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  28 ottobre 2012 - 12 Cheswan 5773
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Roberto Della Rocca
Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino


"Abramo continuò a spostarsi verso sud": Rashi vede in questi movimenti una direzione fondamentale, la futura Gerusalemme. Ma quando, dopo la lite tra i suoi pastori e quelli di Lot, Abramo decide di separarsi da lui, dà al nipote la possibilità di scegliere per primo il luogo dove stabilirsi. E' pronto a rinunciare temporaneamente al suo obiettivo pur di evitare il litigio: non vuole mischiare neanche per un momento, dice rav Avigdor Miller, il bene al male.
David Bidussa, storico sociale
delle idee
   

Matilde Passa
Il libro di François Boespflug (“Le immagini di Dio. Una storia dell'Eterno nell'arte” Einaudi), arrivato questa settimana in libreria pone non pochi problemi, ma è anche un'opportunità di riflessione. Per il soggetto: si può rappresentare? E quando rappresentiamo che cosa rappresentiamo: quel soggetto o la proiezione che noi abbiano di quel soggetto? E quando diciamo noi, in quale tempo collochiamo questo “noi”? Oppure noi siamo sempre noi?
In altri termini la storia di quelle immagini (qui si parla di arte, ma lo stesso si potrebbe dire della letteratura, dei testi letterari, o di quelli speculativi e teologici) non è che la somma dei diversi modi in cui noi abbiamo costruito un’immagine, l’abbiamo caricata di significato o l’abbiamo investita di un ruolo. Ogni volta in un tempo in cui abbiamo provato a leggere testi e ricavare da quei testi, immagini, parole, proiezioni attese.
Cosicché la storia di quella rappresentazione – indifferentemente dal codice tecnico adottato - se versi, meditazioni filosofiche o opere artistiche (utilizzando materiali diversi), …. – non è che un modo diverso, apparentemente lontano, di raccontare ancora una storia di noi.
 

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Il Consiglio UCEI vara le Commissioni
Sono attualmente in corso a Roma i lavori del Consiglio dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
Numerosi i punti all'ordine del giorno, a partire dall'approvazione delle dieci Commissioni di lavoro che agiranno in sinergia con la Giunta (Statuto e regolamento Affari legali; Affari sociali, Famiglia ed ebrei lontani; Scuole, educazione e giovani; Israele e Aliyah; Patrimonio UCEI e beni artistico-culturali; Supporto alle Comunità e Meridione; Bilancio e Otto per Mille UCEI; Culto; Antisemitismo e Memoria; Minoranze e cultura).
Nel corso della mattinata è stato inoltre nominato il Collegio dei Probiviri. Ne fanno parte Aurelio Ascoli, Valerio Di Porto, Dario Disegni, Enzo Ottolenghi, Leone Pontecorvo, Giacomo Saban e Giuditta Servi. Quattro i supplenti: Federico Ascarelli, Paola Jarach Bedarida, Leone Paserman e Ruben Pescara. Conferma per i tre membri del Collegio Sindacale (Riccardo Bauer, Cesare Cava e Claudio Coen) e approvazione all'unanimità, dopo l'introduzione dell'assessore al bilancio Noemi Di Segni, del Bilancio Consuntivo 2011.
Prima della pausa dei lavori, che riprenderanno nel pomeriggio, a seguito di un ampio dibattito politico il componente di Giunta Raffaele Turiel ha annunciato il ritiro delle dimissioni che aveva presentato nelle scorse settimane.


Qui Livorno - Una grande festa per i 50 anni del Tempio
La Comunità ebraica di Livorno è in festa per il 50esimo anniversario della costruzione della sinagoga sorta sulle macerie del vecchio Tempio seicentesco.
Numerosi i cittadini che si sono stretti attorno alla Comunità in questa intensa giornata di celebrazioni apertasi con l'ingresso in sinagoga di un nuovo Sefer Torah dedicato alla memoria di Benjamin, Moise e Flora Yerushalmi, e con i saluti delle autorità cittadine, del leader comunitario Vittorio Mosseri e del rabbino capo Yair Didi.
In programma, dopo la cerimonia in Tempio, l'inaugurazione di una mostra fotografica alla Goldonetta, la presentazione del volume Un Tempio Nuovo per una Fede Antica e il concerto conclusivo del Coro Ernesto Ventura (si ringrazia il blog Comunitando per l'immagine).
Questo il discorso pronunciato dal presidente Mosseri per l'occasione:

In una soleggiata mattina di cinquantaquattro anni fa, alla presenza delle autorità e del Ministro Giuseppe Togni il rabbino Alfredo Toaff di z.l. pronunziò la benedizione “shehekheyianu” che suona così: “Benedetto sia Tu, Signore nostro Dio Re del Mondo, che ci hai fatto vivere, ci hai mantenuto e ci hai fatto giungere fino a questo momento”.
È questa la benedizione che oggi noi possiamo e dobbiamo ripetere nel mentre ci accingiamo a celebrare i 50 anni dall’inaugurazione dell’opera che chiuse per noi l’era delle distruzioni belliche e della provvisorietà nell’esercizio del culto nei locali invero poco capienti della Yeshivà Marini.
Il cammino però non era stato facile: falliti i tentativi di salvare e consolidare i ruderi della Sinagoga che i ripetuti furti di travi ed altro materiale fecero crollare definitivamente, iniziarono le trattative con lo Stato cui competeva di finanziare la ricostruzione. La Comunità insisteva per la formula “com’era e dov’era”, formula che lo Stato non volle accettare, e per la spesa che fu giudicata eccessiva, e per la difficoltà di reperire i materiali come marmi preziosi, stucchi ecc e il personale che li mettesse in opera.
I maggiorenti della Comunità e il rabbino Toaff dovettero pertanto rinunziare all’idea di rivedere l’imponente e fastoso monumentoalla fede dei Padri che era stato per oltre 3 secoli l’orgoglio della città e meta di visite da parte di tutti i sovrani che giungevano a Livorno.
I lavori del nuovo progetto, arditamente moderno, redatto dall’architetto Angelo di Castro, si protrassero per quattro anni: la scatola muraria fu finanziata dallo Stato ma l’arredamento fu lasciato alla cura e alle spese della Comunità, che dovette lanciare una sottoscrizione internazionale per coprire la ragguardevole somma necessaria per completare l’opera.
L’edificio così concepito fu successivamente completato con un’Arca Santa in finissima fattura barocca (firmata e datata 1708) proveniente dalla cessata Comunità ebraica di Pesaro.
Un Sefer Torah nuovo è stato inaugurato due settimane or sono ed è stato dedicato alla memoria di quattro benefattori locali che donarono ingenti somme alle nostre istituzioni, affinché la Comunità, pure nelle attuali difficili circostanze, provveda anche alle necessità dei bisognosi che fra di noi non mancano.
Oggi un altro Sefer Torah, donato da benefattori esteri, fa il suo ingresso nel nostro Tempio, e questo ovviamente, collegato al Cinquantenario che celebriamo, costituisce festa grande, per noi e per la cittadinanza che ha visto risorgere un monumento che rimanda alla gloria di quella che fu la più attiva Comunità ebraica del Mediterraneo e che ha illustrato nel mondo il nome di Livorno. Ancora oggi in Israele si stampano formulari di preghiera con l’indicazione “Nosach Livorno”, secondo l’uso di Livorno.
“Ai livornesi noi livornesi diciamo: Ecco, il Tempio è di nuovo al suo posto. Vedete siamo qui, non ci hanno distrutto: Siamo ancora e continuiamo ad essere la nota ebraica di un unico folklore livornese, insieme intesi a rifare la città, risorgente sulle sue rovine”.
Con queste parole l’allora presidente della Comunità ebraica, professor Renzo Cabib, concluse il discorso che tenne il giorno dell’inaugurazione del Tempio 50 anni fa.
Gioia, dunque, per tutti noi e per la nostra città, con l’auspicio che si possa godere di rinnovata prosperità nella pace e nella reciproca civile convivenza che da Livorno è stata nei secoli un vanto della Comunità ebraica e della città.
Con l’aiuto di Dio.

Vittorio Mosseri, presidente della Comunità ebraica di Livorno

pilpul
Ladri di futuro
I messaggi cinicamente offensivi, nonché deliberatamente diffamatori, che si sono accompagnati alla dipartita di Shlomo Venezia z.l., così come contro l’attività politica di Carla Di Veroli, comparsi sul web, insieme al riproporsi, in varie forme e in diversi contesti, della deliberata e sfacciata apologia del fascismo, hanno rilanciato la discussione sui rischi ai quali è esposta la nostra libertà così come sulla necessità di una più solida normativa che punisca le manifestazioni di denigrazione della democrazia e di sfacciato razzismo. Oggi stesso, domenica 28 ottobre 2012, in occasione della ricorrenza del novantesimo anniversario della marcia su Roma, l’episodio che sancì la trasformazione del fascismo, in quanto movimento politico, in regime liberticida, sono previsti, ed in pubblico, eventi e manifestazioni a “imperitura memoria”. La sede operativa – e ideologica – rimane Predappio, paese natale di Mussolini, laddove si trovano anche le sue spoglie, divenuto luogo di un lugubre culto, di un macabro pellegrinaggio, entrambi peraltro in piena sintonia con lo spirito mortifero del movimento politico di cui il “duce” degli italiani fu il fondatore. Se nella piazza principale del comune romagnolo è prevista un’“adunata” affettuosa dei camerati di ieri e di oggi, il fermento anima altre città d’Italia, come Perugia – da cui si originò a suo tempo la marcia sull’Urbe – , dove si sta svolgendo un “convegno di studi” («Marciare su Roma»), promosso da una decina di organizzazioni della galassia neofascista, più o meno assortite e variamente note alle cronache, tra le quali l’Associazione d’Arma Fiamme Nere, l’Ordine dell’Aquila Romana, l’Associazione Decima Flottiglia Mas-Rsi e così via. A Varese, coniugando manganelli a gastronomia, è programmata una cena commemorativa. Altro, più o meno degno di nota, è in corso di svolgimento nella penisola. Ovviamente l’occasionalità celebrativa si accompagna alla perduranza delle motivazioni ideologiche di fondo: il fascismo, sostengono i suoi apologeti, non si è concluso con l’inglorioso crollo del regime mussoliniano prima e con la fine della Seconda guerra mondiale poi. La sua visione del mondo, il suo feroce antiegualitarismo, la sua concezione apocalittica delle relazioni umane, la sua dottrina razzista, l’esaltazione della violenza come essenza “pura” dell’uomo, sono tutte cose che appartengono alla nostra contemporaneità, sembrano volerci ammonire quanti dichiarano, apertamente e spregiudicatamente, di rifiutare la democrazia come "sifilide dello spirito moderno»"(Pino Rauti). A questa piccola esplosione di nostalgia, una componente essenziale nelle motivazioni rancorose del neofascismo nostrano, si lega quindi la diffusione, in sé forse ancora più inquietante, del "fascismo del terzo millennio", così come si autodefinisce quello animato da un circuito che trova in CasaPound, "associazione di promozione sociale", in realtà vero e proprio movimento politico, un suo caposaldo essenziale. Di fatto nostalgici e “innovatori”, passatisti e futuristi, sono due facce della stessa medaglia. Non tutto è ingenuamente riconducibile ad una sola centrale operativa, e neanche ad un unico pensiero, ma è certo che dietro l’apparente pluralismo delle posizioni c’è il filo nero di una comune identità. Parte integrante, mai venuta meno, di questo modo di essere, è la pervicacia del pensiero che sancisce l’inesistenza dell’umanità, sostituita dalla presunta concretezza delle razze, rivendicando inoltre l’ineguaglianza che vigerebbe tra di esse e la gerarchia “naturale” che ne dovrebbe riordinarne la presenza su questa terra. Dentro questa cornice di merito l’antisemitismo rivela la sua consustanzialità al fascismo, sia da un punto di vista ideologico che culturale, non rappresentandone la deviazione senescente ma piuttosto il compimento ultimo, il momento più tristemente autentico. Della dottrina dell’odio nazionalista e di razza l’avversione contro gli ebrei ne è pertanto la cornice. Il nesso tra antisemitismo e negazionismo (quest’ultimo da intendersi come l’insieme di posizioni pseudo-scientifiche e di atteggiamenti falso-storici che negano l’evidenza materiale e fattuale dello sterminio delle comunità ebraiche europee negli anni del dominio nazi-fascista) riposa nella necessità dirilegittimare il primo facendo ricorso alla rimozione della catastrofe del genocidio, il frutto maturo del terrore totalitario. Quando si parla di fascismo e di neofascismo è quindi bene sapere che ci si concentra su qualcosa che è indissolubilmente legato non solo al pregiudizio contro gli ebrei ma anche alla sua traduzione in politiche, di discriminazione prima e di persecuzione poi, perseguite dallo Stato quand’esso si fa regime dell’intolleranza. Si tratta della terribile novità che il Novecento ci ha consegnato: il razzismo sterminazionista realizzato apertamente da una pubblica amministrazione, con il consenso, più o meno compiuto e consapevole, della grande maggioranza della popolazione. In altre parole, la partita non è chiusa. Non basta dirci, infatti, che ci si trova dinanzi a manifestazioni minoritarie, di nicchia, destinate a non raccogliere ulteriore eco. Ogni fascismo è nato in tali vesti per poi, una volta trovate le condizioni utili e necessarie, dettate dalle trasformazioni storiche, mutare in sistema e regimi di massa. Una ferita aperta, per rimanere ai giorni nostri, è la deriva che da alcuni anni sta conoscendo l’Ungheria. Sulla sua scia parrebbe purtroppo essersi incamminata anche la Grecia. Alle rabbiose, truculente e livorose espressioni di piccoli gruppi si lega infatti l’acquiescenza con la quale queste vengono raccolte da parte di quanti – e possono essere molti – vivono con crescente insoddisfazione la crisi delle democrazie. Ai giorni nostri, oltre a un problema di ordine quantitativo (l’incremento delle manifestazioni di odio razzista, di antisemitismo nonché di avversione verso le forme della partecipazione democratica), sussiste una più generale urgenza, quella di porre un freno alla rassegnazione, ai limiti della condiscendenza, che in questi ultimi due decenni è andata sostituendosiall’indignazione e alla condanna. Quasi che ci si trovasse dinanzi ad una sorta di male tanto incurabile quanto ovvio, con il quale convivere. In Italia il declino dell’arco costituzionale, delle culture politiche che avevano sancito la nascita e il faticoso sviluppo di una Repubblica libera dalle incrostazioni della barbarie, si è accompagnato ad una secca riduzione degli anticorpi in seno alla collettività: certi discorsi, un tempo impensabili perché sconfitti con la guerra medesima, di cui erano stati la causa diretta, sono oggi tornati in auge. La reviviscenza del negazionismo, di cui si è fatta ripetuta menzione anche in tanti interventi succedutisi su questa newsletter, ne è una sorta di indice, ovvero di riscontro diretto. In poche parole, a rischio di semplificare, maggiore è la propensione a negare l’evidenza della Shoah, minore è il grado di autonomia e di libertà degli individui. Si tratta di una equazione morale poiché il negazionismo è, in quanto costrutto ideologico, uno strumento per imprigionare le persone dentro un perverso meccanismo di credenze mistificanti, trasformando la storia in un credo superstizioso. La risposte da dare a queste derive sono tuttavia complesse, non potendo essere ricondotte ad un solo strumento. Esiste un problema di pedagogia civile, che rimanda non solo alla necessità di fare conoscere il passato ma soprattutto di sensibilizzare alla sua conoscenza, in un’epoca dove questa virtù è invece ben poco praticata. Si desidera conoscere tanto più quando ci si vuole emancipare. Esigenza, quest’ultima, scarsamente presente tra molti dei nostri contemporanei, semmai impauriti dalle molte difficoltà che il presente, ed il futuro soprattutto, sembrano presentare. Non è quindi la mancanza di consapevolezza del passato che vincola i più ma piuttosto i timori per un tempo a venire, un’epoca minacciosa alla quale non pensare perché imponderabile e piena di angosce. Il negazionismo, in quanto insulsa rilettura di ciò che è stato, dove tutto è ricondotto ad un complotto, quello messo in opera dagli ebrei a danno della collettività planetaria, trova pertanto terreno fertile. Sulla necessità di porre un freno legislativo molti si sono pronunciati. Il problema è, ancora una volta, tanto più in un regime democratico, di non facile soluzione: dove si pone la soglia tra opinione legittima, ancorché radicale e irritante, e deliberata deviazione patologica, dove al pensiero si sostituisce l’insulto immorale a fini politici? Chi ha lavorato sull’analisi del negazionismo, proprio perché bene ne conosce l’insidiosa pervasività, sa come esso non sia un monoblocco, dai perimetri definiti, come tale identificabile aprioristicamente. Non si creda che sia sufficiente sanzionare l’invettiva. Per questo aspetto gli strumenti già esistono. Piuttosto si pone il problema di capire quali siano e dove si collochino i limiti varcati i quali si innesca un processo distruttivo, per poi agire con i mezzi che la democrazia ci offre. Tra questi, va da sé, anche quelli della repressione penale. Il tema, comunque, è di scottante attualità. Sottovalutarlo implica condannarsi a subire un passato che non è mai del tutto “trapassato”.

Claudio Vercelli


Nugae - Jewish Mum of the Year
Jewish Mum of the Year non è un prestigioso premio conferito da qualche associazione, bensì l’ultimissima trovata televisiva di una rete britannica. Si tratta di un reality show che ogni settimana mette in competizione otto mamme ebree in prove singolari, fra cui ad esempio organizzare un bar-mitzvah da favola o trovare la moglie perfetta all’adorato figliolo. Come in ogni reality che si rispetti non mancano i litigi, dovuti alle diverse personalità delle protagoniste, e i personaggi eccentrici, come Leslie, che sostiene che per la mamma ebrea moderna non sia necessario cucinare. Inevitabili le polemiche, provenienti da molti esponenti ebrei dello show business e dell’informazione inglesi: Jewish Mum è stato definito “al limite del razzismo”, “disgustoso”, “molto dannoso”, “pieno di chlichés”. E da un certo punto di vista queste critiche sono condivisibili: è chiaro che si sfrutta fino all’osso e si mette in ridicolo il carattere forte di queste madri ai fini dello spettacolo, ed è vero che generalizzare e stereotipare non va mai bene. Però in realtà c’è anche del buono in tutto questo. Perché la tipizzazione dei personaggi è sempre stata un espediente tipico della commedia, e oggi che il teatro non è più un passatempo così popolare, il reality l’ha un po’ sostituita nell’intrattenimento delle masse. E se il latino Plauto usava per far ridere il giovane innamorato e sfortunato e il servo scaltro, gli autori televisivi del 2012 hanno a disposizione la bionda non troppo sveglia, l’artista incompreso e la mamma ebrea. A nessuno oggi verrebbe mai in mente di mettere in scena un soldato fanfarone, ma tutti hanno trovato esilarante la mamma invadente di Woody Allen in Edipo Relitto (New York Stories). Osservato da questa prospettiva Jewish Mum non è dunque pubblicità negativa, ma semplicemente lo specchio della società che cambia e comprende il mondo ebraico con tutte le sue sfaccettature. E poi, in effetti come si fa a non sorridere?

Francesca Matalon - twitter @MatalonF

notizieflash   rassegna stampa
Tel Aviv - Decine di migliaia
in piazza per ricordare Rabin
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Decine di migliaia di persone sono scese in piazza a Tel Aviv ieri sera per ricordare il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. Rabin fu ucciso da un estremista di destra il 12 Cheswan 5756, esattamente 17 anni fa.
 

I bambini deportati da Roma nel 1943 cui è dedicato il volume della Fandango Libri “Li hanno portati via” sono al centro della pagine Cultura e Tempo Libero del Corriere della Sera Roma.

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