Latkes
v. Hamantash, un dibattito lungo 66 anni |
Le festività ebraiche, è ben
noto, diventano spesso occasione per esplorare, perpetrare, gustare
sapori e tradizioni culinarie che affondano le radici nei secoli.
Hanukkah non fa certo eccezione, e la conseguenza naturale della
centralità dell’olio nella celebrazione della festa è stata un fiorire
di leccornie rigorosamente fritte, in versione dolce e salata: ci sono
le levivot, succulente frittelle, le sufganyot, bomboloni ripieni di
crema, le latkes, imperdibili cerchi di patate grattugiate e speziate.
Sicuramente una buona notizia per il palato, meno buona per la
bilancia. Ma che dire dei suoi risvolti per il cervello? Può mai una
tradizione gustosa e calorica assurgere a cibo per la mente, oltre che
per il corpo? Ebbene, da 66 anni, la risposta è sì. Almeno nel mondo
anglosassone, e in particolare negli Stati Uniti.
Era il 1946, quando, alla prestigiosa Università di Chicago, si celebrò
per la prima volta il dibattito Latkes v. Hamantash (i cappelli di
Haman, tipici biscotti triangolari che si consumano a Purim, più noti
in Italia come orecchie di Haman). Un dibattito oggi già diffuso in
decine di università in America, incluse Harvard, MIT e Princeton.
Il dibattito è un’attività extrascolastica molto in voga nelle scuole
americane. Includere nel curriculum la partecipazione a un Debate Club
è un punto a favore per dimostrare la propria capacità oratoria,
l’attitudine alla leadership, la flessibilità mentale. Il Latkes v.
Hamantash Debate fu ideato dalla Hillel Foundation, e sponsorizzato da
rav Maurice Pekarsky in un’epoca in cui l’appartenenza all’ebraismo era
considerata qualcosa da non pubblicizzare, come spiega Ruth Fredman
Cernea, curatrice del libro The Great Latke-Hamantash Debate, che
raccoglie le perorazioni proferite nel corso dei decenni a favore di
frittelle di patate e biscotti “La vita accademica scoraggiava il
mettere in mostra pubblicamente l’identità ebraica. L’evento offriva ai
professori una rara occasione di rivelare la propria anima ebraica
nascosta e di iniettare un po’ di umorismo nella serietà della vita
universitaria”.
Ma attenzione a ritenere il dibattito una presa in giro. Le orazioni
rispondono alle più importanti regole della logica, utilizzano un
linguaggio elevato, citano filosofi e autori.
“Qui ci occupiamo della proposizione che non soltanto le latkes
esistono, ma cheesse debbano esistere, e che non potrebbero non essere
altro che latkes – spiegò per esempio nel 1976 Ted Cohen, oggi
professore di filosofia dell’Università di Chicago, nel paragrafo della
sua dissertazione intitolato La metafisica dell’essere: le latkes come
sostanza - Il nostro problema non è certo la prova di ciò.
Questa proposizione è incredibilmente semplice da provare. Tuttavia è
impossibile da affermare. Non esiste un modo di formulare la necessaria
esistenza delle latkes. Noi ci cimentiamo contro l’Idea della Ragione,
che non ha adeguata espressione verbale. Wittgenstein una volta
affrontò il problema e poi se ne allontanò, dicendo ‘Wovon man nicht
sprechen kann, daruber, muss man schweigen’. (Tractatus
Logico-Philosophicus, nel finale). Letteralmente ‘Se non c’è niente da
dire, siediti e gustati uno knish (uno snack ndr)”. Ma anche una
tradizione apprezzata e consolidata come il Latkes v. Hamantash non è
esente da suoi problemi: è di pochi giorni fa la notizia pubblicata dal
giornale Forward che il dibattito di Chicago, che si è sempre tenuto il
martedì prima del Giorno del Ringraziamento, è stato quest’anno
rimandato. All’origine della decisione dispute fra le associazioni
ebraiche nel campus per chi debba effettivamente organizzarlo.
Rossella
Tercatin - twitter@rtercatinmoked
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Hanukkah 5773 - Il
senso dei nostri doveri |
Un
problema di grande attualità che fa da sfondo agli eventi di Hanukkah è
la questione dell’identità. All’epoca dei Maccabei il mondo esterno
tentò di imporsi su di noi con la forza: i greci cercarono infatti di
costringerci ad accettare la cultura e la religione della maggioranza a
scapito della nostra. In questo impeto assimilatorio essi proibirono in
particolare l’osservanza di tre mitzvot giudicate fondamentali per la
nostra conservazione: il Rosh Chodesh (capo-mese), ovvero impedirono al
Sinedrio di proclamare il nuovo mese in base alle testimonianze sulla
luna nuova, il che ci avrebbe avrebbe in pratica privato di tutte le
feste; lo Shabbat, che non dipende dal calendario mensile e, nella
forma in cui noi ebrei lo osserviamo, ci preserva dall’assimilazione
(in realtà, assai più di quanto noi ebrei abbiamo mantenuto lo Shabbat
esso ha mantenuto noi!); la milah, che imprime nel nostro corpo in modo
indelebile il segno di appartenenza alla Comunità del Patto. Constata
il Ben Ish Chay di Baghdad che la durata di Hanukkah ci rammenta tutte
e tre queste mitzvot: essa comincia infatti il 25 kislev, dura otto
giorni come quelli della milah e comprende in ogni caso almeno uno
Shabbat e il Rosh Chòdesh Tevèt. A seguito di questa difficile
situazione il problema dell’identità non fu solo avvertito nei
confronti del mondo esterno ma anche all’interno del popolo ebraico,
che si divise in due partiti: i chassidim (pii), che decisero di
rimanere fedeli alla Torah e i mityawwenim (ellenizzanti), che furono
propensi a piegarsi ai costumi del nemico. Se è vero che in linea di
principio di fronte a una minaccia di morte è preferibile trasgredire
che lasciarsi uccidere, questa regola conosce due importanti eccezioni,
che non giustificano affatto l’atteggiamento degli ellenizzanti, sia
pure dinanzi al pericolo. Vi sono infatti tre divieti della Torah cui
non è lecito rinunciare neppure a rischio della propria vita, ovvero
l’omicidio, l’adulterio e l’idolatria. Ed era appunto l’accettazione
dell’idolatria che i greci pretendevano dagli ebrei. Di più, se
l’ingiunzione a trasgredire, pur riguardando altri divieti della Torah,
aveva il deliberato scopo di indurci a rinnegare la nostra fede, in
ogni caso diveniva preferibile il martirio alla trasgressione medesima,
quale che fosse. Il problema dei due partiti si è posto nuovamente in
epoca moderna, allorché apparentemente il mondo esterno non è più così
aggressivo nei nostri confronti, ma presenta molti aspetti che
contrastano con le tradizioni ebraiche. È possibile conciliare le due
cose, essere contemporaneamente ebrei e cittadini del mondo? E se sì,
come? Per prima cosa dobbiamo tener conto del significato della parola
identità. Secondo il vocabolario si intende con ciò il “rapporto di
un’entità con un’altra”, ovvero il “complesso di caratteri che
determinano la specificità di cose o individui distinguendoli da tutti
gli altri e rendendone possibile il riconoscimento” (Dizionario
Italiano Sabatini- Coletti, Giunti, Firenze, 1997, p. 1143). Vero è che
ciascuno di noi possiede più di una identità in funzione dell’ambiente
cui ci rapportiamo e ogni identità ci richiama a doveri differenti.
Sulla copertina dei nostri passaporti figurano due definizioni:
Repubblica italiana e Comunità europea. Ciò significa che siamo
contemporaneamente cittadini di due entità diverse. Non solo per
estensione territoriale, ma anche per doveri e responsabilità. Abbiamo
forse maggior familiarità con quanto ci viene richiesto in quanto
cittadini italiani che non come appartenenti alla Comunità europea,
forse proprio per la vastità di quest’ultima, o la sua istituzione
relativamente recente, o il fatto che si esprima in lingue diverse. Ma
ciò non toglie che anche a questi riguardi deteniamo una duplice
identità. Quanto a doppia identità, noi ebrei siamo stati dei
precursori. Allorché Avraham nostro padre si presentò agli Ittiti per
acquistare una tomba per sua moglie Sarah, dichiarò di essere gher
we-toshàv, “straniero e residente” allo stesso tempo (Bereshit 23,4).
Sembra una contraddizione! Eppure no. Per certi versi noi ci sentiamo
pienamente cittadini del paese in cui viviamo. Che cosa fece Avraham
appena giunto nella terra di Canaan? Scavò pozzi nel deserto (Bereshit
26, 15 e 18). Da sempre nella storia le comunità ebraiche
contribuiscono al bene della società e al progresso del vivere civile
in tutti i campi del sapere e delle umane attività. Per noi ebrei
pagare le tasse allo Stato è un dovere imposto dalla nostra tradizione,
in base al principio dinà de-malkhutà dinà, “la Legge dello Stato è
Legge”. Se usufruiamo dei servizi che lo Stato fornisce ai suoi
cittadini, è giusto e doveroso che anche noi contribuiamo al loro
mantenimento e funzionamento. Ma contemporaneamente possediamo un’altra
identità con cui dobbiamo fare i conti: l’identità ebraica. Che cosa ci
richiede quest’ultima? Possiamo riassumere questi doveri in tre ordini.
Anzitutto le mitzvot. Abbiamo visto quanto grande è la mitzvah di
osservare lo Shabbat. Se lo Stato ci richiede qualcosa che comporta la
sua profanazione, per esempio ci impone di scrivere a scuola di
Shabbat, la Torah ha la precedenza ed è nostro dovere opporci. La cosa
migliore è comunque iscriverci alle scuole ebraiche. Solo se queste non
esistono nella città in cui viviamo propendiamo per quelle scuole
pubbliche che offrono il sabato libero, ma se neppure questo è
possibile, si deve sapere che oggi in Italia vi è una legge che ci
tutela e si può richiedere al rabbino una dichiarazione che ci dispensa
dallo scrivere di sabato a scuola. In secondo luogo, la fede religiosa.
Noi ebrei abbiamo una concezione della divinità che è diversa da quella
della maggioranza dei cittadini italiani. Come insegna rav
Soloveitchik, a nessuna religione si può domandare di venire a patti, o
modificare il proprio modo di credere. Per questo, ben venga il dialogo
fra le religioni, se questo può contribuire alla pace fra gli uomini.
Ma le fedi possono incontrarsi solo sui temi sociali, di promozione del
bene comune. Non sugli argomenti teologici, che caratterizzano
l’identità di ciascuna, e che sono troppo intimi per poter essere
dibattuti. Il terzo punto è costituito dalle aspettative. Noi ebrei
abbiamo delle attese per il futuro che non necessariamente coincidono
con quelle di altri. Noi ebrei crediamo nella futura venuta del Messia
e speriamo di fare ritorno alla Terra dei Padri. Per questo manteniamo
un legame sentimentale forte con quella terra e con i nostri fratelli
che già vi risiedono, partecipiamo agli eventi che vi accadono e che ci
toccano nel profondo senza che per questo venga meno la nostra fedeltà
al paese in cui abitiamo. Certo, vivere con due identità non è facile.
Al tempo dei Maccabei, gli ellenizzanti credettero di poter risolvere
questo dilemma sbarazzandosi di una di esse - o riducendola fortemente:
quella ebraica che, a giudizio del momento, costituiva un ostacolo al
loro pieno inserimento nel mondo esterno. Se noi siamo qui oggi a
scriverne è solo per merito di chi ha invece operato la scelta opposta,
di rimanere fedeli alla Torah. Tantissimi altri, nel corso dei secoli,
hanno creduto di seguire l’esempio degli ellenizzanti. Disonesti
anzitutto con se stessi, molti di questi sono semplicemente usciti di
testa: nessuno può pensare di rinunciare alla sua identità, quale che
sia. Per vivere con due identità bisogna avere grandi capacità di
mediazione fra situazioni diverse, certamente, e soprattutto di
organizzazione personale in modo da non dover rinunciare a nessuno dei
nostri doveri. Una grande scuola di vita!
Rav
Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche, dicembre 2012
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Qui Roma - David
Gerstein, ritorno in grande stile |
Ciclisti,
runner, il caotico traffico metropolitano ritratto in un caleidoscopio
di forme e di colori. Dopo quattro anni il pittore e scultore
israeliano in salsa pop David Gerstein torna a Roma con una
retrospettiva che tocca i punti salienti della sua carriera. Inaugurata
ieri sera all'Ermanno Tedeschi Gallery, la mostra – un omaggio a un
grande interprete dello scenario artistico internazionale celebrato un
po' ovunque, da San Francisco a Shangai – ha raccolto l'interesse di
numerosi visitatori. Tra gli ospiti l'ambasciatore d'Israele in Italia
Naor Gilon, il suo omologo presso la Santa Sede Zion Evrony e l'addetto
culturale Ofra Fahri. Ad allietare i palati i vini di Lebonton.
“Ho
una fortissima passione per questo paese” confidava Gerstein
commentando, con i presenti, le varie opere esposte e ricordando come
due anni fa, proprio di questi tempi, era stato ospite del Museo dei
Lumi di Casale Monferrato dove due Chanukkiot realizzate con le sue
sapienti mani – Una 'colomba della pace' e le 'Mani benedicenti del
rabbino sotto la parola Shalom' – costituiscono i punti di eccellenza
di un catalogo che si fa sempre più ricco e complesso.
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Qui Roma - Il bello e
il buono (a tavola) |
Costruire
ponti culturali tra Italia e Israele nel segno dell'enologia
d'eccellenza. Questa la sfida che Mosè Silvera ed Elio Galante
intendono proporre al pubblico romano con l'evento Il bello e il buono
che avrà luogo domenica prossima all'Hotel Sheraton di viale del
Pattinaggio a Roma. Un'iniziativa che si inserisce in un quadro di
crescente attenzione, tra i consumatori italiani, alle tematiche e ai
valori di cui si fa portatrice l'alimentazione kosher: salubrità,
genuinità, processo produttivo controllato scrupolosamente in ogni sua
fase. Lo ricordava lo stesso Silvera nel dossier Sapori pubblicato
sull'ultimo numero di Pagine Ebraiche: “Il polso e l’evoluzione globale
del mercato - scriveva nel suo intervento - porta a pensare che il vino
kasher segua le stesse orme di quello non kasher, quindi ormai fenomeno
di massa ed elemento comune abitualmente presente sulle nostre tavole,
sempre più diffuso a livello mondiale, ma con di fronte un consumatore
sempre più attento, istruito e consapevole, non più concentrato sul
basso prezzo, ma sul miglior rapporto prezzo/qualità”. L'evento si
aprirà alle 16.30 con la presentazione delle aziende e dei vini. A
seguire serata di degustazione (19-22.30).
Pre-registrazione obbligatoria con e-mail a eventi@supergal.it
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Due rabbini ortodossi,
tre opinioni ortodosse |
Quando
ho ricevuto l’invito a partecipare alla tavola rotonda del 25 novembre
organizzata da Toscana ebraica in occasione dei suoi 25 anni su
“Comunità ebraiche e rabbini” ho dato per scontato che avessero pensato
a me in quanto noi ebrei torinesi siamo noti in tutta Italia per le
nostre interminabili liti interne su questo tema. Ascoltando altri
interventi, e in particolare quello di Tobia Zevi, mi sono però resa
conto che in realtà la questione deve essere inquadrata in un contesto
più ampio (è ancora praticabile il modello italiano di Comunità
territoriali unitarie?), nell’ambito di un ebraismo europeo in cui
convivono Comunità e organizzazioni ortodosse, conservative, riformate,
con criteri diversi per determinare chi è ebreo: come ha raccontato
Zevi, i giovani dell’UGEI organizzando attività con partecipanti da
tutta Europa si sono trovati inevitabilmente a fare i conti con questa
realtà e ne hanno discusso nel recente congresso; a suo parere anche
gli adulti prima o poi non potranno fare a meno di affrontare il
problema, e i giovani si troveranno in qualche modo ad aver aperto la
strada. Di fronte a problemi così vasti, che potrebbero mettere in
discussione la struttura stessa dell’ebraismo italiano, le polemiche
torinesi a favore o contro il precedente o l’attuale Rabbino Capo
sembrano davvero poca cosa, visto che si tratta comunque di due rabbini
ortodossi. Eppure è un dato di fatto che da parte loro sono emerse
opinioni divergenti anche su temi molto rilevanti. Dunque è possibile
un dibattito vero, con la possibilità di operare scelte tutt’altro che
scontate tra opzioni diverse, anche restando sotto l’ombrello unitario
dell’ortodossia, e quindi forse il modello italiano non sarà
necessariamente destinato a scomparire, purché sia in grado di
valorizzare tutte le voci al proprio interno. Inoltre è troppo semplice
ridurre ogni questione alla dialettica tra ortodossia e non ortodossia:
il mondo ortodosso è molto più ricco e variegato di quanto a volte
creda sia chi lo attacca sia chi lo difende.
Anna
Segre, insegnante
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notizieflash |
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rassegna
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Onu
- Il Pdl contesta la scelta
di Palazzo Chigi con 100 firme |
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Leggi
la rassegna |
“È con profonda soddisfazione che vedo riconosciuta nelle 100 firme dei
deputati del Pdl valore politico di un’opposizione decisa contro la
scelta di Palazzo Chigi di votare il 29 novembre all’Onu per la
dichiarazione unilaterale di uno Stato palestinese osservatore”. Queste
le parole con cui Fiamma Nirenstein, vicepresidente commissione Affari
Esteri della Camera, ha accolto il documento di protesta contro il
sostegno italiano all'istanza di Abu Mazen alle Nazioni Unite firmato
negli ultimi giorni da cento parlamentari di centro-destra.
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Lo Stato italiano si è schierato a fianco della Germania sulla
questione
degli indennizzi ai deportati dall’Italia nel periodo tra il 1943 e il
1945, con la presidenza del Consiglio che ha chiesto alla Corte di
Cassazione di non accogliere il ricorso di 173 internati (o eredi) che
chiedono alla Germania un milione di euro ciascuno.
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
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indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
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