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7 novembre
2012 - 22 Cheshwan 5773 |
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David
Sciunnach,
rabbino
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“Ed Avrahàm era anziano,
avanzato negli anni …”. (Bereshìt 24, 1) L’Admor Rabbì
Yehudà Leib di Gur, conosciuto per il suo commento come Sefat Emèt,
diceva: “avanzato negli anni” si può leggere letteralmente “veniva -
portava gli anni”. Ciò vuole dire che Avrahàm portava con sé tutti i
giorni della sua vita, non avendo perso neanche un giorno in cose
futili. E’ questa una caratteristica molto rara e particolare di cui la
grazia è stata concessa solo ad alcuni grandi d’Israele, come Avrahàm
Avinu e David ha-Mèlèch. Uno degli auguri della tradizione ebraica è
proprio “arichut yamìm - lunghezza di giorni”. I Maestri ci insegnano
che questo augurio non vuol dire solo che la vita di una persona sia
lunga negli anni , ma ci vuole insegnare che i giorni di una persona
siano lunghi vissuti intensamente nella loro pienezza.
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Davide
Assael,
ricercatore
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Dovendo trovare un’immagine rappresentativa del
momento attuale, credo sia adatta quella ebraica del mabbul,
l’emersione delle acque dal basso e la caduta delle stesse dall’alto,
che esprime il senso della perdita del discernimento. È la fase storica
in cui tutto si mischia, dove, per esempio, i politici fanno i comici
ed i comici i politici. A ben vedere, è una situazione che richiama la
descrizione del declino della kallipolis (la città felice) di platonica
memoria. Platone, forte della capacità analitica della filosofia,
aggiunge che lo stadio successivo non potrà che essere la tirannide,
l’uomo forte che ripristina l’ordine. Siamo in molti a denunciare il
ritorno dell’estrema destra in Europa (personalmente, lo faccio da
circa due anni, anche su queste pagine) e, ormai, non solo in Ungheria.
Da seguire con attenzione le elezioni austriache del 2013, Andreas
Mölzer, lo stratega dell’FPÖ, pare guardi con interesse all’esperimento
politico dello Jobbik ungherese (!). Il problema è, cosa si può fare?
Tutto ha il sapore e l’aspetto dell’ineluttabilità.
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"Responsabilità,
impegno e maggiori reciproche aspettative"
La conferma di Obama sulla stampa ebraica a stelle e strisce |
“Sappiamo
tutti che questa vittoria non è come quella di quattro anni fa e che
Obama non ha potuto soddisfare tutte le aspettative, alcune
obiettivamente impossibili, che l'elettorato americano riponeva nel suo
mandato. Lo conosciamo meglio adesso. Sappiamo i suoi difetti e i suoi
punti deboli. Auspicabilmente li conosce anche lui”. Si intitola Great
expectations ed è un appello ai grandi obiettivi condivisi (e da
condividere) l'editoriale con cui Forward, giornale ebraico più
influente d'America, accoglie la conferma di Barack Obama alla Casa
Bianca. Dalla crisi economica al sociale, dal riconoscimento dei
diritti civili alla politica estera, l'intervento – pubblicato senza
firma sulla home del sito – è un doppio richiamo alla responsabilità:
abbiamo il diritto di aspettarci di più da questo secondo quadriennio,
si afferma, “ma allo stesso tempo il presidente ha il diritto di
aspettarsi qualcosa di più da noi, i cittadini che governa”. “Obama
finds the Promised Land Again”, titola invece Tablet, altro magazine
ricco di informazioni sulla particolare declinazione del voto ebraico.
Un voto come noto in larga parte democratico ma che in questa
circostanza sembrerebbe aver registrato una piccola ma significativa
'migrazione' repubblicana. Lo confermerebbe un sondaggio appena
divulgato dalla CNN: il dato di cui si parla è il 31 per cento. Per
Nathan Guttman, ancora su Forward, “resta comunque una vittoria
ebraica”. L'uomo d'affari George Soros, tra i massimi finanziatori
della campagna democratica, si dice intanto convinto che con la
conferma di Obama sarà possibile rafforzare un'azione politica
sensibile e più attenta al sociale. “Sono contento che abbia vinto –
afferma – con la sua rielezione l'elettorato americano ha rigettato
alcune posizioni estremiste della controparte”. Delusione
palpabile nella galassia dei movimenti ebraici di appoggio al candidato
repubblicano. Soprattutto sui social network, con interventi
caratterizzati da grande amarezza e sfiducia. “Per Israele saranno
tempi molto duri”, scrive un blogger alludendo alle presunte ambiguità
di Obama sulla politica mediorientale. Ma c'è anche chi come Reuven
Boruch, admin della pagina Facebook di Jews for Romney, invita a
voltare pagina e a rimboccarsi le maniche nel nome del bene comune e
dello spirito di unità. “Come on guys, it's time to move on”, il suo
post. Delusioni dall'urna anche per rav Shmuley Boteach, rabbino
ortodosso protagonista del dibattito etico e religioso nazionale. In
corsa con i repubblicani per un seggio nello Stato del New Jersey, è
stato sconfitto dal democratico Bill Pascrell. Molto interessante
infine, per restare negli ambienti conservatori, la ferma denuncia di
Commentary, testata fondata nel 1945 dall'American Jewish Committee.
“Sottovalutare l'appeal di cui continua a godere Obama – si legge sul
web – è stato un errore gravissimo”. Da Israele, dove non sono
mancati appuntamenti di piazza per seguire le dinamiche del voto,
arrivano le congrutalazioni del primo ministro Benjamin Netanyahu. “Il
patto strategico fra Israele e Stati Uniti – ha commentato – è più
forte che mai. Continuerò a lavorare con il presidente Obama per
garantire gli interessi essenziali per la sicurezza dei cittadini di
Israele”. Sulla stessa lunghezza d'onda il ministro della Difesa Ehud
Barak, che si è detto fiducioso per un futuro di armonia e
collaborazione: “Credo – ha affermato – che nella tradizione di
profonda amicizia e nello sfondo di condivise esperienze accumulate con
il presidente Obama saremo in grado di superare tutte le nostre
differenze”.
a.s twitter @asmulevichmoked
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Ohad Naharin: “Danzo
per cambiare il mondo” |
Gli sforzi congiunti di
RomaEuropa e Torinodanza, supportati dall'ottimo lavoro dell'ufficio
culturale dell'Ambasciata di Israele, sono riusciti in un'impresa
considerata difficile: portare il coreografo israeliano Ohad Naharin in
Italia insieme alla sua Batsheva Dance Company.
Due gli
spettacoli in agenda per quattro performance complessive: la prima,
l'attesissima Decadance, domani sera alle 20.30 all'Auditorium della
Conciliazione di Roma.
I contrasti e le molte apparenti contraddizioni sono la prima cosa che
colpisce quando si ha a che fare con Ohad Naharin, coreografo e
direttore artistico della Batsheva Dance Company, la compagnia di danza
contemporanea israeliana considerata una delle compagini più
interessanti al mondo. È un personaggio, e sostiene di esserlo suo
malgrado. Forse ama esserlo. Unisce meditazione e atteggiamenti da guru
a un’ironia sottile che pervade ogni discorso e che usa sapientemente
per alleggerire la conversazione tutte le volte che sembra stia per
prendersi troppo sul serio. Raggiungerlo è difficile. Bisogna mettere
in conto numerosi cambiamenti di programma, di orario, anche di data,
ma quando si inizia a parlare si percepisce subito che la disponibilità
è totale e che Naharin accetta di mettersi in gioco. La sensazione è
davvero quella di avere di fronte una persona che non fornisce risposte
preconfezionate, già usate nel corso delle tante interviste che gli
vengono richieste da ogni parte. Dichiara di non amare la
documentazione del suo lavoro, di non essere interessato a riprese e registrazioni e
che lasciare traccia non gli interessa, ma quando inizia a rispondere
l’attenzione alle parole che usa è tanta. E tiene a precisare con
grande esattezza il senso del suo discorso, quasi a non voler correre
il rischio che le sue parole possano essere riportate in maniera poco
chiara. Le frasi sono lente, spesso interrotte, sospese, e i tempi dei
suoi silenzi danno il ritmo a risposte che sembrano essere anche
occasione di riflessione. Il dubbio di trovarsi davanti a un
personaggio costruito ad arte vacilla davanti allo sguardo limpido e al
sorriso sornione e si frantuma definitivamente a sentire la sua voce
profonda e avvolgente che per prima cosa cerca di capire veramente chi
è la persona con cui si trova a parlare. È innegabile, il fascino di
Ohad Naharin è grande, tale da far tornare il dubbio di avere a che
fare con un personaggio costruito. La spontaneità delle sue risposte e
l’impressione lasciata in chi assiste agli spettacoli della sua
compagnia fanno pensare il contrario. Sicuramente, quale che sia la
verità, si tratta di un uomo che ha cambiato profondamente il modo di
vedere la danza contemporanea, non solo israeliana, che ama
appassionatamente quello che fa e che crede in quello che dice. E la
prima cosa che dice Ohad Naharin, in apertura di intervista e senza
neppure lasciarmi il tempo di abbozzare una domanda sembra una
dichiarazione programmatica, che per fortuna verrà poi smentita nel
corso della conversazione. “Non parliamo di me, mi mette a disagio”.
Eppure saprà
che il suo nome viene sempre accolto con espressioni di meraviglia da
chi segue anche minimamente la danza contemporanea.
È raro che io sorrida come in questo momento… sono senza parole, ora,
non so cosa dire. Forse fanno così perché hanno dimenticato.
Davvero non
le piace parlare di sé?
Non faccio il difficile, non ho nulla da nascondere. E penso si veda da
come danzo. Non mi piacciono gli specchi, non amo guardare me stesso
mentre vivo. Preferisco vivere.
Sembra
un’affermazione di grande lucidità…
In realtà no: io dormo molto poco, passo tantissimo tempo sognando ad
occhi aperti. È noto che abbiamo tutti bisogno di sognare. Non è il
corpo che ha bisogno di riposare, veramente. Io ho sempre la sensazione
che il sonno mi permetta di dare ristoro al mio cervello, alle
emozioni. Ed è comunque una sensazione molto fisica.
Sognare ad
occhi aperti corrisponde anche al suo modo di lavorare?
Non voglio avere controllo sulle emozioni, è molto più interessante
quello che facciamo con esse. Noi non creiamo emozioni, semplicemente
ci troviamo a gestirle, in qualche modo. Quando balliamo diventiamo più
consapevoli di noi stessi. Abbiamo il senso di una potenzialità
infinita. Esploriamo il movimento, ci godiamo la sensazione di bruciore
nei muscoli, siamo pronti a scattare, siamo consapevoli della nostra
forza e qualche volta la usiamo. Mettiamo le nostre abitudini da parte.
Andiamo oltre i nostri limiti. Possiamo essere calmi e attenti al tempo
stesso. Voglio essere cosciente e consapevole, quello sì. Voglio
trasformare quello che mi circonda. Con la danza.
Non è cosa da
poco.
No, lo so. Quando danziamo si crea una risonanza. Una risonanza con le
cose, con le persone. Sono piccole cose, bisogna sapersi sintonizzare,
è un percorso di scoperta, di ricerca continua... Una ricerca che mi
cambia e che ha moltissimo a che fare con un percorso di crescita, e di
sviluppo. E forse cambia anche gli altri.
E lei quanto
è cambiato, da quando ha iniziato?
Rispetto a quello che ero trent’anni fa sicuramente sono cambiato, ma
forse sono solo piccole cose. Sono più il potere dell’immaginazione e
la forza che viene dal dare e condividere, che riescono a cambiare le
persone.
Sembra quasi un percorso di
iniziazione, non la visione di un coreografo. O forse le due cose sono
più simili di quello che normalmente si pensa?
In un certo senso quello che faccio è infestare le persone.
Contagiarle. Come se fosse una sorta di malattia. Non si tratta di me,
io posso solo dare loro le chiavi. Quelle che so usare. Quelle che ho
trovato lungo la strada. Eppure i ballerini che hanno lavorato con lei,
in tutto il mondo, la descrivono come un grande maestro. Il processo
creativo è molto personale. Non lo si può insegnare, non davvero. Posso
condividere delle sensazioni, posso provocare i danzatori e stimolarli
a cercare quello che sono veramente. Non posso fare altro, in realtà.
Ma forse non è poco.
No,
effettivamente non sembra poco, ma allora cosa serve per creare?
Nulla, assolutamente nulla. Questa è la bellezza della danza. Non
servono strumenti. Non servono gadget costosi. La danza ha a che fare
con il vuoto. Soprattutto con lo spazio vuoto nella mente delle
persone.
La danza
contemporanea israeliana sta avendo un grande successo in Italia. Quali
sono le caratteristiche che la rendono unica?
Se dei tratti comuni ci sono, e non bisogna mai generalizzare, non
dipende dall’essere israeliani; io per esempio mi sento molto vicino a
quello che si produce in Finlandia, o in Canada. Credo che i punti di
contatto siano dovuti al fatto che in Israele non abbiamo una lunga
tradizione di teatro, o di opera. Non ci sono elementi tradizionali a
cui fare riferimento. Questo permette una grande libertà. Abbiamo in
comune il fatto di non avere una storia comune… di poterci inventare e
reinventare ogni volta qualcosa di nuovo.
Si sente
ambasciatore di Israele?
Non mi interessa esserlo e troverei molto noioso creare qualcosa che
sia un commento diretto alla situazione politica. Non ho problemi a
parlarne, la mia posizione è nota.
Dopo tanti
anni si diverte ancora?
Ballare mi piace e mi fa stare bene, sì. È parte di me, semplicemente.
Mi piacciono cose semplici. Mi piace guardare gli alberi che crescono.
Mi piace stare con mia figlia, mi piace vederla ballare. Bisogna saper
guardare, è importante. Un buon danzatore è una persona che guarda
almeno tanto quanto viene guardata.
Lei ha
dichiarato che anche i suoi spettacoli bisogna saperli guardare.
Sì, certo, ma non è una cosa negativa: voglio poter dare fiducia al
pubblico, pensare che capiranno. Guardare i miei spettacoli non è
facile, bisogna saper vedere la struttura, la dinamica, la mescolanza
di forma e contenuto. Bisogna lasciar andare le convenzioni e accettare
un’esperienza nuova. Bisogna saper capire quando qualcuno sta ridendo
di se stesso, con se
stesso. Si tratta di saper percepire livelli differenti. Chiedo
tantissimo al mio pubblico, in realtà.
I suoi
danzatori sembrano sempre profondamente immersi nelle performance, come
ottiene questo risultato?
Questo ha a che fare con il lavoro di ricerca che facciamo attraverso
il Gaga. Cercare il piacere e esplorare le nostre sensazioni quando
lavoriamo. Sono cose che ci occupano, ci impegnano completamente sia
quando stiamo provando che in scena. Siamo appena consapevoli di avere
un pubblico che guarda. Come dicevo prima non si danza per mostrare se
stessi... I danzatori sono spettatori tanto quanto il pubblico. Non
posso pensare che ci sia un muro, una barriera fra chi è in scena e chi
assiste. Condividiamo uno stesso spazio, con ruoli differenti. È il
bello della danza: è un’emozione, condivisa.
Ada Treves -
twitter @atrevesmoked - Pagine Ebraiche, novembre 2012
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Pitigliani Kolno'a -
Sulle tracce dei berberi di Tinghir
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Da bambino amava perdersi
tra i vicoli nel cuore di Tinghir. Ma Kamal Hachkar non aveva mai
sospettato che nella cittadina sulle montagne dell’Atlante marocchino
in cui era nato, proprio in quel quartiere un tempo viveva una fiorente
comunità ebraica di cui ormai non rimane più traccia. Prende il via da
questa scoperta Tinghir-Gerusalemme, gli echi del Mellah, il
documentario che ieri ha concluso la terza giornata del Pitigliani
Kolno’a Festival. Il film racconta il viaggio che porta il giovane
regista, trasferitosi bambino in Francia insieme ai genitori, a
ricostruire la scomparsa della realtà ebraico berbera di Tinghir. E’ un
percorso complicato che lo vede spostarsi dal Marocco a Israele, dove
gli ebrei berberi si sono trasferiti, affrontando i temi scomodi
dell’identità (“io stesso d’altronde mi sono sempre sentito quello che
è altrove ed è questo il motore narrativo del film”), del pregiudizio
(“in Israele gli ebrei berberi sono sempre stati considerati
primitivi”, dice il cantante Shlomo Bar), delle radici e il dolore
dell’esilio. La capillare ricerca di Kamal Hachkar è
facilitata, in modo quasi paradossale, dal suo essere musulmano. Gli
ebrei berberi trasferitisi in Israele negli anni sessanta per timore di
ritorsioni dopo i conflitti arabo israeliani, non hanno dimenticato
com’era la vita a Tinghir. E lo accolgono a braccia aperte nel nome
della secolare convivenza che lì univa ebrei e musulmani, rivendicando
con fierezza l’antica fratellanza. E’ la chiave che conduce Hachkar
verso il sogno di un futuro di pace. “La speranza è che il Mediterraneo
possa tornare a essere una realtà plurale”, dice. “In questo senso vi
sono tanti esponenti del mondo della cultura e delle arti che in Europa
e in Medio Oriente da tempo stanno lavorando insieme, al di là delle
differenti appartenenze. Sappiamo bene che la situazione è difficile,
in Medio Oriente come in Francia per il montare gli estremismi. Non si
deve essere ingenui, ma siamo convinti che la cultura può fare molto
per avvicinare le persone”.
Kamal Hachkar racconta che il suo documentario, che da poco ha vinto il
primo premio al festival di Ashkelon, ha ottenuto un grande successo di
pubblico sia in Marocco sia in Francia dimostrando come l’interesse per
questi temi sia forte malgrado un costante bombardamento mediatico che
parla solo di divisione, conflitto, intolleranza.
Per il Marocco, dice, è stato un modo di riappropriarsi della sua
identità storica multiculturale. Quanto alla Francia, dove il riscontro
è altrettanto buono, le proiezioni hanno richiamato moltissimi
musulmani.
Tra loro, gli alunni dello stesso regista che insegna storia in una
banlieue di Parigi. “Sono venuti a vedere la storia degli ebrei di
Tinghir con una certa diffidenza che però è svanita quando si sono
identificati con le anziane donne ebree berbere: sono come le nostre
nonne che vivono in Marocco, hanno detto. Segno che valicare i confini
del pregiudizio o gli steccati tra le culture non è impossibile”. E a
ulteriore esempio Hachkar porta il gruppo parigino Hebreu Arabe, di cui
è fra gli animatori, in cui s’imparano in parallelo ebraico e arabo.
Gli alunni? Gente di tutte le età, spiega, che appartiene a religioni
diverse e spazia dal laico al religioso.
Il Pitigliani Kolnoa Festival si conclude questa sera. Fra le
proiezioni in programma, The Cutoff Man di Idan Hubel; Profughi a
Cinecittà di Marco Bertozzi che ricostruisce la vicenda che nel 1944
vide migliaia di uomini, donne e bambini trovare rifugio a Cinecittà;
God’s Neighbour’s di Meni Yaesh e Woody Allen: a documentary di Robert
Weide.
Daniela Gross
- twitter @dgrossmoked
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Qui Milano - I bambini
e le potenzialità da supportare |
“Il cervello è l’organo più
plastico su cui l’essere umano possa contare. Una potenzialità enorme
che raggiunge il suo apice nei bambini di due anni e si mantiene tale
fino ai quattro. È il periodo in cui dobbiamo investire, a questi
bambini dobbiamo rivolgere la nostra attenzione: i risultati saranno
eccezionali”. Marina Norsi, neuropsichiatra infantile dell'ospedale di
Beer Sheva, è tornata alla scuola ebraica di Milano, dove completò la
sua carriera scolastica, per offrire il suo supporto a un progetto
pilota che coinvolgerà gli alunni del nido e della scuola
dell’infanzia. Lo scopo è aiutarli a sviluppare a pieno le proprie
potenzialità in tutti i campi, ma anche prevenire qualsiasi tipo di
problema possa presentarsi nel loro sviluppo. Il progetto,
che è stato realizzato dall’Associazione medica ebraica in
collaborazione con la Fondazione Villa Santa Maria (specializzata nel
campo dei disturbi della psicomotricità e della comunicazione) e vedrà
la collaborazione del centro di Ber-Sheva diretto dalla dottoressa
Norsi e dell’Università di Gerusalemme, rientra negli accordi siglati
in campo medico tra Stato d’Israele e Regione Lombardia nel 2011.
Alla presentazione sono intervenuti Enzo Grossi e Gaetana Mariani,
direttore scientifico e direttore generale di Villa Santa Maria,
Giorgio Mortara e Rosanna Supino dell’Ame, e la direttrice della scuola
dell’infanzia e primaria Claudia Bagnarelli. I genitori della scuola
hanno ascoltato con attenzione e voluto capire fino in fondo se e in
che modo la novità inciderà sulla vita dei propri figli, nel breve e
nel lungo periodo.
“Una o due volte a settimana, un esperto di Villa Santa Maria sarà in
classe insieme alle educatrici, e osserverà i bambini in maniera
completamente discreta, senza intervenire in alcun modo nelle loro
attività – hanno spiegato alcune psicomotrici coinvolte nel progetto -
Dopo aver completato una prima fase di osservazione, proporremo
laboratori con attività pensate appositamente per ogni gruppo di
bambini. I genitori avranno accesso completo ai dati che raccoglieremo
e ai risultati”. Perché, se nessuno ha l’obiettivo di uniformare lo
sviluppo dei bambini e costringerli a imparare tutti le stesse cose
allo stesso tempo, hanno tenuto a sottolineare gli esperti presenti, è
giusto offrire a tutti i piccoli la possibilità di superare gli
ostacoli che incontrano nella crescita.
Educatrici e morot hanno accolto l’idea con entusiasmo: la scuola è
pronta a cominciare, sulla scia della tradizione di eccellenza
sanitaria che la contraddistingue, come ha ricordato il presidente
dell’Ame Giorgio Mortara “Questo istituto fu il primo a Milano a
dotarsi di un medico scolastico negli anni Cinquanta. Speriamo che
l’esperienza di questa Comunità possa fare da apripista per portare il
progetto anche nelle altre scuole ebraiche italiane”.
“La neuropsicomotricità è una disciplina giovane, ma ha rivoluzionato
il modo di guardare alla salute e alla malattia – ha chiarito Enzo
Grossi - Non c’è niente che consenta di capire di più di un bambino che
osservarlo mentre gioca”.
Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked
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Ticketless - Le finestre di
via Sacchi |
In prossimità delle stazioni
i treni passano molto vicino alle case, ma come sono le case degli
ebrei italiani? Michele Luzzati ha dedicato studi fondamentali sulla
casa dell’ebreo nei secoli antichi, mancano studi sulle case degli
ebrei italiani nel Novecento. I treni da Milano, arrivando a Porta
Nuova, scorrono vicinissimi agli edifici di via Sacchi. Partendo da
Torino alle prime ore dell’alba, o arrivando la sera tardi, si passa
sotto quelle finestre e non si può fare a meno di pensare che in una di
quelle case ha abitato Emanuele Artom, il partigiano trucidato dai
tedeschi nel 1944, autore di quei diari che sono fra le cose più belle
che siano state scritte in Italia sulla questione ebraica. Con ogni
probabilità quelle finestre si trovano nel salone (adibito anche a
studio di Emilio Artom, il papà di Emanuele ed Ennio). Ha ancora oggi
il parquet dell'epoca, mi assicura chi oggi abita quella casa. E’ un
giovanissimo scrittore torinese, che ha deciso di scrivere un romanzo
sulla vita di Emanuele Artom (ma anche su quella casa di via Sacchi).
Quando mi avvicino a Porta Nuova il mio pensiero va ogni volta a questa
foto. Colpisce la tenuta elegantissima di Emanuele: giubba da
marinaretto e grosso orologio al polso, commenta in una mail il giovane
scrittore quando gli faccio vedere questa fotografia. Sono molto
ansioso di leggere il romanzo che sta scrivendo. Mi è capitato più
volte di discorrere a vanvera sui cosiddetti “luoghi della memoria”.
Dovremmo sempre chiederci che cosa realmente voglia dire “abitare” un
luogo della memoria.
Alberto Cavaglion
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Quando vince la democrazia |
A conclusione della lunga
campagna presidenziale statunitense, credo che sia doveroso,
innanzitutto, rivolgere un plauso all’efficienza del sistema
istituzionale americano, che, a distanza di quasi due secoli e mezzo,
dimostra ancora invidiabili doti di solidità e funzionalità, e una non
comune capacità di sollecitare, su larga scala, passione civile e
partecipazione democratica. Per la natura stessa del sistema elettorale
americano, fortemente caratterizzato in senso personalistico e
bipolare, è inevitabile che la competizione sia seguita, tanto negli
Stati Uniti quanto nel resto del mondo, soprattutto nella forma di un
esplicito ‘tifo’ a favore o contro l’uno o l’altro dei candidati. Anche
coloro, fra i cittadini americani, che hanno preferito non recarsi a
votare, hanno comunque avuto, tra i due competitori, una chiara
preferenza, o una prevalente antipatia. Ma la vera vincitrice, in
queste elezioni, come in tutte le altre precedenti, è stata la
democrazia americana, che esige che il potere sia periodicamente
sottoposto a una stringente ed estenuante ‘prova del fuoco’, attraverso
la quale ogni gesto, ogni parola, ogni proposito di chi si candidi a
governare, nell’interesse comune, viene passato al microscopio da
un’opinione pubblica severa ed esigente, che non fa sconti a nessuno, e
non ama essere presa in giro.
Fra i vari temi che sono stati al centro della campagna, il sostegno a
Israele è apparso sostanzialmente confermato da parte di entrambi gli
schieramenti, e ciò rappresenta, indubbiamente, dal nostro punto di
vista, un elemento positivo. Certo, il modo in cui tale solidarietà è
stata riaffermata è stato piuttosto diverso tra Romney e Obama: più
marcato, deciso ed esplicito da parte del primo, più articolato,
mediato e prudente nelle parole del secondo. Perciò – pur perfettamente
consapevole del fatto che, in politica come nella vita, non sempre
l’amicizia più ‘esibita’ e ‘sbandierata’ è sicuramente la più forte e
sincera – mi sono augurato la vittoria del candidato repubblicano,
sulla base della speranza che la diffusa ostilità contro lo Stato
ebraico potesse essere, almeno in parte, arginata e contrastata – e non
solo a parole - , più efficacemente di quanto non sia stato fatto
finora. Ma ho trovato un po’ ingenerose alcune critiche rivolte, su
questo punto, a Obama, che è interprete di quella larga fascia di
elettorato americano che sostiene Israele, ma non considera la sua
difesa una priorità assoluta, non, comunque, una ‘mission’
completamente coincidente con la tutela degli interessi dell’America.
Certo, sarebbe piaciuto che il Presidente, in questi quattro anni,
avesse manifestato con più vigore la sua vicinanza al piccolo alleato,
ma bisogna prendere atto che molti americani, anche in ragione della
crisi economica, seguono oggi le vicende del Medio Oriente con un
crescente distacco, e non sempre considerano Israele una sorta di
prezioso ‘avamposto’ dell’Occidente. Può dispiacere, ma è così. Se si
fosse votato in Europa, ovviamente, Obama avrebbe trionfato col 90 %
dei voti. E ancor più in Italia, dove un ipotetico candidato
esplicitamente pro-Palestina avrebbe scaldato molti cuori. Avevamo
sperato che l’esito delle elezioni potesse un po’ attutire il pesante
senso di solitudine che grava su Israele. Non è andata così, ma non è
detto che una vittoria di Romney avrebbe determinato un capovolgimento
radicale della situazione. Non è un giorno triste per gli amici
d’Israele. Magari un giorno di preoccupazione, come tutti gli altri.
Comunque, se le campagne elettorali dividono, le elezioni uniscono, e
il popolo americano si ritroverà, oggi, unito sotto la guida del
‘Comandante in capo’ scelto dal popolo sovrano. E, secondo la migliore
tradizione americana, questi sarà chiamato a interpretare il complesso
dei sentimenti, degli umori, delle speranze e delle paure espressi
dalla generalità dei cittadini, e non solo da quella metà che gli ha
espresso fiducia con il proprio voto. E sarà chiamato, soprattutto, a
difendere – e non solo nel perimetro dei confini geografici degli Stati
Uniti - i valori fondanti della democrazia americana: tanto simili a
quelli della democrazia israeliana, come efficacemente attestato da
diverse eloquenti analogie tra la Dichiarazione d’Indipendenza degli
Sati Uniti e quella d’Israele. Confidiamo che il Presidente Obama
sappia farlo.
Francesco
Lucrezi, storico
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rassegna
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"Riprogrammare"
Tel Aviv |
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la rassegna |
Si può riprogrammare una città come Tel Aviv-Yafo che ha solo 100 anni?
Ne è convinto lo 'Shenkar College di Ingegneria, Design e Arte' di Tel
Aviv che ha chiamato quattro architetti italiani a "immaginare" questo
scenario futuro nel corso di un convegno in programma oggi nella città
israeliana. "Tel Aviv - ha detto Luca Zevi, architetto, urbanista ed
anche progettista del Museo della Shoah di Roma - è una metropoli
trionfante della fase del consumismo. Il suo trionfo è avvenuto e
avviene nel momento in cui le altre sono entrate in crisi. Ma è
possibile che la crisi arrivi anche qui, ed è quindi opportuno
ragionare sullo sviluppo passato e sulla prospettiva futura di questa
come di altre città contemporanee".
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Molti gli appuntamenti
dedicati alla Memoria che hanno luogo in questi giorni a Roma e in
altre città italiane.
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
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