quando guarda la tv o legge i giornali?
Non leggo molto i giornali, lo faccio soprattutto nel fine settimana. Ma seguo con grande attenzione le notizie, come d’altronde tutti noi in Israele. Quello dei media è un linguaggio giornalistico, in genere banale, che non ti tocca e non ti lascia nulla nell’anima. La lingua letteraria lavora in modo opposto perché cerca invece di trasmettere qualcosa. Ma anche la lingua dei giornalisti può essere elevata, profonda, complessa. Basti pensare ai tanti scrittori che hanno fatto questo mestiere. Un esempio per tutti, Hemingway.
A differenza di molti scrittori israeliani non ha mai preso posizioni pubbliche su questioni politiche. Per quale motivo?
La politica mi interessa, non vi si può sfuggire. Ma non penso di doverne discutere sui giornali o in televisione: preferisco parlare di scrittura, d’arte o di vita interiore. D’altronde non si può suonare sia un caffè sia in un’orchestra filarmonica. E la mia musica è quella dell’interiorità e dell’anima: quella della letteratura.

Daniela Gross - twitter @dgrossmoked (Pagine Ebraiche settembre 2012)






Rosh haShana 5773

Qui Pisa
Un anno per la partecipazione

L'augurio per il 5773 è quello di un anno in cui l'ebraismo italiano sia un ebraismo vivo e di partecipazione convinta ed entusiasta: niente pigrizie e una vita ebraica piena di significato.
    

Guido Cava, presidente della Comunità ebraica di Pisa


Qui Verona – Un anno per l'impegno


Un augurio per Rosh haShana da parte della Comunità ebraica di Verona e Vicenza rivolto a tutto l’ebraismo italiano e mondiale per un migliore anno 5773. La Comunità di Verona e il suo Consiglio sono impegnati affinché il nuovo anno sia fortunato e proficuo per tutti noi.

Carlo Rimini, presidente della Comunità ebraica di Verona



pilpul
Quella lezione appresa con il prezzo del sangue
Ugo Volli L'attacco terrorista alla sinagoga di Roma fu un terribile momento di risveglio per l'ebraismo italiano e resta ancora un ammonimento per tutti noi. Che si colpisse la sinagoga più importante d'Italia, il simbolo dell'ebraismo italiano; che l'attacco avvenisse dunque su un obiettivo puramente religioso e non politico; che le istituzioni si fossero dimostrate incapaci di tutelare la vita degli ebrei e mostrassero una sostanziale indifferenza, che questo atto atroce fosse stato preceduto di pochi giorni da un corteo sindacale anti- israeliano con la simbologia truce di una bara portata a due passi dallo stesso Tempio poi insanguinato dai terroristi, in un modo che era inevitabile leggere come legittimante l'atto terrorista; che in breve giro di tempo altri attentati si succedessero, come quello particolarmente efferato di Fiumicino (1985) e altri gesti di distacco, come la scelta inedita di Pertini di registrare il messaggio di capodanno accompagnato da un bambino palestinese (1983): tutta questa costellazione di fatti aperta dall'assassinio del piccolo Stefano Gay Taché diede all'ebraismo italiano, o almeno a buona parte di esso, il senso del fallimento non del rapporto con la comunità nazionale in cui continuava ad essere bene inserito e bene accetto, ma della rappresentanza politica che aveva perseguito dalla Resistenza in poi.
Semplificando e radicalizzando un po', si può dire che la lezione della Shoah era stata compresa finora dal vertice intellettuale e politico dell'ebraismo italiano nel senso che i pericoli per l'ebraismo e gli ebrei venissero tutti e solo da destra e dal clericalismo; che dunque lo schieramento di sinistra fosse la collocazione naturale degli ebrei, naturalmente anche per la sensibilità sociale della nostra tradizione, ma soprattutto perché “mai più” si ripetesse la Shoah. C'erano state avvisaglie: l'antisemitismo dell'ultimo periodo di Stalin, la posizione del “campo socialista” contro Israele nelle guerre del '67 e del '73, l'alleanza sovietica con la Siria e con l'Egitto. Ma ora si vedeva che qui, di fronte a un terrorismo diretto contro la vita degli ebrei, la politica non solo della destra e del centro cattolico era indifferente - e oscuramente si capiva già allora, più complice che indifferente, come sarebbe emerso dalle rivelazioni sul “lodo Moro”.
Ma anche la sinistra lo era o peggio, si schierava coi terroristi “simili a Mazzini e Garibaldi”, come disse qualche anno dopo Bettino Craxi in un discorso applaudito da tutto il Parlamento salvo repubblicani, radicali e liberali. L'ebraismo italiano, naturalmente non tutto, ma nella sua maggioranza, capì allora che non poteva separare il proprio destino da quello di Israele, né delegare a un generico schieramento a sinistra la difesa della propria identità e della propria vita, che i nemici non stavano solo a destra. Lezioni apprese con il prezzo del sangue, che oggi rischiano di nuovo di andare confuse in un ritorno all'ideologia, ma che abbiamo il dovere di non dimenticare.

Ugo Volli - twitter @UgoVolli

(Il numero di ottobre di Pagine Ebraiche in distribuzione contiene molti servizi legati al trentesimo anniversario dell'attentato alla sinagoga di Roma. Tra i vari interventi la densa riflessione del professor Ugo Volli che pubblichiamo oggi)

notizieflash rassegna stampa
Sorgente di vita - Fuga e illusione
 Leggi la rassegna

Una marcia sui sentieri delle Alpi piemontesi per ricordare una storia di profughi ebrei dopo l’8 settembre del ’43. Da San Martin  Vesubie a Borgo San Dalmazzo, la fuga dalla Francia attraverso le montagne per sfuggire ai nazisti, l’illusione della salvezza in Italia, l’aiuto degli italiani  e, per  molti, la deportazione. E’ il servizio di apertura della puntata di Sorgente di vita di domenica 23 settembre.

p.d.s

continua>>


 

Che il disordine sia grande sotto cielo (ma che la situazione non sia magnifica) lo si intuisce leggendo notizie che non ci possono più sconcertare, come quella che ci racconta di come la «folla», termine in sé molto generico, abbia preso d’assalto a Bengasi uno dei quartieri generali della milizia salafita Ansar al-Sharia, alla quale è attribuita la responsabilità dell’assassinio dell’ambasciatore americano Christopher Stevens e di tre dei suoi collaboratori(...)

Claudio Vercelli

continua>>


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