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7 dicembre 2012 - 23 Kislev 5773
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alef/tav
rav arbib
Alfonso
Arbib,
rabbino capo
di Milano
 

 

Con questa parashà comincia una concatenazione di avvenimenti che porterà alla discesa della famiglia di Ya'akòv in Egitto e alla successiva schiavitù del popolo ebraico. Tutto comincia dal contrasto fra Yosèf e i suoi fratelli. La Torà, all'inizio della parashà, ci dà una notizia apparentemente banale, l'età di Yosèf. Yosèf aveva 17 anni. Forse quello che ci vuole insegnare la Torà è che un ragazzo di 17 anni può determinare gli eventi storici. Noi siamo abituati a parlare spesso di giovani, ne parliamo sempre al futuro. I giovani sono il nostro futuro, dobbiamo lavorare per il futuro della della comunità. Forse è il caso di cominciare a parlarne al presente, forse è il caso di capire che i giovani possano determinare la nostra storia qui e ora.

Laura
Quercioli Mincer,
 slavista



laura quercioli mincer
Pochi giorni fa il Meretz pubblicava una foto di Netanyahu con la seguente scritta: "Bibi, il mondo non è contro di noi, è contro di te". Che si sia d'accordo o meno, certamente una maniera arguta per ribaltare lo stereotipo dell'onnipresente antisemitismo/antisionismo, un "witz" ebraico alla buona vecchia maniera, che non farebbe vergogna a uno Sholem Aleykhem dei nostri giorni.

davar
Latkes v. Hamantash, un dibattito lungo 66 anni
Le festività ebraiche, è ben noto, diventano spesso occasione per esplorare, perpetrare, gustare sapori e tradizioni culinarie che affondano le radici nei secoli. Hanukkah non fa certo eccezione, e la conseguenza naturale della centralità dell’olio nella celebrazione della festa è stata un fiorire di leccornie rigorosamente fritte, in versione dolce e salata: ci sono le levivot, succulente frittelle, le sufganyot, bomboloni ripieni di crema, le latkes, imperdibili cerchi di patate grattugiate e speziate. Sicuramente una buona notizia per il palato, meno buona per la bilancia. Ma che dire dei suoi risvolti per il cervello? Può mai una tradizione gustosa e calorica assurgere a cibo per la mente, oltre che per il corpo? Ebbene, da 66 anni, la risposta è sì. Almeno nel mondo anglosassone, e in particolare negli Stati Uniti.
Era il 1946, quando, alla prestigiosa Università di Chicago, si celebrò per la prima volta il dibattito Latkes v. Hamantash (i cappelli di Haman, tipici biscotti triangolari che si consumano a Purim, più noti in Italia come orecchie di Haman). Un dibattito oggi già diffuso in decine di università in America, incluse Harvard, MIT e Princeton.
Il dibattito è un’attività extrascolastica molto in voga nelle scuole americane. Includere nel curriculum la partecipazione a un Debate Club è un punto a favore per dimostrare la propria capacità oratoria, l’attitudine alla leadership, la flessibilità mentale. Il Latkes v. Hamantash Debate fu ideato dalla Hillel Foundation, e sponsorizzato da rav Maurice Pekarsky in un’epoca in cui l’appartenenza all’ebraismo era considerata qualcosa da non pubblicizzare, come spiega Ruth Fredman Cernea, curatrice del libro The Great Latke-Hamantash Debate, che raccoglie le perorazioni proferite nel corso dei decenni a favore di frittelle di patate e biscotti “La vita accademica scoraggiava il mettere in mostra pubblicamente l’identità ebraica. L’evento offriva ai professori una rara occasione di rivelare la propria anima ebraica nascosta e di iniettare un po’ di umorismo nella serietà della vita universitaria”.
Ma attenzione a ritenere il dibattito una presa in giro. Le orazioni rispondono alle più importanti regole della logica, utilizzano un linguaggio elevato, citano filosofi e autori.
“Qui ci occupiamo della proposizione che non soltanto le latkes esistono, ma cheesse debbano esistere, e che non potrebbero non essere altro che latkes – spiegò per esempio nel 1976 Ted Cohen, oggi professore di filosofia dell’Università di Chicago, nel paragrafo della sua dissertazione intitolato La metafisica dell’essere: le latkes come sostanza -  Il nostro problema non è certo la prova di ciò. Questa proposizione è incredibilmente semplice da provare. Tuttavia è impossibile da affermare. Non esiste un modo di formulare la necessaria esistenza delle latkes. Noi ci cimentiamo contro l’Idea della Ragione, che non ha adeguata espressione verbale. Wittgenstein una volta affrontò il problema e poi se ne allontanò, dicendo ‘Wovon man nicht sprechen kann, daruber, muss man schweigen’. (Tractatus Logico-Philosophicus, nel finale). Letteralmente ‘Se non c’è niente da dire, siediti e gustati uno knish (uno snack ndr)”. Ma anche una tradizione apprezzata e consolidata come il Latkes v. Hamantash non è esente da suoi problemi: è di pochi giorni fa la notizia pubblicata dal giornale Forward che il dibattito di Chicago, che si è sempre tenuto il martedì prima del Giorno del Ringraziamento, è stato quest’anno rimandato. All’origine della decisione dispute fra le associazioni ebraiche nel campus per chi debba effettivamente organizzarlo.

Rossella Tercatin - twitter@rtercatinmoked

Hanukkah 5773 - Il senso dei nostri doveri
Un problema di grande attualità che fa da sfondo agli eventi di Hanukkah è la questione dell’identità. All’epoca dei Maccabei il mondo esterno tentò di imporsi su di noi con la forza: i greci cercarono infatti di costringerci ad accettare la cultura e la religione della maggioranza a scapito della nostra. In questo impeto assimilatorio essi proibirono in particolare l’osservanza di tre mitzvot giudicate fondamentali per la nostra conservazione: il Rosh Chodesh (capo-mese), ovvero impedirono al Sinedrio di proclamare il nuovo mese in base alle testimonianze sulla luna nuova, il che ci avrebbe avrebbe in pratica privato di tutte le feste; lo Shabbat, che non dipende dal calendario mensile e, nella forma in cui noi ebrei lo osserviamo, ci preserva dall’assimilazione (in realtà, assai più di quanto noi ebrei abbiamo mantenuto lo Shabbat esso ha mantenuto noi!); la milah, che imprime nel nostro corpo in modo indelebile il segno di appartenenza alla Comunità del Patto. Constata il Ben Ish Chay di Baghdad che la durata di Hanukkah ci rammenta tutte e tre queste mitzvot: essa comincia infatti il 25 kislev, dura otto giorni come quelli della milah e comprende in ogni caso almeno uno Shabbat e il Rosh Chòdesh Tevèt. A seguito di questa difficile situazione il problema dell’identità non fu solo avvertito nei confronti del mondo esterno ma anche all’interno del popolo ebraico, che si divise in due partiti: i chassidim (pii), che decisero di rimanere fedeli alla Torah e i mityawwenim (ellenizzanti), che furono propensi a piegarsi ai costumi del nemico. Se è vero che in linea di principio di fronte a una minaccia di morte è preferibile trasgredire che lasciarsi uccidere, questa regola conosce due importanti eccezioni, che non giustificano affatto l’atteggiamento degli ellenizzanti, sia pure dinanzi al pericolo. Vi sono infatti tre divieti della Torah cui non è lecito rinunciare neppure a rischio della propria vita, ovvero l’omicidio, l’adulterio e l’idolatria. Ed era appunto l’accettazione dell’idolatria che i greci pretendevano dagli ebrei. Di più, se l’ingiunzione a trasgredire, pur riguardando altri divieti della Torah, aveva il deliberato scopo di indurci a rinnegare la nostra fede, in ogni caso diveniva preferibile il martirio alla trasgressione medesima, quale che fosse. Il problema dei due partiti si è posto nuovamente in epoca moderna, allorché apparentemente il mondo esterno non è più così aggressivo nei nostri confronti, ma presenta molti aspetti che contrastano con le tradizioni ebraiche. È possibile conciliare le due cose, essere contemporaneamente ebrei e cittadini del mondo? E se sì, come? Per prima cosa dobbiamo tener conto del significato della parola identità. Secondo il vocabolario si intende con ciò il “rapporto di un’entità con un’altra”, ovvero il “complesso di caratteri che determinano la specificità di cose o individui distinguendoli da tutti gli altri e rendendone possibile il riconoscimento” (Dizionario Italiano Sabatini- Coletti, Giunti, Firenze, 1997, p. 1143). Vero è che ciascuno di noi possiede più di una identità in funzione dell’ambiente cui ci rapportiamo e ogni identità ci richiama a doveri differenti. Sulla copertina dei nostri passaporti figurano due definizioni: Repubblica italiana e Comunità europea. Ciò significa che siamo contemporaneamente cittadini di due entità diverse. Non solo per estensione territoriale, ma anche per doveri e responsabilità. Abbiamo forse maggior familiarità con quanto ci viene richiesto in quanto cittadini italiani che non come appartenenti alla Comunità europea, forse proprio per la vastità di quest’ultima, o la sua istituzione relativamente recente, o il fatto che si esprima in lingue diverse. Ma ciò non toglie che anche a questi riguardi deteniamo una duplice identità. Quanto a doppia identità, noi ebrei siamo stati dei precursori. Allorché Avraham nostro padre si presentò agli Ittiti per acquistare una tomba per sua moglie Sarah, dichiarò di essere gher we-toshàv, “straniero e residente” allo stesso tempo (Bereshit 23,4). Sembra una contraddizione! Eppure no. Per certi versi noi ci sentiamo pienamente cittadini del paese in cui viviamo. Che cosa fece Avraham appena giunto nella terra di Canaan? Scavò pozzi nel deserto (Bereshit 26, 15 e 18). Da sempre nella storia le comunità ebraiche contribuiscono al bene della società e al progresso del vivere civile in tutti i campi del sapere e delle umane attività. Per noi ebrei pagare le tasse allo Stato è un dovere imposto dalla nostra tradizione, in base al principio dinà de-malkhutà dinà, “la Legge dello Stato è Legge”. Se usufruiamo dei servizi che lo Stato fornisce ai suoi cittadini, è giusto e doveroso che anche noi contribuiamo al loro mantenimento e funzionamento. Ma contemporaneamente possediamo un’altra identità con cui dobbiamo fare i conti: l’identità ebraica. Che cosa ci richiede quest’ultima? Possiamo riassumere questi doveri in tre ordini. Anzitutto le mitzvot. Abbiamo visto quanto grande è la mitzvah di osservare lo Shabbat. Se lo Stato ci richiede qualcosa che comporta la sua profanazione, per esempio ci impone di scrivere a scuola di Shabbat, la Torah ha la precedenza ed è nostro dovere opporci. La cosa migliore è comunque iscriverci alle scuole ebraiche. Solo se queste non esistono nella città in cui viviamo propendiamo per quelle scuole pubbliche che offrono il sabato libero, ma se neppure questo è possibile, si deve sapere che oggi in Italia vi è una legge che ci tutela e si può richiedere al rabbino una dichiarazione che ci dispensa dallo scrivere di sabato a scuola. In secondo luogo, la fede religiosa. Noi ebrei abbiamo una concezione della divinità che è diversa da quella della maggioranza dei cittadini italiani. Come insegna rav Soloveitchik, a nessuna religione si può domandare di venire a patti, o modificare il proprio modo di credere. Per questo, ben venga il dialogo fra le religioni, se questo può contribuire alla pace fra gli uomini. Ma le fedi possono incontrarsi solo sui temi sociali, di promozione del bene comune. Non sugli argomenti teologici, che caratterizzano l’identità di ciascuna, e che sono troppo intimi per poter essere dibattuti. Il terzo punto è costituito dalle aspettative. Noi ebrei abbiamo delle attese per il futuro che non necessariamente coincidono con quelle di altri. Noi ebrei crediamo nella futura venuta del Messia e speriamo di fare ritorno alla Terra dei Padri. Per questo manteniamo un legame sentimentale forte con quella terra e con i nostri fratelli che già vi risiedono, partecipiamo agli eventi che vi accadono e che ci toccano nel profondo senza che per questo venga meno la nostra fedeltà al paese in cui abitiamo. Certo, vivere con due identità non è facile. Al tempo dei Maccabei, gli ellenizzanti credettero di poter risolvere questo dilemma sbarazzandosi di una di esse - o riducendola fortemente: quella ebraica che, a giudizio del momento, costituiva un ostacolo al loro pieno inserimento nel mondo esterno. Se noi siamo qui oggi a scriverne è solo per merito di chi ha invece operato la scelta opposta, di rimanere fedeli alla Torah. Tantissimi altri, nel corso dei secoli, hanno creduto di seguire l’esempio degli ellenizzanti. Disonesti anzitutto con se stessi, molti di questi sono semplicemente usciti di testa: nessuno può pensare di rinunciare alla sua identità, quale che sia. Per vivere con due identità bisogna avere grandi capacità di mediazione fra situazioni diverse, certamente, e soprattutto di organizzazione personale in modo da non dover rinunciare a nessuno dei nostri doveri. Una grande scuola di vita!

Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche, dicembre 2012

Qui Roma - David Gerstein, ritorno in grande stile
Ciclisti, runner, il caotico traffico metropolitano ritratto in un caleidoscopio di forme e di colori. Dopo quattro anni il pittore e scultore israeliano in salsa pop David Gerstein torna a Roma con una retrospettiva che tocca i punti salienti della sua carriera. Inaugurata ieri sera all'Ermanno Tedeschi Gallery, la mostra – un omaggio a un grande interprete dello scenario artistico internazionale celebrato un po' ovunque, da San Francisco a Shangai – ha raccolto l'interesse di numerosi visitatori. Tra gli ospiti l'ambasciatore d'Israele in Italia Naor Gilon, il suo omologo presso la Santa Sede Zion Evrony e l'addetto culturale Ofra Fahri. Ad allietare i palati i vini di Lebonton.
“Ho una fortissima passione per questo paese” confidava Gerstein commentando, con i presenti, le varie opere esposte e ricordando come due anni fa, proprio di questi tempi, era stato ospite del Museo dei Lumi di Casale Monferrato dove due Chanukkiot realizzate con le sue sapienti mani – Una 'colomba della pace' e le 'Mani benedicenti del rabbino sotto la parola Shalom' – costituiscono i punti di eccellenza di un catalogo che si fa sempre più ricco e complesso.

Qui Roma - Il bello e il buono (a tavola)
Costruire ponti culturali tra Italia e Israele nel segno dell'enologia d'eccellenza. Questa la sfida che Mosè Silvera ed Elio Galante intendono proporre al pubblico romano con l'evento Il bello e il buono che avrà luogo domenica prossima all'Hotel Sheraton di viale del Pattinaggio a Roma. Un'iniziativa che si inserisce in un quadro di crescente attenzione, tra i consumatori italiani, alle tematiche e ai valori di cui si fa portatrice l'alimentazione kosher: salubrità, genuinità, processo produttivo controllato scrupolosamente in ogni sua fase. Lo ricordava lo stesso Silvera nel dossier Sapori pubblicato sull'ultimo numero di Pagine Ebraiche: “Il polso e l’evoluzione globale del mercato - scriveva nel suo intervento - porta a pensare che il vino kasher segua le stesse orme di quello non kasher, quindi ormai fenomeno di massa ed elemento comune abitualmente presente sulle nostre tavole, sempre più diffuso a livello mondiale, ma con di fronte un consumatore sempre più attento, istruito e consapevole, non più concentrato sul basso prezzo, ma sul miglior rapporto prezzo/qualità”. L'evento si aprirà alle 16.30 con la presentazione delle aziende e dei vini. A seguire serata di degustazione (19-22.30).

Pre-registrazione obbligatoria con e-mail a eventi@supergal.it

pilpul
Due rabbini ortodossi, tre opinioni ortodosse
Anna SegreQuando ho ricevuto l’invito a partecipare alla tavola rotonda del 25 novembre organizzata da Toscana ebraica in occasione dei suoi 25 anni su “Comunità ebraiche e rabbini” ho dato per scontato che avessero pensato a me in quanto noi ebrei torinesi siamo noti in tutta Italia per le nostre interminabili liti interne su questo tema. Ascoltando altri interventi, e in particolare quello di Tobia Zevi, mi sono però resa conto che in realtà la questione deve essere inquadrata in un contesto più ampio (è ancora praticabile il modello italiano di Comunità territoriali unitarie?), nell’ambito di un ebraismo europeo in cui convivono Comunità e organizzazioni ortodosse, conservative, riformate, con criteri diversi per determinare chi è ebreo: come ha raccontato Zevi, i giovani dell’UGEI organizzando attività con partecipanti da tutta Europa si sono trovati inevitabilmente a fare i conti con questa realtà e ne hanno discusso nel recente congresso; a suo parere anche gli adulti prima o poi non potranno fare a meno di affrontare il problema, e i giovani si troveranno in qualche modo ad aver aperto la strada. Di fronte a problemi così vasti, che potrebbero mettere in discussione la struttura stessa dell’ebraismo italiano, le polemiche torinesi a favore o contro il precedente o l’attuale Rabbino Capo sembrano davvero poca cosa, visto che si tratta comunque di due rabbini ortodossi. Eppure è un dato di fatto che da parte loro sono emerse opinioni divergenti anche su temi molto rilevanti. Dunque è possibile un dibattito vero, con la possibilità di operare scelte tutt’altro che scontate tra opzioni diverse, anche restando sotto l’ombrello unitario dell’ortodossia, e quindi forse il modello italiano non sarà necessariamente destinato a scomparire, purché sia in grado di valorizzare tutte le voci al proprio interno. Inoltre è troppo semplice ridurre ogni questione alla dialettica tra ortodossia e non ortodossia: il mondo ortodosso è molto più ricco e variegato di quanto a volte creda sia chi lo attacca sia chi lo difende.

Anna Segre, insegnante

notizieflash   rassegna stampa
Onu - Il Pdl contesta la scelta
di Palazzo Chigi con 100 firme
  Leggi la rassegna

“È con profonda soddisfazione che vedo riconosciuta nelle 100 firme dei deputati del Pdl valore politico di un’opposizione decisa contro la scelta di Palazzo Chigi di votare il 29 novembre all’Onu per la dichiarazione unilaterale di uno Stato palestinese osservatore”. Queste le parole con cui Fiamma Nirenstein, vicepresidente commissione Affari Esteri della Camera, ha accolto il documento di protesta contro il sostegno italiano all'istanza di Abu Mazen alle Nazioni Unite firmato negli ultimi giorni da cento parlamentari di centro-destra.





 

Lo Stato italiano si è schierato a fianco della Germania sulla questione degli indennizzi ai deportati dall’Italia nel periodo tra il 1943 e il 1945, con la presidenza del Consiglio che ha chiesto alla Corte di Cassazione di non accogliere il ricorso di 173 internati (o eredi) che chiedono alla Germania un milione di euro ciascuno.



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