Qui Pordenone - Gran finale con Aharon Appelfeld
| Sarà
uno dei massimi scrittori israeliani, Aharon Appelfeld, a coronare oggi
la tredicesima edizione di Pordenonelegge. L’autore di Storia di una
vita e di Badenheim, di cui da poco Guanda ha mandato in libreria Il
ragazzo che voleva dormire (301 pp., traduzione di Elena Loewenthal),
incontrerà il suo pubblico questa sera al Convento di San Francesco. La
sala preannuncia già il tutto esaurito, tanto che gli organizzatori
suggerivano ieri di recarsi sul posto con buon anticipo. Appelfeld, con
suoi modi garbati e schivi e la poesia lieve e densa che
contraddistingue la sua opera, è d’altronde ormai uno degli autori
israeliani più amati e apprezzati dai lettori italiani che mai come in
queste occasioni mostrano vitalità e voglia di conoscere.
Da Alain Finkielkraut a Niccolò Ammaniti, dal grande poeta americano
Charles Simic a Ian Mc Ewan, da Peter Cameron a Claudio Magris, gli
appuntamenti del festival curato da Alberto Garlini, Valentina Gasparet
e Gian Mario Villalta registrano un riscontro senza precedenti. Segno
che malgrado il crollo nelle vendite dei libri stimato a livello
nazionale nell’ordine del 20 per cento (ma i librai locali parlano di
quasi il 40 per cento) il piacere della cultura rimane forte. Tanto che
catturano il pubblico anche incontri di non immediata lettura quale
quello con Alain Finkielkraut, il filosofo francese che questa mattina
ha affrontato le grandi domande del nostro tempo: che cos’è la civiltà?
cosa sono l’arte, l’ideale e la grazia? Tutti quesiti che, secondo
l’autore di Un cuore intelligente, possono trovare risposta nella
letteratura. “Se sappiamo qualcosa sull’amore, sull’odio o sui
sentimenti, sono stati portati al linguaggio dalla letteratura –
afferma –
Non abbiamo bisogno della letteratura per imparare a leggere ma per
sottrarre il mondo alle letture sommarie: la realtà ci viene nascosta
da molti sipari e leggende che la letteratura contribuisce a strappare”.
E a confermare l’attrazione per la lettura, l’interesse suscitato da
Pagine Ebraiche. Presenza già apprezzata e gradita in molti
appuntamenti culturali, dal Salone del libro di Torino al
Festivaletteratura di Mantova, quest’anno il giornale dell’ebraismo ha
infatti debuttato anche a Pordenonelegge con un dossier sul complesso
tema della lingua e dei linguaggi, affrontato attraverso una serie
d’interviste a grandi autori contemporanei.
d.g
L'esilio amaro delle parole
Anche
a guardarla dal punto di vista della lingua la sua vicenda è a dir poco
straordinaria. La scrittura letteraria si nutre, in modo inevitabile,
dell’idioma materno, di quei suoni e voci che accompagnano gli anni
bambini. E solo in casi eccezionali l’espressione artistica ce la fa a
sgorgare in una lingua appresa: Nabokov, Conrad, Beckett. Non a caso il
grande scrittore rumeno Norman Manea, costretto a lasciare il suo paese
dalla dittatura socialista, descrive con profonda amarezza la sua nuova
condizione di libertà. “Nell'esilio felice dell'affrancamento, quando
potevo, infine, parlare liberamente, mi è stata tagliata la lingua.
L'esilio linguistico è, per lo scrittore, una combustione in
profondità, il suo Olocausto... ”.
Ma nel caso di Aharon Appelfeld i termini si rovesciano. Arriva in
Israele nel 1946, quando ha tredici anni e mezzo. La persecuzione
nazista lo ha privato dei genitori e del suo mondo. Fuggito da un campo
di concentramento sopravvive, bambino, per tre lunghi anni nei boschi e
nei campi. Completamente solo, smarrisce le lingue che hanno
accompagnato la sua infanzia. Il tedesco, la lingua che la madre amava
e coltivava con passione (“Nella sua bocca le parole suonavano limpide
come se le avesse pronunciate attraverso un’esotica campana di vetro”).
Ma anche lo yiddish parlato dai nonni che per lui conserva ancor oggi
il sapore acidulo della composta di prugne secche. Insieme al ruteno e
al rumeno che costellavano la quotidianità della sua Czernowitz.
Poco a poco, con fatica immensa, dice addio alle parole madri. Si trova
a fare i conti con l’ebraico, che conquista faticosamente giorno dopo
giorno. E, anche grazie alla lezione poetica della Bibbia, ne fa uno
strumento di purezza cristallina capace di raccontare con potenza e
delicatezza le tenebre della memoria, il suo mondo scomparso, la voglia
di vivere e di ricostruire. Raggiunto al telefono nella sua casa di
Gerusalemme, ripercorre questa traiettoria di vita e arte con toni
sommessi e una cortesia rara. Animato da una profonda consapevolezza
dell’inestricabile legame tra passato e presente che anima l’intera sua
opera.
Aharon Appelfeld, la
lingua è uno dei temi centrali dei suoi libri: da Storia di una vita
del ’99 a Il ragazzo che voleva dormire, appena pubblicato in Italia da
Guanda. Per quale motivo ha un ruolo così importante?
Fino a otto anni e mezzo la mia lingua madre è stata il tedesco. Quando
sono arrivato in Israele non avevo più nessuno con cui parlarlo e,
ragazzino, ho cominciato a studiare l’ebraico. Ma la lingua madre è
come il latte materno. Un uomo che ne viene privato è malato per tutta
la vita: la lingua materna non la parli, scorre: quando te la portano
via ti si crea dentro una voragine e devi sforzarti in ogni modo di
colmarla. Così ho iniziato a studiare l’ebraico e l’ebraico è divenuto
la mia lingua madre. E’ stato un grande sforzo, una fatica impegnativa.
Cosa rimane oggi
delle quattro lingue che hanno accompagnato la sua infanzia? Le parla
ancora? E come si riflettono sul suo lavoro?
Oggi parlo il tedesco, anche se è una lingua in cui non mi sento del
tutto libero. Parlo un po’ di russo, pochissimo rumeno. Ho studiato
molto l’yiddish. Volente o nolente, le diverse lingue che conosco
influiscono sulla mia scrittura. Non ne sono sempre consapevole, mi
vengono a trovare e risuonano nella pagina. In questi anni parlo anche
molto inglese, che in Israele come nel resto del mondo è divenuto la
seconda lingua, una lingua che valica i confini. In esilio tanti
scrittori smettono di scrivere. Nel suo caso è avvenuto l’opposto.
Forse perché ho iniziato a conquistare l’ebraico a tredici anni e
mezzo: un’età in cui non si è più bambini ma non si è ancora divenuti
uomini. La mia grande fortuna è che sono arrivato in Israele senza
essere andato a scuola. Prima della Shoah avevo terminato soltanto la
prima classe. Se avessi studiato di più sarei arrivato nel mio nuovo
Paese portando nella testa i libri e i vocabolari su cui avevo
studiato. Così ho potuto invece costruire dal nulla e l’ho fatto in
ebraico. Altrimenti avrei potuto imparare a comunicare in questa
lingua, ma non sarei stato in grado di utilizzarla per la mia
scrittura.
Spesso ha ripetuto
quanto fosse duro l’ebraico per la sua sensibilità di ragazzo. “Suonava
come degli ordini: andare, dormire, sistemare - ha detto in
un’intervista - Suonava come fosse sorta dal mare, dalle sabbie che ci
circondavano ad Atlit. Non era una lingua che sgorgava da te, era come
riempirsi di ghiaia”.
Nel primo periodo della mia vita in Israele ho lavorato in un kibbutz e
poi sono stato nell’esercito. La lingua per me era allora molto
militare. Adesso non è più così. L’ebraico è ricco di infiniti
significati e sfumature e può essere molto dolce e articolato.
In Storia di una vita torna spesso il
tema del linguaggio del corpo: lei scrive che il corpo può ricordare ma
è al tempo stesso un modo di dialogare con l’altro. Che differenza c’è
tra la lingua del corpo e quella della bocca? Dicono cose diverse?
Il corpo registra quanto ci sta intorno tanto quanto la testa. Non lo
diciamo mai di una gamba o di una mano, ma tutte le parti del nostro
corpo sono antenne sensibilissime capaci di ricordare quanto ci accade
e di raccontare le emozioni più profonde in un linguaggio tutto loro.
Una delle sue grandi
paure, ha scritto, è quella di perdere l’ebraico. Al punto da sognare
spesso di ritrovarsene privato. Perché questo timore?
Perché è una lingua che ho acquisito da ragazzo, non ci sono nato. La
lingua acquisita devi sorvegliarla tutto il tempo perché non vi penetri
nulla di straniero. L’ebraico è ormai la mia lingua materna. Sogno e
scrivo in ebraico. Ma ancora oggi ho paura che se ne vada. Talvolta mi
sveglio e questo ebraico imparato con tanta fatica svanisce, scompare.
Voglio afferrarlo ma non ci riesco.
Cosa prova quando sente parlare l’ebraico di oggi? E’ diverso da quello che ha studiato?
In un certo senso sì. Ci sono molto slang e localismi, ma non potrebbe
essere altrimenti. Ogni generazione esprime un suo ritmo nella lingua,
toglie o aggiunge qualcosa. E poiché Israele è un grande crogiolo di
popoli e di culture questa mescolanza si percepisce in modo
significativo. Ma non vi è nulla di negativo in tutto ciò. E’ un
pluralismo linguistico che apprezzo molto. Non credo che la lingua vada
preservata in una sua fissità: è bello veder convivere tanti suoni e
tante sfumature.
Nella Diaspora la conoscenza dell’ebraico ancora oggi è poco diffusa: in che modo ciò influisce sulla percezione di sé?
Se un ebreo vuole essere tale in modo profondo dovrebbe conoscere
l’ebraico, così come dovrebbe conoscere i testi fondamentali della
nostra tradizione, la filosofia, la mistica. La lingua è parte
integrante dell’identità ebraica: non a caso tantissimi studiosi, anche
in Italia, nel passato hanno scelto di scrivere in ebraico.
Ha scritto che non
ama chi parla in modo troppo levigato e scorrevole perché le dà la
sensazione che nel discorso via sia un vuoto nascosto. Come si sente
quando guarda la tv o legge i giornali?
Non leggo molto i giornali, lo faccio soprattutto nel fine settimana.
Ma seguo con grande attenzione le notizie, come d’altronde tutti noi in
Israele. Quello dei media è un linguaggio giornalistico, in genere
banale, che non ti tocca e non ti lascia nulla nell’anima. La lingua
letteraria lavora in modo opposto perché cerca invece di trasmettere
qualcosa. Ma anche la lingua dei giornalisti può essere elevata,
profonda, complessa. Basti pensare ai tanti scrittori che hanno fatto
questo mestiere. Un esempio per tutti, Hemingway.
A differenza di molti scrittori israeliani non ha mai preso posizioni pubbliche su questioni politiche. Per quale motivo?
La politica mi interessa, non vi si può sfuggire. Ma non penso di
doverne discutere sui giornali o in televisione: preferisco parlare di
scrittura, d’arte o di vita interiore. D’altronde non si può suonare
sia un caffè sia in un’orchestra filarmonica. E la mia musica è quella
dell’interiorità e dell’anima: quella della letteratura.
Daniela Gross - twitter @dgrossmoked (Pagine Ebraiche settembre 2012)
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| Rosh haShana 5773 |
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Qui Pisa – Un anno per la partecipazione
L'augurio
per il 5773 è quello di un anno in cui l'ebraismo italiano sia un
ebraismo vivo e di partecipazione convinta ed entusiasta: niente
pigrizie e una vita ebraica piena di significato.
Guido Cava, presidente della Comunità ebraica di Pisa
Qui Verona – Un anno per l'impegno
Un
augurio per Rosh haShana da parte della Comunità ebraica di Verona e
Vicenza rivolto a tutto l’ebraismo italiano e mondiale per un migliore
anno 5773. La Comunità di Verona e il suo Consiglio sono impegnati
affinché il nuovo anno sia fortunato e proficuo per tutti noi.
Carlo Rimini, presidente della Comunità ebraica di Verona
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| | Quella lezione appresa con il prezzo del sangue
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L'attacco terrorista alla sinagoga di Roma fu un terribile momento di
risveglio per l'ebraismo italiano e resta ancora un ammonimento per
tutti noi. Che si colpisse la sinagoga più importante d'Italia, il
simbolo dell'ebraismo italiano; che l'attacco avvenisse dunque su un
obiettivo puramente religioso e non politico; che le istituzioni si
fossero dimostrate incapaci di tutelare la vita degli ebrei e
mostrassero una sostanziale indifferenza, che questo atto atroce fosse
stato preceduto di pochi giorni da un corteo sindacale anti- israeliano
con la simbologia truce di una bara portata a due passi dallo stesso
Tempio poi insanguinato dai terroristi, in un modo che era inevitabile
leggere come legittimante l'atto terrorista; che in breve giro di tempo
altri attentati si succedessero, come quello particolarmente efferato
di Fiumicino (1985) e altri gesti di distacco, come la scelta inedita
di Pertini di registrare il messaggio di capodanno accompagnato da un
bambino palestinese (1983): tutta questa costellazione di fatti aperta
dall'assassinio del piccolo Stefano Gay Taché diede all'ebraismo
italiano, o almeno a buona parte di esso, il senso del fallimento non
del rapporto con la comunità nazionale in cui continuava ad essere bene
inserito e bene accetto, ma della rappresentanza politica che aveva
perseguito dalla Resistenza in poi.
Semplificando e radicalizzando un po', si può dire che la lezione della
Shoah era stata compresa finora dal vertice intellettuale e politico
dell'ebraismo italiano nel senso che i pericoli per l'ebraismo e gli
ebrei venissero tutti e solo da destra e dal clericalismo; che dunque
lo schieramento di sinistra fosse la collocazione naturale degli ebrei,
naturalmente anche per la sensibilità sociale della nostra tradizione,
ma soprattutto perché “mai più” si ripetesse la Shoah. C'erano state
avvisaglie: l'antisemitismo dell'ultimo periodo di Stalin, la posizione
del “campo socialista” contro Israele nelle guerre del '67 e del '73,
l'alleanza sovietica con la Siria e con l'Egitto. Ma ora si vedeva che
qui, di fronte a un terrorismo diretto contro la vita degli ebrei, la
politica non solo della destra e del centro cattolico era indifferente
- e oscuramente si capiva già allora, più complice che indifferente,
come sarebbe emerso dalle rivelazioni sul “lodo Moro”.
Ma anche la sinistra lo era o peggio, si schierava coi terroristi
“simili a Mazzini e Garibaldi”, come disse qualche anno dopo Bettino
Craxi in un discorso applaudito da tutto il Parlamento salvo
repubblicani, radicali e liberali. L'ebraismo italiano, naturalmente
non tutto, ma nella sua maggioranza, capì allora che non poteva
separare il proprio destino da quello di Israele, né delegare a un
generico schieramento a sinistra la difesa della propria identità e
della propria vita, che i nemici non stavano solo a destra. Lezioni
apprese con il prezzo del sangue, che oggi rischiano di nuovo di andare
confuse in un ritorno all'ideologia, ma che abbiamo il dovere di non
dimenticare.
Ugo Volli - twitter @UgoVolli
(Il
numero di ottobre di Pagine Ebraiche in distribuzione contiene molti
servizi legati al trentesimo anniversario dell'attentato alla sinagoga
di Roma. Tra i vari interventi la densa riflessione del professor Ugo
Volli che pubblichiamo oggi)
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notizieflash | | rassegna stampa | Sorgente di vita - Fuga e illusione
| | Leggi la rassegna | Una
marcia sui sentieri delle Alpi piemontesi per ricordare una storia di
profughi ebrei dopo l’8 settembre del ’43. Da San Martin Vesubie
a Borgo San Dalmazzo, la fuga dalla Francia attraverso le montagne per
sfuggire ai nazisti, l’illusione della salvezza in Italia, l’aiuto
degli italiani e, per molti, la deportazione. E’ il
servizio di apertura della puntata di Sorgente di vita di domenica 23
settembre.
p.d.s
continua>>
| | Che
il disordine sia grande sotto cielo (ma che la situazione non sia
magnifica) lo si intuisce leggendo notizie che non ci possono più
sconcertare, come quella che ci racconta di come la «folla», termine in
sé molto generico, abbia preso d’assalto a Bengasi uno dei quartieri
generali della milizia salafita Ansar al-Sharia, alla quale è
attribuita la responsabilità dell’assassinio dell’ambasciatore
americano Christopher Stevens e di tre dei suoi collaboratori(...)
Claudio Vercelli
continua>>
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