Ecco il testo del discorso dedicato, nel
Tempio maggiore di Roma, all'ora di Ne'ilà di questo Kippur 5773 dal
rabbino capo della Capitale rav Riccardo Di
Segni.
Tra
un’ora circa, in uno dei momenti culminanti di questa nostra giornata,
i kohanim, i sacerdoti discendenti di Aharon, ci daranno la
benedizione. Prima di salire in tevà si faranno lavare le mani. Il
privilegio di compiere questo rito, lavare le mani, spetta ai Leviti, e
in loro assenza ai primogeniti. Questo perché prima che la funzione dei
Leviti fosse consacrata, erano i primogeniti a svolgere certi ruoli
importanti, e ancora lo fanno in qualche caso. La storia della
primogenitura ci suggerisce degli spunti importanti sui quali è
opportuno riflettere. Dedichiamo un momento a ragionare su un antico
racconto, che conosciamo tutti, ma ogni volta che lo rileggiamo mostra
aspetti nuovi. Abbiamo davanti due fratelli, ‘Esav e Ya‘aqov, che
per quanto siano gemelli sono molto differenti tra di loro, sia
nell’aspetto fisico che nel modo di comportarsi. ‘Esav, il primogenito,
sta sempre in giro a caccia, mentre Ya‘aqov, il fratello minore, passa
il tempo a casa, anzi nelle tende, perché quella era loro casa allora.
Un giorno ‘Esav torna a casa affamato e stremato dalla fatica e trova
Ya‘aqov davanti a un piatto di minestra rossa. ‘Esav la chiede e
Ya‘aqov gli propone un affare, il piatto in cambio della primogenitura.
‘Esav accetta e fa lo scambio. Lasciamo stare per ora le domande
importanti e più spontanee: l’affare era giusto? Ya‘aqov era un
imbroglione o un profittatore? Fermiamoci su un aspetto di questa
scena, la risposta di ‘Esav alla proposta del fratello: הנה אנכי הולך למות ולמה זה לי בכרה “ecco io vado a morire, e che ci faccio della primogenitura?” (Gen. 25:32) Che
cos’era la primogenitura, allora? Dopo l’epoca dei patriarchi, nel
diritto ebraico, essere primogeniti significa ricevere, nella divisione
dei beni famigliari, una parte doppia rispetto a quella di ciascun
altro fratello. Inoltre i primogeniti sostituiscono i genitori nella
scala del rispetto. I primogeniti esercitavano funzioni sacre, di cui è
rimasto qualcosa come l'esempio, che abbiamo appena citato, e ancora
oggi a 30 giorni dalla nascita devono essere riscattati. Non sappiamo
bene cosa si siano scambiati i due fratelli con la vendita della
primogenitura; certamente il diritto alla terra, per cui leggiamo nella
Torà che Ya‘aqov rimane nella terra promessa, mentre ‘Esav si sposta
più a sud. Ma perché ‘Esav rinuncia alla primogenitura con tanta
leggerezza? Nelle sue parole si avverte un senso di insicurezza, sente
che la sua esistenza è precaria e di promesse lontane non sa cosa fare.
Solo molti anni dopo si sarebbe lamentato, e forse pentito della sua
scelta. Ma in quel momento leggiamo cosa fa: ויאכל וישת ויקם וילך ויבז עשו את הבכרה. “mangiò e bevve, si alzò e se ne andò; ed ‘Esav disprezzò la primogenitura” (v. 34) Questo
disprezzo dovrebbe spiegare perché Ya‘aqov non era un
profittatore. Semplicemente dava un senso a un ruolo spirituale, prima
ancora che materiale, che invece il fratello rifiutava. Perché
parlare di tutto questo proprio ora? Perché ogni racconto antico si
chiarisce con quello che succede dopo e assume significati molto più
ampi. Quando Moshè si presenta al Faraone per chiedere la libertà al
suo popolo, riceve l’ordine divino di dichiarare: כה אמר ה' בני בכרי ישראל “Così ha detto il Signore: Israele è il mio figlio primogenito” (Es. 4:22) Il profeta Geremia dirà: קדש ישראל לה' ראשית תבואתה “Israele è sacro al Signore, l’inizio del suo raccolto” (Ger. 2:3) La
primogenitura non è solo una questione tra fratelli. È una questione
tra popoli e nazioni. Secondo la Bibbia noi, Israele, siamo la nazione
primogenita. Sappiamo che altre nazioni della terra non accettano di
buon grado questa nomina biblica. O la negano, o dicono che l’abbiamo
persa. Ma il problema non è tanto come gli altri vivano questa storia.
È come noi la viviamo. Sia chiaro che la primogenitura comporta qualche
privilegio, forse, ma soprattutto molti doveri e molti rischi. Secondo
Rashì, quando ‘Esav diceva che non gli importava la primogenitura
perché “andava a morire”, non parlava della sua vita rischiosa, ma dei
rischi anche mortali della primogenitura, che lui non si voleva
assumere. Non dobbiamo pensare semplicemente che noi siamo
Ya‘aqov e gli altri ‘Esav. Se la Torà racconta che la discussione
nasce in famiglia tra fratelli gemelli, vuol dire che il rapporto con
la primogenitura, tra accoglienza e disprezzo, è questione di casa
nostra, è un dissidio tra di noi; e ancora di più che una parte di
‘Esav è dentro ognuno di noi. Che vuol dire disprezzare la
primogenitura? Significa non rendersi conto, o non dare importanza alla
condizione del tutto speciale che abbiamo come popolo ebraico. Lo si
può fare in tanti modi e a tutti i livelli. Si può negare del tutto la
propria condizione, cercando di scappare il più lontano possibile. Si
può rivendicare una sorta di nobiltà, ma svuotandola degli impegni e
dei doveri che la caratterizzano, trasformando e degradando la
primogenitura in una distinzione senza contenuto, quasi razzista. Si
disprezza la primogenitura mancando di rispetto a tutto o a parte di
ciò che ci è stato trasmesso e che dobbiamo a nostra volta vivere e
trasmettere. In questa ora del tutto speciale di eccezionale
affollamento, di riunione nel nome di Israele, dobbiamo riflettere su
cosa significa essere Israele. Da questa riflessione deve derivare un
impegno che non si fermi all’emozione di pochi momenti. Un impegno ad
identificarsi nella condizione di essere il popolo figlio primogenito
del Signore; senza nessuna presunzione, ma con la consapevolezza di un
ruolo importante, da accettare con gioia e ottimismo; l'apprezzamento
della nobiltà spirituale si deve riversare nella vita quotidiana:
studiamo di più, osserviamo di più, aiutiamo di più. Questa nostra
Comunità, con la sua storia bimillenaria, continua a creare e vivere
collettivamente momenti straordinari di coesione e salita spirituale,
come li vivremo tra poco nel canto di E-l norà, nella berakhà,
nell'ascolto dello shofàr. Sappiamo che sono le cose che ci mantengono
in vita e che ci rendono indistruttibili. Tra pochi giorni le massime
autorità dello Stato saranno qui con noi a ricordare gli anniversari di
eventi tristi, deportazioni e attentati, che non sono stati capaci di
distruggerci. Se abbiamo resistito tanto e anzi siamo cresciuti, lo
dobbiamo alla consapevolezza dell'importanza del nostro ruolo.
Impegniamoci, in questi momenti solenni ad essere coerenti con questa
chiamata. A tutti l'augurio di חתימה טובה תזכו לשנים רבות
rav
Riccardo Shemuel Di Segni, rabbino capo di Roma
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