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  9 dicembre 2012 - 25 Kislev 5773
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alef/tav

Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino


Se  vogliamo raccontare i nostri sogni, e forse non sempre questo è necessario, è meglio farlo a chi ci vuole bene. Giuseppe lo fa con i suoi fratelli, che  bene in quel momento non gli volevano: i suoi sogni si realizzano in effetti secondo le parole dei fratelli stessi ("regnerai su di noi") perché i sogni "vanno dietro alla bocca (che li interpreta)". Ma la realizzazione è lontana nel tempo: passano ventidue anni, e molte peripezie, prima che Giuseppe veda in realtà i suo fratelli inginocchiati di fronte a lui.

David Bidussa, storico sociale
delle idee
   

Cresce la domanda e l’offerta di sapere nel mondo ebraico. E’ un  buon segno. A me sembra che siano da adottare diversi angoli prospettici. Da una parte sta una dimensione  del sapere o del fare, e dunque delle regole, dall’altra una “del vivere” dove conta ciò che gli ebrei hanno fatto nella storia concreta. Ovvero ciò che sono stati nello “scorrere del tempo”. In questo secondo caso ciò che occorre mettere a tema è l’esperienza vissuta che non è solo, né spesso prevalentemente, traduzione pratica di regole, ma, appunto, “storia dell’agire nel tempo”. Il che significa che accanto alla dimensione ideale o culturale noi dobbiamo essere in grado di porre l’ebreo reale. Più precisamente un ebreo nella storia. Da questo punto di vista Yosef Hayim Yerushalmi avrebbe molto da dirci. Non penso principalmente a “Zakhor”, ma alle sue riflessioni sul marranesimo, alle sue pagine sul rapporto tra diaspore e poteri locali, ovvero la condizione di pensarsi e agire come “servi dei re e non come servi dei servi”, per riprendere il titolo di una sua “lectio magistralis” tenuta a Monaco di Baviera nel 1993.

davar
Hanukkah - Il miracolo negato
La recente scomparsa del dottor Marco Spizzichino, che prima di esercitare per molti anni a tempo pieno la professione medica era stato insegnante di materie ebraiche alle scuole elementari di Roma, ha evocato, proprio alla vigilia di Hanukkah, l'immagine del morè Spizzichino che dirigeva il coro dei bambini nella tradizionale festa delle scuole che si svolgeva al Tempio Maggiore (e ancora vi si svolge). Ricordo i suoi gesti decisi e ritmati che guidavano i bambini a cantare Mi yemallel gvurot Israel... Uno dei tanti canti per Hanukkah, che ancora oggi circola nelle nostre scuole e nelle riunioni pubbliche festive. Sollecitato da questo ricordo, ho provato a cercare qualche notizia su questo canto e mi si è aperto davanti un mondo intero. Che va riscoperto e spiegato perché è una chiave di comprensione (o di incomprensione) dei significati contraddittori della festa di Hanukkah.
Ogni canto è fatto di un testo e di una melodia. Il testo del Mi yemallel è stato scritto, verso gli anni Trenta, da un personaggio abbastanza noto, Menashe Rabina. Nato nel 1899 in Ucraina, fece studi laici, tradizionali in yeshivòth e soprattutto musicali; dal 1924 si insediò a Tel Aviv; morì nel 1968. Musicista e musicologo impegnato, dette un grande impulso all'educazione musicale in Erez Israel e alla crescita delle sue musiche, che contribuirono a creare l'atmosfera del paese. Fu autore di testi e melodie famose. Nel caso del Mi yemallel, del solo testo, mentre la musica è “popolare”, sembra di origine inglese. Uno strano miscuglio, che diventa ancora più enigmatico quando si riflette al significato dei pochi versi della canzone.
In italiano: “Chi potrà dire le prodezze di Israele, chi potrà enumerarle?/ Ecco in ogni generazione sorgera l'eroe redentore del popolo./ Ascolta: in quei giorni, in questo tempo/ il Maccabeo salva e riscatta/ E nei nostri giorni tutto Israele/ Si unirà, sorgerà e sarà redento”.
A parte la retorica, comune in molti inni del genere, l'esame del testo, che cita espressioni antiche e tradizionali, a un esame appena più approfondito è rivelatore di una rivoluzione. Perché l'espressione iniziale, Mi yemallel gvurot, è presa dalla Bibbia, dal Salmo 106:2, solo che nel Salmo le prodezze sono quelle del Signore, mentre qui sono quelle di Israele. Nello spirito tradizionale il “redentore” non sorge da solo, ma viene fatto sorgere, e chi “salva e riscatta” è il Signore stesso, talora per mezzo degli uomini, ma mai gli uomini per conto proprio. Dunque la poesia rivela uno spirito a-religioso se non antireligioso, in cui si sostituisce, all'opera redentrice divina che guida la storia, l'autonoma rivolta umana. L’autore lo fa usando il vocabolario della tradizione, persino quello liturgico (“ascolta”; “in quei giorni in questo tempo”) che viene però stravolto. E' un'operazione tipica di un certo periodo e di una certa anima del movimento sionistico, che predicava il risorgimento del popolo ebraico in contrasto con i gruppi più religiosi che vedevano in questo un sovvertimento della storia e del destino diasporico segnato dall'alto. In terra d'Israele questo contrasto veniva perfettamente notato, e quindi accettato polemicamente da ampie fasce sioniste e rigettato dagli antisionisti o dai sionisti religiosi. Stupisce un po' la diffusione di questo canto nella Roma ebraica, che non sappiamo quando sia arrivato, probabilmente dopo la guerra, e passi per i sionisti non religiosi, ma non si capisce molto l'uso comune e accettato dentro al Tempio Maggiore, dove molti l'hanno sentito cantare e anche imparato.
Se si pensa al repertorio comune dei canti di Hanukkah, la contraddizione è notevole. L'uso dei sefarditi e degli italiani si limitava al canto del Salmo 30, Mizmor shir chanukkat habayt leDavid. Gli ashkenaziti invece hanno dal medioevo il famoso Ma’oz Tzur, che è un inno religioso, in quanto è preghiera di redenzione rivolta alla “Fortezza, roccia della mia salvezza”; un canto che riassume le storie di salvezza, che tra le righe contiene allusioni piuttosto dure alla fine dei nemici, e che conserva un certo carattere militaresco sottolineato dall'antica marcetta tedesca che tutti conoscono (ne esiste anche una variante italiana forse un po' più dolce).
Nel secolo scorso i canti si sono moltiplicati, con testi nuovi e melodie talvolta nuove, talvolta riciclate (fino allo Judas Maccabaeus di Handel). Mi yemallel nasce nell’atmosfera sionista rivoluzionaria, in cui tutto è rivolto alla capacità e alla volontà del popolo ebraico di scriversi da solo il proprio destino. E non è l’unico canto che rivisita le concezioni tradizionali. In Yemè haChanukkà il ritornello parla dei “miracoli e prodigi che hanno realizzato i Maccabei”, per intendersi, i Maccabei da soli hanno fatto il miracolo. In altri testi si nega direttamente il miracolo dell’olio. Prima di Yom ha’atzmaut, il giorno dell’Indipendenza, la festa più adatta per segnare lo spirito di rivolta ebraica era proprio quella di Hanukkah, di cui veniva esaltato il ricordo di un pugno di uomini che si ribellarono all'oppressione e crearono uno stato indipendente. Che poi i ribelli fossero sacerdoti, e lo facessero non tanto per l'indipendenza quanto per la libertà religiosa e in opposizione all'assimilazione all'ellenismo, contava meno nella rielaborazione mitica proto-sionista.
Ma a ben vedere questa opposizione di significati accompagna Hanukkah fin dalla sua istituzione. Il tema della luce e del miracolo, sottolineato dai maestri, è in chiara opposizione allo spirito rivoluzionario e militaresco della festa. I Farisei erano stati vittime della casa regnante degli Asmonei, gli eredi dei sacerdoti vittoriosi di Hanukkah, che erano diventati re. I Farisei consideravano questa regalità un'usurpazione (il re legittimo di Israele può essere solo un discendente da David), e pagarono a duro prezzo questa loro opposizione. Se Hanukkah doveva essere la celebrazione dell'insediamento di una monarchia illegittima, non c'era motivo di celebrarla. Ma Hanukkah era anche la vittoria contro l'ellenismo, la restaurazione del Tempio; questa era l'anima di cui i Rabbini non potevano fare a meno. E da qui la centralità della storia del miracolo e la sua importanza centrale nella celebrazione.
Hanukkah riassume in questo modo una delle più importanti contraddizioni dell'ebraismo, tra anima laica e libertaria e tra anima religiosa permeata alla fede. Non è che la contraddizione sia così semplicistica. Esistono cento modi di viverla e ricombinare le cose insieme. Ma il risorgimento ebraico ha esaltato questa contraddizione. Oggi che viviamo nell'era definita “post-sionista” alcune di queste durezze si sono un poco attenuate. Ma solo poco. Tra chi vede la storia universale e quella ebraica in particolare come un prodotto umano e chi la vede invece come provvidenziale, tra chi privilegia un'identità ebraica statale e chi la vuole antistatale (se lo stato è quello ebraico non religioso), tra chi teorizza il diritto all'autodifesa militare (e all'attacco quando necessario) e chi considera la violenza sostanzialmente estranea all'anima ebraica, il dibattito, e spesso la polemica feroce, è estremamente attuale.
E tutto questo si nasconde dietro le fiammelle di questa festa, che continuiamo ad accendere in segno unificante, anche se al segno attribuiamo tanti significati differenti. Tra i messaggi nascosti nella storia del miracolo dell’olio c’è quello della permanenza nel tempo (x 8) dell’energia, che si verifica in un nucleo di “duri e puri”, contro ogni regola razionale e naturale, energia che consente a tutti di sopravvivere anche nei momenti più drammatici. Erano così energici anche i sionisti che ricostruivano la terra e lo stato, anche se molti di loro, con la loro ideologia, negavano proprio il simbolo che li rappresentava.

Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

Hanukkah - Il tempo del nostro essere ebrei
Il 25 di Kislev del 165 a.e.v., è il giorno in cui si concluse la lotta per ristabilire la libertà e l’indipendenza in terra d’Israele. I Seleucidi siriani furono sconfitti dai Maccabei e il Tempio, profanato con statue pagane, fu riconsacrato. Per questo, i maestri stabilirono otto giorni di festa e lode al Signore e l’accensione di lumi, di un apposito candelabro, che rappresentano la diffusione pubblica del “grande miracolo avvenuto lì”.
Ma qual è l’essenza di questa ricorrenza? E’ noto che il messaggio precipuo del giorno di Kippur sia la Teshuvah, il ritorno a Dio; che il principio fondamentale della festa di Pesach sia la libertà dalla schiavitù; quello di Shavu‘ot il dono della Torah e quello di Purim la salvezza fisica da un tentativo di sterminio.
Quale può essere, allora, l’essenza degli otto giorni di Hanukkah? La consapevolezza piena della propria identità ebraica è la risposta a questa domanda; e se dovessimo definire il periodo in cui cade questa festa, dovremmo chiamarlo zeman yahadutenu (“epoca del nostro essere ebrei”).
Questa consapevolezza si può acquisire attraverso la comprensione di alcuni messaggi fondamentali della festa di Hanukkah.
Distinzione. La società ebraica durante il dominio degli ellenisti, si assimilava molto velocemente, addirittura arrivò a nascondere quei simboli, patti eterni, che contraddistinguono l’identità ebraica. La rivolta maccabaica, si proponeva di ridestare nel popolo l’orgoglio di essere ebrei. Essere ebrei vuol dire essere diversi, essere distinti e disposti a vivere in modo peculiare senza preoccuparsi che altri possano schernire e dileggiare il modo di vita ebraico. Le azioni dei Maccabei, ancora oggi, sono un invito a non essere influenzati dalle culture che ci circondano; un ebreo deve essere disposto a essere attento alla kasherut durante un pranzo di lavoro, a osservare lo Shabbat, a fare tzedakah e osservare le regole della purità familiare, consapevole della propria diversità rispetto al mondo che lo circonda. Noi siamo quello che siamo e non dobbiamo aver timore di essere noi stessi. La diversità non è un problema ebraico, lo è forse per gli altri.
Crescere in santità. Il rito dell’accensione dei lumi, momento fondamentale della celebrazione di Hanukkah, è il risultato di una discussione talmudica tra la scuola di Shammay e quella di Hillel. Shammay sosteneva che bisogna accendere la prima sera otto lumi e poi decrescere fino ad accendere un solo lume l’ottava sera. Hillel, invece, insegnava che bisogna iniziare con un lume e crescere fino all’ottava sera con l’accensione di otto lumi. A prima vista potrebbe sembrare una discussione tecnica sul numero dei lumi, ma in realtà le opinioni di Hillel e Shammay rivelano due diversi modi di porsi di fronte ad un problema di fondamentale importanza. Shammay insegna che prima bisogna cancellare il male, accendere subito tutti i lumi per bruciare - simbolicamente - il male e il malvagio; alla fine rimarrà un solo piccolo lume a illuminare il nostro cammino. L’insegnamento di Hillel è differente: non sempre si può distruggere tutto il male. Allora, bisogna essere pronti a iniziare la nostra opera educativa dal nulla, accendendo un piccolo lume, cui ne seguirà un altro e un altro ancora e così via perché ma‘alin bakodesh velò moridin “si sale nella santità e non si scende”, venendo così ad aumentare costantemente la luce, cioè il progresso della Torah, con il suo studio e l’osservanza delle sue mitzvot. La norma dell’accensione dei lumi sarà stabilita secondo l’opinione di Hillel.
Surrealismo. La Torah nel libro di Devarim afferma solennemente che “l’uomo non vive di solo pane” (Devarim 8:3). Ciò può voler dire che l’umanità non può vivere, decidere, scegliere solo per mezzo di quanto si ha a disposizione dalla realtà materiale. Se Yehudah HaMaccabì avesse valutato le sue scelte in base alla realtà oggettiva che stava vivendo, non si sarebbe mai ribellato e, allo stesso modo, la parte non ellenizzata del popolo ebraico non si sarebbe mai unita a lui. In effetti, quella realtà oggettiva manifestava tangibilmente l’impossibilità che un piccolo gruppo di combattenti, potesse vincere contro le più potenti e numerose forze dei dominatori e che questa era una condizione incontrovertibile. I Maccabei, invece, lottarono contro quella realtà, perché credevano in un’altra ancor più grande, quella realizzabile grazie all’incrollabile fiducia nel Signore e nei propri mezzi. Le azioni di questo piccolo gruppo d’insorti, erano sostenute dalla fiducia in un Dio che, come già accaduto in epoche bibliche, avrebbe combattuto con e per loro. Essere ebrei, significa - soprattutto - saper vivere nella realtà materiale ma al tempo stesso trovare in essa, per mezzo della Torah, una prospettiva superiore, migliore per sé e per gli altri. Dopo la distruzione del II Tempio, per duemila anni siamo sopravvissuti nella grande diaspora, forse proprio perché non abbiamo tenuto conto solo della realtà oggettiva, della logica e della ragione. Forse, essenzialmente, siamo un po’ surreali, diluiamo la realtà materiale nella fiducia in un Dio immateriale. Il vivere una dimensione surreale, accomuna tutto il popolo d’Israele, gli osservanti insieme ai non osservanti. Ma che cos’è il surrealismo ebraico? Non è altro che un realismo di più alto livello, come quello che nel 1897 determinò in Theodor Herzl il sogno della rinascita di uno stato ebraico in terra d’Israele; un sogno che divenne realtà con David Ben Gurion nel 1948.
La storia di Hanukkah, tra luci e ombre, insegna che il nostro ebraismo deve dimostrare distinzione, deve crescere sempre e sempre deve essere difeso, anche se per questo si deve andare contro la realtà oggettiva e apparire surreali. Allora, che il nostro Shabbat sia sempre più rispettato, che la nostra kasheruth sia più attenta e precisa, che le nostre preghiere siano quotidiane e recitate più con sentimento, che lo studio della Torah sia più diffuso e approfondito. Con questi strumenti possiamo superare gli ostacoli (kelipot) che limitano la nostra essenza. Il messaggio di Hanukkah, non è altro che un invito a essere e comportarci - veramente - da ebrei!

Chag Urim Sameach

Rav Adolfo Locci, rabbino capo di Padova


Hanukkah accende le piazze italiane
Sono tanti gli appuntamenti per celebrare gli otto giorni di Hanukkah. Tra gli eventi, un appuntamento divenuto ormai tradizionale nel panorama dicembrino di varie città italiane è l’accensione della hanukkiah in piazza.
A Roma l’appuntamento è alle 17 in piazza Barberini, a Milano in piazza San Carlo alle 18 (entrambi organizzati dal movimento Chabad-Lubavitch), con canti e bomboloni. Sempre nel capoluogo lombardo, alle 17.30 una Hanukkiah sarà accesa anche in piazzale Cadorna (organizzata dalla sinagoga Naar Israel). Hanukkah è anche l’occasione per festeggiare la ripresa delle attività del movimento Kesher (la serata inaugurale alla Sinagoga centrale con il rabbino capo Alfonso Arbib e il direttore del Dipartimento informazione e cultura dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane rav Roberto Della Rocca).
Ancora nella Capitale, l’appuntamento è anche all’Ospedale israelitico martedì 11 dicembre.
Ogni sera l’accensione della Hanukkiah è poi in piazza Bologna alle 19.30 (Chabad).
A festeggiare Hanukkah è tutta l’Italia ebraica: ieri sera al termine dello Shabbat le fiammelle hanno illuminato la sinagoga di Firenze (nell'immagine), la piazzetta Primo Levi a Torino, e la cena del gruppo Giovani ebrei Padova; oggi celebrazioni alla sinagoga di Vercelli; il prossimo fine settimana l’appuntamento sarà a Parma con un intero Shabbaton dedicato ai giovani organizzato da Comunità e Unione giovani ebrei d’Italia. Hanukkah party dedicati ai giovani anche a Roma (organizzato da Comunità ebraica e Assessorato alle politiche giovanili) e a Milano (Organizzazione giovanile lubavich).

pilpul
Gaza, un quadro in movimento per una storia non breve
A distanza di qualche settimana dalla conclusione delle tensioni più esacerbate tra Israele e Gaza, e quindi dall’operazione difensiva Pilastro di difesa (altrimenti conosciuta anche come Colonna di fumo), e in concomitanza alla visita di Khaled Meshaal nella Striscia, quest’ultimo leader storico di Hamas, è possibile qualche riflessione sul contesto in cui questi fatti si sono andati ad inserire. Poiché, al di là dell’apparente peculiarità dell’ultimo episodio bellico, dettata dalla necessità di rispondere al persistenze lancio di razzi e ordigni esplosivi sia contro il sud d’Israele (a partire da Sderot) che poi, nel corso del piccolo conflitto innescatosi, contro il centro del paese (ed in particolare Tel Aviv e Gerusalemme) da parte sia di Hamas che del Movimento per il Jihad islamico in Palestina (quest’ultimo prossimo ai sciiti di Hezbollah), c’è una complessa trama da tenere in considerazione. Prima di tutto va considerata la natura di quella entità che conosciamo come "Striscia di Gaza" nel suo percorso storico. Non si tratta di uno Stato sovrano ma di un segmento di terra a sé, oggi rivendicato da una pluralità di soggetti: dall’Autorità nazionale palestinese, che invece trova il suo insediamento legale ed elettorale in Cisgordania; da Hamas; dai gruppi salafiti. Sono quindi tre gli attori politici-militari che ruotano intorno a quell’area. Nella quale vivono poco meno di 1,7 milioni di persone (con un tasso di crescita del 3,3 per cento annuo), nella quasi totalità dei casi di religione musulmana e per circa lo 0,7 per cento di origine cristiana. La storia delle egemonie esercitate in età moderna e contemporanea su circa 360 chilometri quadrati di territorio è piuttosto articolata: dal 1517 al 1918 la Striscia è sotto il controllo ottomano; con la fine della Prima guerra mondiale ricade nel mandato britannico, esercitato, come sappiamo, fino al 1948. In quel contesto Gaza e le aree limitrofe non esprimevano un’identità peculiare. Alla data della nascita dello Stato d’Israele l’intera popolazione che risiedeva sul territorio dell’attuale Striscia non superava gli 80mila individui. Elementi economici di rilievo erano il piccolo porto, l’attività ittica e le coltivazioni. All’interno di un’economia perlopiù di sussistenza. Con la risoluzione Onu 181 del novembre 1947, secondo i criteri di ripartizione del territorio, Gaza sarebbe dovuta entrare a far parte del futuro Stato arabo, che avrebbe visto la sua origine dalla piena applicazione del dispositivo della decisione presa dal consesso internazionale. Sia detto per inciso, che se si parlava della nascita di uno Stato ebraico la risoluzione non identificava del pari, con identica nettezza, la figura politica di uno “Stato palestinese” richiamandosi piuttosto ad una comunità politica indipendente araba. Affermiamo questo per rimarcare, nel merito di quanto concerne la discussione dell’oggi, che ciò che è definita come "identità palestinese", sia pure allora coltivata da alcune élite locali, avrebbe poi assunto una fisionomia più netta solo con il trascorrere dei decenni. Le cose, sul piano storico, sono poi andate come è risaputo. Nel 1948 l’area intorno a Gaza si trovò isolata dalla più ampia distesa dei territori cisgiordani. Con il 1949, con gli accordi di Cipro e la stabilizzazione delle linee armistiziali, fu pertanto assunta in amministrazione dall’Egitto, così come avvenne per la Giudea, la Samaria e parte della Galilea per parte giordana, in attesa che gli sviluppi politici, diplomatici ma soprattutto militari ne definissero il destino. Questo stato di cose durò fino al 1967. La scelta del Cairo, al pari di Damasco, fu quella di mantenere un controllo amministrativo senza annettere a sé i territori. Da ciò derivò per i loro abitanti l’impossibilità di acquisire la cittadinanza egiziana. La medesima cosa capitò ai profughi arabi stabilitisi nel Libano meridionale e in altre aree del Medio Oriente. Si trattava di una opzione precisa, che individuava nell’uso di coloro che vi si trovavano a risiedere, condannati ad una apolidia di fatto, la possibilità di creare una sorta di “massa di cuscinetto”: profughi in (eterna) attesa di una sistemazione definitiva, vaticinata nella disintegrazione dell’"entità sionista" e nel "ritorno a casa", e quindi ostili allo Stato ebraico; elementi di aree considerate no-men-lands, vere e proprie zone di interposizione tra sé ed Israele. La "questione palestinese" germina dal connubio tra abbandono delle terre d’origine e mancata risistemazione in quelle di accoglienza. Non è un caso, trattandosi semmai di una strategia politica che aveva ad obiettivo quello di pungolare Gerusalemme il più possibile, sfruttando il diffuso malcontento popolare. Con il 1967 il quadro cambia ancora, subentrando l’amministrazione israeliana che cessa nel 1994, nel quadro degli accordi di Oslo. Ciò che restava di quest’ultima, con l’eccezione di una serie di prerogative riconosciute ad Israele per la sua sicurezza, verrà di fatto a cessare, con l’evacuazione della popolazione civile israeliana insieme allo smantellamento di 21 insediamenti ebraici, nell’agosto del 2005, nell’ambito del piano unilaterale di disimpegno voluto dall’allora governo presieduto da Ariel Sharon. Nella Striscia e nella città di Gaza, governate dall’Autorità nazionale palestinese, ossia dagli uomini di Yasser Arafat, il ritiro israeliano comportò una serie di effetti detonanti. La pessima gestione delle finanze pubbliche e la diffusissima corruzione divennero da subito il fuoco della polemica, delegittimando l’autogoverno palestinese. L’amministrazione di al-Fath, infatti, aveva lasciato buona parte della popolazione insoddisfatta. Alle elezioni legislative del 2006 Hamas, il movimento islamista legato ai Fratelli musulmani egiziani, ottenne il 44 per cento dei consensi, mentre al-Fath non superò il 41 per cento. Hamas di fatto conquistò democraticamente, ossia con l’assenso dei votanti, il controllo della Striscia. Formò un governo che non vedeva la partecipazione degli avversari e l’anno successivo, dopo una infinità di frizioni, di fatto procedette ad un vero e proprio regolamento di conti, con l’espulsione forzata dei propri avversari, dopo una dura guerra civile. Anche da ciò, e dall’avvio di una intensa attività terroristica contro Israele, sono poi derivate le vicende a noi più prossime (il lancio di ordigni contro la popolazione dello Stato ebraico, le tregue temporanee, l’embargo, le azioni militari di Gerusalemme), fino ai fatti delle settimane scorse. Evitiamo di elencarle nello specifico, essendoci per più aspetti ben note. I fatti degli ultimi due mesi arrivano dopo una serie di mutamenti che hanno coinvolto profondamente Hamas. Da almeno quattro anni, infatti, il movimento islamista al potere nella Striscia subisce le pressioni ai fianchi dei gruppi jihadisti e salafiti. Gaza mette in contatto l’Asia con l’Africa e questi ultimi sono in forte attività nel continente nero. Non di meno, Hamas ha dovuto riposizionarsi nei confronti del pencolante regime di Assad. Gli uomini di Ismail Hanyeh, infatti, hanno optato per il sostegno alla Coalizione nazionale siriana, la composita organizzazione la cui esistenza è stata formalizzata a Doha nel novembre di quest’anno, e che raccoglie gli oppositori al regime dell’oftalmologo damasceno. La Siria – e anche questo fatto è abbondantemente risaputo – da sempre ospita “amorevolmente” le élite del movimento islamista. Ma il mutamento del quadro geopolitico, oltre anche ad una non facile dialettica tra i due tronconi di Hamas (quello più “pragmatico”, presente nella Striscia, e quello “ideologico”, riparato a suo tempo a Damasco), ha obbligato a scelte di discontinuità rispetto ai tempi trascorsi. Così anche per ciò che concerne il tentativo che il movimento-regime ha compiuto di ricontrattare i rapporti con i paesi arabi sunniti ed in particolare con il Qatar, uno dei burattinai della crisi siriana, nonché con l’Egitto passato sotto il controllo dei Fratelli musulmani, anch’essi però messi a dura prova dalla contestazione popolare di questi giorni. Il Cairo, durante l’operazione Piombo fuso del 2008-2009, aveva rivelato i suoi reali intendimenti chiudendo il valico meridionale di Rafah. In quegli stessi mesi Teheran aveva invece proceduto a rafforzare il rapporto con Hamas, usando la triangolazione con il Sudan per rifornire Gaza di missili anticarro e razzi a media gittata Fajr 3 e 5. Anche da ciò, e dalla cooperazione con il governo egiziano, derivò quindi l’azione preventiva, nel gennaio del 2009, di bombardamento della colonna di autocarri che stava trasportando il materiale nella Striscia. Ma questo è, per l’appunto, il passato. L’attuale contesto geopolitico regionale è diverso da quello di anche solo tre anni fa. Il riavvicinamento di Hamas alla Fratellanza musulmana, in ascesa il tutta l’area Memo (Mediterraneo-Medio Oriente) nasce infatti da un preciso calcolo d’interesse, che solo l’incistarsi della crisi politica in atto in Egitto in questi giorni potrebbe vederlo rimesso in discussione. Dai riallineamenti politici e diplomatici di Hamas sono comunque derivati scetticismo crescenti e diffidenza. Per l’Iran, che si ritiene escluso, e di riflesso dalla Siria, che si reputa tradita. All’interno della Striscia forze come l’immarcescibile Fronte popolare per la liberazione della Palestina, organizzazione laica ma strettamente legata da una sintonia operativa con il radicalismo islamico, e il Jihad islamico si sono adoperate in tutti i modi per mettere in crisi l’azione politica di Hamas. Ad essi, infatti, vanno attribuiti molti dei ripetuti lanci di razzi contro Israele. La quale da tempo aveva invece stabilito contatti riservati nell’ipotesi del raggiungimento di una tregua stabile. Di fatto, il continuo flusso di armi provenienti dal Sudan, ed in particolare da Yarmouk, a sud di Karthoum, nonché l’ossessivo bombardamento contro i civili israeliani, hanno posto le premesse per i passaggi successivi, tra i quali la morte di Ahmad al-Ja'bari, il vero negoziatore per parte islamista, durante una operazione militare delle forze aeree di Gerusalemme. Lo stallo delle negoziazioni è stato infatti fatale, facendo precipitare una situazione di crisi che già da tempo si era ulteriormente incancrenita. Dopo di che l’insieme della cose che abbiamo preso in considerazione deve a sua volta essere confrontato con altri fronti aperti. Non è probabile che il governo egiziano arrivi a sfiduciare gli accordi di Camp David e a troncare i rapporti con Israele. Non può permetterselo perché ha molte spine nel suo fianco meridionale. La Turchia neo-ottomana di Erdogan deve vedersela con i curdi. L’Iran potrebbe conoscere qualche cambiamento con l’eventuale uscita di scena di Ahmadinejad, a conclusione del suo ultimo mandato presidenziale. Allo stato attuale delle cose, però, tutto si gioca intorno alla Siria. Hamas guarda anche in quella direzione, così come deve porsi il problema, del pari al Cairo e a Gerusalemme, della nuova instabilità che si misura nel Sinai. Il movimento-regime sa di non avere chance di vittoria contro Israele. E tuttavia cerca riscontri simbolici molto netti, per puntellare il suo potere. Non è un caso se si sia autoproclamato “vincitore” nei recenti scontri. Dopo di che, il perdurare della fragile tregua dipende da molti elementi che nessuno dei protagonisti in campo riesce da solo a governare.

Claudio Vercelli


Nugae - Sindrome da mancanza di Hannukkah
Le città si accendono di lucine colorate, le strade si affollano di grandi sacchetti pieni di meraviglie, le radio trasmettono canzoni allegre fino a non poterne più, alberi dai frutti di cristallo spuntano da tutte le parti. E le amiche cominciano a manifestare i primi sintomi della sindrome da mancanza di Natale, che ogni anno a quest’epoca fa la sua comparsa come un’influenza stagionale. “Perché noi non possiamo godere dello stesso calore e mangiare biscottini davanti al caminetto scartando regali?”, chiedono. Piuttosto diffusa, la s.m.n. colpisce gli ebrei un po’ in tutto il mondo da più di un secolo, da quando cioè ha avuto inizio questa tanto odiosa commercializzazione del Natale. Il risultato di tutto ciò è stato che, un po’ per consolazione un po’ per ripicca, anche Hannukkah non ha tardato a subire la stesso processo, trasformandosi da piccola ricorrenza in grosso evento, in modo da rendere le vacanze invernali un periodo ugualmente eccitante per tutti. La massima espressione del fenomeno si ha naturalmente negli Stati Uniti, come testimonia una vasta bibliografia, in cui compaiono titoli estrosi come A Kosher Christmas: ‘Tis The Season To Be Jewish o Hanukkah in America: A History. Ma la novità è che questa tendenza, con le luminarie di Hannukkah che affiancano sempre più spesso quelle natalizie e l’ingrandirsi di anno in anno del reparto oggettistica di Hannukkah dei grandi magazzini, con trottole, CD di musiche tipiche e monete di cioccolato, si è accresciuta a tal punto da aver incredibilmente suscitato addirittura l’invidia di quelli che hanno sempre festeggiato Natale. Complice anche il fatto che nelle scuole si parla sempre sia dell’una sia dell’altra festività, i giornali raccontano di come sia ormai comune che bambini non ebrei tornino a casa lamentandosi di non poter celebrare Hannukkah e facendo i capricci per farsi comprare un candelabro. Per il momento questa nuovissima sindrome da mancanza di Hannukkah riguarda solo l’America, ma chissà che presto non si diffonda anche in Europa. E forse così le vittime della s.m.n. si sentiranno un po’ meno incomprese.

Francesca Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF

           

Melamed – Nemiche amiche vicine per calendario
Fra Hanukkah e Natale, in un certo senso, non è mai corso buon sangue: due feste troppo vicine - nonostante il calendario ebraico si diverta a far ballare la Festa delle luci fra la fine di novembre e e gli ultimi giorni di dicembre – e con troppe caratteristiche che a un primo superficiale sguardo sembrano simili. Quanto basta per alimentare una rivalità, apparentemente scherzosa, condita di battute e vignette e storielle più o meno ironiche che da anni tentano di conciliare due festività che, a essere sinceri, possono avere in comune solo la luce delle candele e i doni ai bambini. E forse neppure quello, visto che i regali fanno parte della deriva commerciale di entrambe le occasioni. Una trottola, che in realtà serviva per nascondere un’occasione di studio insieme e far credere a uno sguardo nemico che si stava solo giocando, questo era l’unico divertimento per quegli otto giorni di festa. Neppure Natale, a quanto pare, sarebbe una festa in cui i regali sono il tema dominante.
E poi? Poi i due mondi si sono avvicinati, e Sankt Nikolaus si è fatto comprare dalla Coca Cola, ha scambiato il suo abito verde per una divisa rossa, ed ha iniziato a fare gli straordinari per distribuire regali. Quei regali che sono diventati sempre di più, e la letterina a Babbo Natale ha fatto sì che vengano sempre più spesso acquistati su ordinazione, grazie a genitori spioni che leggono le lettere indirizzate al Polo Nord. Scritte da bambini che sanno benissimo come gira il mondo e che riescono a commuovere gli adulti convincendoli che certo, ovviamente, si sa, Babbo Natale viene solo nelle case dei bambini che ci credono (e che si sono comportati bene)… E Hanukkah? Non sarà mica una festa minore? Il fascino degli alberi di Natale addobbati, il mistero di quella strana cosa chiamata presepe e soprattutto la frenesia dello shopping di stagione e le centinaia di pacchetti infiocchettati sono difficili da non notare, per quanto a casa ci siano famiglie che fanno il possibile, e l’impossibile, per dare il senso della festa, e Hanukkah di senso da offrire ne ha tantissimo. I bambini a volte provano a fare i superiori, a scherzare sulla quantità di Babbi Natale che si arrampicano ormai ovunque, appesi ai balconi, ma – per essere sinceri - sanno anche che sicuramente fra trottole e frittelle e monete di cioccolato qualche pacchetto sbucherà. Perché siamo noi genitori, in realtà, che facciamo il confronto. Siamo noi adulti che proiettiamo sui bambini le nostre preoccupazioni e, in un certo senso, cediamo. Provate a chiedere ai bambini perché amano Hanukkah… saranno pochi quelli che non citeranno i regali. Uno per sera, ovviamente. Senza dichiararlo, senza ammetterlo, ma il timore che i nostri cuccioli facciano il paragone con il tripudio di pacchetti natalizi e che si sentano in un certo senso in difetto esiste. E cercare di spiegare che no, non tutti festeggiano le stesse cose e che anzi se vogliamo dirla tutta nel mondo si tratta solo di una piccola minoranza di persone non basta. Non basta a noi stessi, soprattutto.
E allora è con un piccolo senso di rivalsa, subito coperto da un altrettanto piccolo senso di colpa per il senso di rivalsa, che si scopre che in America alla ben nota Christmas envy (l’invidia del Natale) si sta sostituendo una sempre più diffusa Hanukkah envy, grazie – grazie? – alla crescente diffusione di hannukiot e decorazioni a tema negli spazi pubblici. Dalla prima hanukkia accesa alla Casa Bianca nel 1979 da Jimmy Carter, ai party a tema di George Bush, al primo messaggio augurale del presidente degli Stati Uniti Barak Obama (nell'immagine), si arriva al dreidel portato nello spazio dall’astronauta Jeffrey Hoffman. Ovviamente la sovraesposizione è maggiore ed ha effetti pervasivi nelle aree a maggiore popolazione ebraica, e in Italia vedere negozi addobbati per Hanukkah è raro. Forse impossibile. Intanto nelle case si contano i regali, e sceglierne otto moltiplicato il numero di figli può diventare complicato, anche se scegliere regali per le persone care è bello, sempre. Carta, nastro adesivo, fiocchi… si lavora alacremente ma un piccolo disagio di fondo resta. Poi la bellezza delle luci, il profumo delle frittelle e soprattutto la gioia dei bambini coprirà ogni cosa, anche quella piccola invidia che ci portiamo ancora dentro noi genitori, ricordo di quando eravamo bambini ed abbiamo desiderato per settimane quella particolare decorazione per l’albero che non aveva senso domandare.

Ada Treves twitter @atrevermoked

           

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