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9 dicembre
2012 - 25 Kislev 5773 |
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Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino
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Se vogliamo raccontare i nostri sogni, e forse non sempre questo
è necessario, è meglio farlo a chi ci vuole bene. Giuseppe lo fa con i
suoi fratelli, che bene in quel momento non gli volevano: i suoi
sogni si realizzano in effetti secondo le parole dei fratelli stessi
("regnerai su di noi") perché i sogni "vanno dietro alla bocca (che li
interpreta)". Ma la realizzazione è lontana nel tempo: passano ventidue
anni, e molte peripezie, prima che Giuseppe veda in realtà i suo
fratelli inginocchiati di fronte a lui.
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David
Bidussa, storico sociale
delle idee
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Cresce
la domanda e l’offerta di sapere nel mondo ebraico. E’ un buon
segno. A me sembra che siano da adottare diversi angoli prospettici. Da
una parte sta una dimensione del sapere o del fare, e dunque
delle regole, dall’altra una “del vivere” dove conta ciò che gli ebrei
hanno fatto nella storia concreta. Ovvero ciò che sono stati nello
“scorrere del tempo”. In questo secondo caso ciò che occorre mettere a
tema è l’esperienza vissuta che non è solo, né spesso prevalentemente,
traduzione pratica di regole, ma, appunto, “storia dell’agire nel
tempo”. Il che significa che accanto alla dimensione ideale o culturale
noi dobbiamo essere in grado di porre l’ebreo reale. Più precisamente
un ebreo nella storia. Da questo punto di vista Yosef Hayim Yerushalmi
avrebbe molto da dirci. Non penso principalmente a “Zakhor”, ma alle
sue riflessioni sul marranesimo, alle sue pagine sul rapporto tra
diaspore e poteri locali, ovvero la condizione di pensarsi e agire come
“servi dei re e non come servi dei servi”, per riprendere il titolo di
una sua “lectio magistralis” tenuta a Monaco di Baviera nel 1993.
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Hanukkah - Il miracolo negato
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La recente scomparsa del dottor Marco
Spizzichino, che prima di esercitare per molti anni a tempo pieno la
professione medica era stato insegnante di materie ebraiche alle scuole
elementari di Roma, ha evocato, proprio alla vigilia di Hanukkah,
l'immagine del morè Spizzichino che dirigeva il coro dei bambini nella
tradizionale festa delle scuole che si svolgeva al Tempio Maggiore (e
ancora vi si svolge). Ricordo i suoi gesti decisi e ritmati che
guidavano i bambini a cantare Mi yemallel gvurot Israel... Uno dei
tanti canti per Hanukkah, che ancora oggi circola nelle nostre scuole e
nelle riunioni pubbliche festive. Sollecitato da questo ricordo, ho
provato a cercare qualche notizia su questo canto e mi si è aperto
davanti un mondo intero. Che va riscoperto e spiegato perché è una
chiave di comprensione (o di incomprensione) dei significati
contraddittori della festa di Hanukkah.
Ogni canto è fatto di un testo e di una melodia. Il testo del Mi
yemallel è stato scritto, verso gli anni Trenta, da un personaggio
abbastanza noto, Menashe Rabina. Nato nel 1899 in Ucraina, fece studi
laici, tradizionali in yeshivòth e soprattutto musicali; dal 1924 si
insediò a Tel Aviv; morì nel 1968. Musicista e musicologo impegnato,
dette un grande impulso all'educazione musicale in Erez Israel e alla
crescita delle sue musiche, che contribuirono a creare l'atmosfera del
paese. Fu autore di testi e melodie famose. Nel caso del Mi yemallel,
del solo testo, mentre la musica è “popolare”, sembra di origine
inglese. Uno strano miscuglio, che diventa ancora più enigmatico quando
si riflette al significato dei pochi versi della canzone.
In italiano: “Chi potrà dire le prodezze di Israele, chi potrà
enumerarle?/ Ecco in ogni generazione sorgera l'eroe redentore del
popolo./ Ascolta: in quei giorni, in questo tempo/ il Maccabeo salva e
riscatta/ E nei nostri giorni tutto Israele/ Si unirà, sorgerà e sarà
redento”.
A parte la retorica, comune in molti inni del genere, l'esame del
testo, che cita espressioni antiche e tradizionali, a un esame appena
più approfondito è rivelatore di una rivoluzione. Perché l'espressione
iniziale, Mi yemallel gvurot, è presa dalla Bibbia, dal Salmo 106:2,
solo che nel Salmo le prodezze sono quelle del Signore, mentre qui sono
quelle di Israele. Nello spirito tradizionale il “redentore” non sorge
da solo, ma viene fatto sorgere, e chi “salva e riscatta” è il Signore
stesso, talora per mezzo degli uomini, ma mai gli uomini per conto
proprio. Dunque la poesia rivela uno spirito a-religioso se non
antireligioso, in cui si sostituisce, all'opera redentrice divina che
guida la storia, l'autonoma rivolta umana. L’autore lo fa usando il
vocabolario della tradizione, persino quello liturgico (“ascolta”; “in
quei giorni in questo tempo”) che viene però stravolto. E'
un'operazione tipica di un certo periodo e di una certa anima del
movimento sionistico, che predicava il risorgimento del popolo ebraico
in contrasto con i gruppi più religiosi che vedevano in questo un
sovvertimento della storia e del destino diasporico segnato dall'alto.
In terra d'Israele questo contrasto veniva perfettamente notato, e
quindi accettato polemicamente da ampie fasce sioniste e rigettato
dagli antisionisti o dai sionisti religiosi. Stupisce un po' la
diffusione di questo canto nella Roma ebraica, che non sappiamo quando
sia arrivato, probabilmente dopo la guerra, e passi per i sionisti non
religiosi, ma non si capisce molto l'uso comune e accettato dentro al
Tempio Maggiore, dove molti l'hanno sentito cantare e anche imparato.
Se si pensa al repertorio comune dei canti di Hanukkah, la
contraddizione è notevole. L'uso dei sefarditi e degli italiani si
limitava al canto del Salmo 30, Mizmor shir chanukkat habayt leDavid.
Gli ashkenaziti invece hanno dal medioevo il famoso Ma’oz Tzur, che è
un inno religioso, in quanto è preghiera di redenzione rivolta alla
“Fortezza, roccia della mia salvezza”; un canto che riassume le storie
di salvezza, che tra le righe contiene allusioni piuttosto dure alla
fine dei nemici, e che conserva un certo carattere militaresco
sottolineato dall'antica marcetta tedesca che tutti conoscono (ne
esiste anche una variante italiana forse un po' più dolce).
Nel secolo scorso i canti si sono moltiplicati, con testi nuovi e
melodie talvolta nuove, talvolta riciclate (fino allo Judas Maccabaeus
di Handel). Mi yemallel nasce nell’atmosfera sionista rivoluzionaria,
in cui tutto è rivolto alla capacità e alla volontà del popolo ebraico
di scriversi da solo il proprio destino. E non è l’unico canto che
rivisita le concezioni tradizionali. In Yemè haChanukkà il ritornello
parla dei “miracoli e prodigi che hanno realizzato i Maccabei”, per
intendersi, i Maccabei da soli hanno fatto il miracolo. In altri testi
si nega direttamente il miracolo dell’olio. Prima di Yom ha’atzmaut, il
giorno dell’Indipendenza, la festa più adatta per segnare lo spirito di
rivolta ebraica era proprio quella di Hanukkah, di cui veniva esaltato
il ricordo di un pugno di uomini che si ribellarono all'oppressione e
crearono uno stato indipendente. Che poi i ribelli fossero sacerdoti, e
lo facessero non tanto per l'indipendenza quanto per la libertà
religiosa e in opposizione all'assimilazione all'ellenismo, contava
meno nella rielaborazione mitica proto-sionista.
Ma a ben vedere questa opposizione di significati accompagna Hanukkah
fin dalla sua istituzione. Il tema della luce e del miracolo,
sottolineato dai maestri, è in chiara opposizione allo spirito
rivoluzionario e militaresco della festa. I Farisei erano stati vittime
della casa regnante degli Asmonei, gli eredi dei sacerdoti vittoriosi
di Hanukkah, che erano diventati re. I Farisei consideravano questa
regalità un'usurpazione (il re legittimo di Israele può essere solo un
discendente da David), e pagarono a duro prezzo questa loro
opposizione. Se Hanukkah doveva essere la celebrazione
dell'insediamento di una monarchia illegittima, non c'era motivo di
celebrarla. Ma Hanukkah era anche la vittoria contro l'ellenismo, la
restaurazione del Tempio; questa era l'anima di cui i Rabbini non
potevano fare a meno. E da qui la centralità della storia del miracolo
e la sua importanza centrale nella celebrazione.
Hanukkah riassume in questo modo una delle più importanti
contraddizioni dell'ebraismo, tra anima laica e libertaria e tra anima
religiosa permeata alla fede. Non è che la contraddizione sia così
semplicistica. Esistono cento modi di viverla e ricombinare le cose
insieme. Ma il risorgimento ebraico ha esaltato questa contraddizione.
Oggi che viviamo nell'era definita “post-sionista” alcune di queste
durezze si sono un poco attenuate. Ma solo poco. Tra chi vede la storia
universale e quella ebraica in particolare come un prodotto umano e chi
la vede invece come provvidenziale, tra chi privilegia un'identità
ebraica statale e chi la vuole antistatale (se lo stato è quello
ebraico non religioso), tra chi teorizza il diritto all'autodifesa
militare (e all'attacco quando necessario) e chi considera la violenza
sostanzialmente estranea all'anima ebraica, il dibattito, e spesso la
polemica feroce, è estremamente attuale.
E tutto questo si nasconde dietro le fiammelle di questa festa, che
continuiamo ad accendere in segno unificante, anche se al segno
attribuiamo tanti significati differenti. Tra i messaggi nascosti nella
storia del miracolo dell’olio c’è quello della permanenza nel tempo (x
8) dell’energia, che si verifica in un nucleo di “duri e puri”, contro
ogni regola razionale e naturale, energia che consente a tutti di
sopravvivere anche nei momenti più drammatici. Erano così energici
anche i sionisti che ricostruivano la terra e lo stato, anche se molti
di loro, con la loro ideologia, negavano proprio il simbolo che li
rappresentava.
Rav Riccardo Di Segni,
rabbino capo di Roma
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Hanukkah - Il tempo del nostro essere
ebrei |
Il
25 di Kislev del 165 a.e.v., è il giorno in cui si concluse la lotta
per ristabilire la libertà e l’indipendenza in terra d’Israele. I
Seleucidi siriani furono sconfitti dai Maccabei e il Tempio, profanato
con statue pagane, fu riconsacrato. Per questo, i maestri stabilirono
otto giorni di festa e lode al Signore e l’accensione di lumi, di un
apposito candelabro, che rappresentano la diffusione pubblica del
“grande miracolo avvenuto lì”.
Ma qual è l’essenza di questa ricorrenza? E’ noto che il messaggio
precipuo del giorno di Kippur sia la Teshuvah, il ritorno a Dio; che il
principio fondamentale della festa di Pesach sia la libertà dalla
schiavitù; quello di Shavu‘ot il dono della Torah e quello di Purim la
salvezza fisica da un tentativo di sterminio.
Quale può essere, allora, l’essenza degli otto giorni di Hanukkah? La
consapevolezza piena della propria identità ebraica è la risposta a
questa domanda; e se dovessimo definire il periodo in cui cade questa
festa, dovremmo chiamarlo zeman yahadutenu (“epoca del nostro essere
ebrei”).
Questa consapevolezza si può acquisire attraverso la comprensione di
alcuni messaggi fondamentali della festa di Hanukkah.
Distinzione. La società ebraica durante il dominio degli ellenisti, si
assimilava molto velocemente, addirittura arrivò a nascondere quei
simboli, patti eterni, che contraddistinguono l’identità ebraica. La
rivolta maccabaica, si proponeva di ridestare nel popolo l’orgoglio di
essere ebrei. Essere ebrei vuol dire essere diversi, essere distinti e
disposti a vivere in modo peculiare senza preoccuparsi che altri
possano schernire e dileggiare il modo di vita ebraico. Le azioni dei
Maccabei, ancora oggi, sono un invito a non essere influenzati dalle
culture che ci circondano; un ebreo deve essere disposto a essere
attento alla kasherut durante un pranzo di lavoro, a osservare lo
Shabbat, a fare tzedakah e osservare le regole della purità familiare,
consapevole della propria diversità rispetto al mondo che lo circonda.
Noi siamo quello che siamo e non dobbiamo aver timore di essere noi
stessi. La diversità non è un problema ebraico, lo è forse per gli
altri.
Crescere in santità. Il rito dell’accensione dei lumi, momento
fondamentale della celebrazione di Hanukkah, è il risultato di una
discussione talmudica tra la scuola di Shammay e quella di Hillel.
Shammay sosteneva che bisogna accendere la prima sera otto lumi e poi
decrescere fino ad accendere un solo lume l’ottava sera. Hillel,
invece, insegnava che bisogna iniziare con un lume e crescere fino
all’ottava sera con l’accensione di otto lumi. A prima vista potrebbe
sembrare una discussione tecnica sul numero dei lumi, ma in realtà le
opinioni di Hillel e Shammay rivelano due diversi modi di porsi di
fronte ad un problema di fondamentale importanza. Shammay insegna che
prima bisogna cancellare il male, accendere subito tutti i lumi per
bruciare - simbolicamente - il male e il malvagio; alla fine rimarrà un
solo piccolo lume a illuminare il nostro cammino. L’insegnamento di
Hillel è differente: non sempre si può distruggere tutto il male.
Allora, bisogna essere pronti a iniziare la nostra opera educativa dal
nulla, accendendo un piccolo lume, cui ne seguirà un altro e un altro
ancora e così via perché ma‘alin bakodesh velò moridin “si sale nella
santità e non si scende”, venendo così ad aumentare costantemente la
luce, cioè il progresso della Torah, con il suo studio e l’osservanza
delle sue mitzvot. La norma dell’accensione dei lumi sarà stabilita
secondo l’opinione di Hillel.
Surrealismo. La Torah nel libro di Devarim afferma solennemente che
“l’uomo non vive di solo pane” (Devarim 8:3). Ciò può voler dire che
l’umanità non può vivere, decidere, scegliere solo per mezzo di quanto
si ha a disposizione dalla realtà materiale. Se Yehudah HaMaccabì
avesse valutato le sue scelte in base alla realtà oggettiva che stava
vivendo, non si sarebbe mai ribellato e, allo stesso modo, la parte non
ellenizzata del popolo ebraico non si sarebbe mai unita a lui. In
effetti, quella realtà oggettiva manifestava tangibilmente
l’impossibilità che un piccolo gruppo di combattenti, potesse vincere
contro le più potenti e numerose forze dei dominatori e che questa era
una condizione incontrovertibile. I Maccabei, invece, lottarono contro
quella realtà, perché credevano in un’altra ancor più grande, quella
realizzabile grazie all’incrollabile fiducia nel Signore e nei propri
mezzi. Le azioni di questo piccolo gruppo d’insorti, erano sostenute
dalla fiducia in un Dio che, come già accaduto in epoche bibliche,
avrebbe combattuto con e per loro. Essere ebrei, significa -
soprattutto - saper vivere nella realtà materiale ma al tempo stesso
trovare in essa, per mezzo della Torah, una prospettiva superiore,
migliore per sé e per gli altri. Dopo la distruzione del II Tempio, per
duemila anni siamo sopravvissuti nella grande diaspora, forse proprio
perché non abbiamo tenuto conto solo della realtà oggettiva, della
logica e della ragione. Forse, essenzialmente, siamo un po’ surreali,
diluiamo la realtà materiale nella fiducia in un Dio immateriale. Il
vivere una dimensione surreale, accomuna tutto il popolo d’Israele, gli
osservanti insieme ai non osservanti. Ma che cos’è il surrealismo
ebraico? Non è altro che un realismo di più alto livello, come quello
che nel 1897 determinò in Theodor Herzl il sogno della rinascita di uno
stato ebraico in terra d’Israele; un sogno che divenne realtà con David
Ben Gurion nel 1948.
La storia di Hanukkah, tra luci e ombre, insegna che il nostro ebraismo
deve dimostrare distinzione, deve crescere sempre e sempre deve essere
difeso, anche se per questo si deve andare contro la realtà oggettiva e
apparire surreali. Allora, che il nostro Shabbat sia sempre più
rispettato, che la nostra kasheruth sia più attenta e precisa, che le
nostre preghiere siano quotidiane e recitate più con sentimento, che lo
studio della Torah sia più diffuso e approfondito. Con questi strumenti
possiamo superare gli ostacoli (kelipot) che limitano la nostra
essenza. Il messaggio di Hanukkah, non è altro che un invito a essere e
comportarci - veramente - da ebrei!
Chag Urim Sameach
Rav Adolfo Locci, rabbino
capo di Padova
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Hanukkah
accende le piazze italiane |
Sono
tanti gli appuntamenti per celebrare gli otto giorni di Hanukkah. Tra
gli eventi, un appuntamento divenuto ormai tradizionale nel panorama
dicembrino di varie città italiane è l’accensione della hanukkiah in
piazza.
A Roma l’appuntamento è alle 17 in piazza Barberini, a Milano in piazza
San Carlo alle 18 (entrambi organizzati dal movimento
Chabad-Lubavitch), con canti e bomboloni. Sempre nel capoluogo
lombardo, alle 17.30 una Hanukkiah sarà accesa anche in piazzale
Cadorna (organizzata dalla sinagoga Naar Israel). Hanukkah è anche
l’occasione per festeggiare la ripresa delle attività del movimento
Kesher (la serata inaugurale alla Sinagoga centrale con il rabbino capo
Alfonso Arbib e il direttore del Dipartimento informazione e cultura
dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane rav Roberto Della Rocca).
Ancora nella Capitale, l’appuntamento è anche all’Ospedale israelitico
martedì 11 dicembre.
Ogni sera l’accensione della Hanukkiah è poi in piazza Bologna alle
19.30 (Chabad).
A festeggiare Hanukkah è tutta l’Italia ebraica: ieri sera al termine
dello Shabbat le fiammelle hanno illuminato la sinagoga di Firenze
(nell'immagine), la piazzetta Primo Levi a Torino, e la cena del gruppo
Giovani ebrei Padova; oggi celebrazioni alla sinagoga di Vercelli; il
prossimo fine settimana l’appuntamento sarà a Parma con un intero
Shabbaton dedicato ai giovani organizzato da Comunità e Unione giovani
ebrei d’Italia. Hanukkah party dedicati ai giovani anche a Roma
(organizzato da Comunità ebraica e Assessorato alle politiche
giovanili) e a Milano (Organizzazione giovanile lubavich).
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Gaza, un quadro in movimento per una storia non breve
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A
distanza di qualche settimana dalla conclusione delle tensioni più
esacerbate tra Israele e Gaza, e quindi dall’operazione difensiva
Pilastro di difesa (altrimenti conosciuta anche come Colonna di fumo),
e in concomitanza alla visita di Khaled Meshaal nella Striscia,
quest’ultimo leader storico di Hamas, è possibile qualche riflessione
sul contesto in cui questi fatti si sono andati ad inserire. Poiché, al
di là dell’apparente peculiarità dell’ultimo episodio bellico, dettata
dalla necessità di rispondere al persistenze lancio di razzi e ordigni
esplosivi sia contro il sud d’Israele (a partire da Sderot) che poi,
nel corso del piccolo conflitto innescatosi, contro il centro del paese
(ed in particolare Tel Aviv e Gerusalemme) da parte sia di Hamas che
del Movimento per il Jihad islamico in Palestina (quest’ultimo prossimo
ai sciiti di Hezbollah), c’è una complessa trama da tenere in
considerazione. Prima di tutto va considerata la natura di quella
entità che conosciamo come "Striscia di Gaza" nel suo percorso storico.
Non si tratta di uno Stato sovrano ma di un segmento di terra a sé,
oggi rivendicato da una pluralità di soggetti: dall’Autorità nazionale
palestinese, che invece trova il suo insediamento legale ed elettorale
in Cisgordania; da Hamas; dai gruppi salafiti. Sono quindi tre gli
attori politici-militari che ruotano intorno a quell’area. Nella quale
vivono poco meno di 1,7 milioni di persone (con un tasso di crescita
del 3,3 per cento annuo), nella quasi totalità dei casi di religione
musulmana e per circa lo 0,7 per cento di origine cristiana. La storia
delle egemonie esercitate in età moderna e contemporanea su circa 360
chilometri quadrati di territorio è piuttosto articolata: dal 1517 al
1918 la Striscia è sotto il controllo ottomano; con la fine della Prima
guerra mondiale ricade nel mandato britannico, esercitato, come
sappiamo, fino al 1948. In quel contesto Gaza e le aree limitrofe non
esprimevano un’identità peculiare. Alla data della nascita dello Stato
d’Israele l’intera popolazione che risiedeva sul territorio
dell’attuale Striscia non superava gli 80mila individui. Elementi
economici di rilievo erano il piccolo porto, l’attività ittica e le
coltivazioni. All’interno di un’economia perlopiù di sussistenza. Con
la risoluzione Onu 181 del novembre 1947, secondo i criteri di
ripartizione del territorio, Gaza sarebbe dovuta entrare a far parte
del futuro Stato arabo, che avrebbe visto la sua origine dalla piena
applicazione del dispositivo della decisione presa dal consesso
internazionale. Sia detto per inciso, che se si parlava della nascita
di uno Stato ebraico la risoluzione non identificava del pari, con
identica nettezza, la figura politica di uno “Stato palestinese”
richiamandosi piuttosto ad una comunità politica indipendente araba.
Affermiamo questo per rimarcare, nel merito di quanto concerne la
discussione dell’oggi, che ciò che è definita come "identità
palestinese", sia pure allora coltivata da alcune élite locali, avrebbe
poi assunto una fisionomia più netta solo con il trascorrere dei
decenni. Le cose, sul piano storico, sono poi andate come è risaputo.
Nel 1948 l’area intorno a Gaza si trovò isolata dalla più ampia distesa
dei territori cisgiordani. Con il 1949, con gli accordi di Cipro e la
stabilizzazione delle linee armistiziali, fu pertanto assunta in
amministrazione dall’Egitto, così come avvenne per la Giudea, la
Samaria e parte della Galilea per parte giordana, in attesa che gli
sviluppi politici, diplomatici ma soprattutto militari ne definissero
il destino. Questo stato di cose durò fino al 1967. La scelta del
Cairo, al pari di Damasco, fu quella di mantenere un controllo
amministrativo senza annettere a sé i territori. Da ciò derivò per i
loro abitanti l’impossibilità di acquisire la cittadinanza egiziana. La
medesima cosa capitò ai profughi arabi stabilitisi nel Libano
meridionale e in altre aree del Medio Oriente. Si trattava di una
opzione precisa, che individuava nell’uso di coloro che vi si trovavano
a risiedere, condannati ad una apolidia di fatto, la possibilità di
creare una sorta di “massa di cuscinetto”: profughi in (eterna) attesa
di una sistemazione definitiva, vaticinata nella disintegrazione
dell’"entità sionista" e nel "ritorno a casa", e quindi ostili allo
Stato ebraico; elementi di aree considerate no-men-lands, vere e
proprie zone di interposizione tra sé ed Israele. La "questione
palestinese" germina dal connubio tra abbandono delle terre d’origine e
mancata risistemazione in quelle di accoglienza. Non è un caso,
trattandosi semmai di una strategia politica che aveva ad obiettivo
quello di pungolare Gerusalemme il più possibile, sfruttando il diffuso
malcontento popolare. Con il 1967 il quadro cambia ancora, subentrando
l’amministrazione israeliana che cessa nel 1994, nel quadro degli
accordi di Oslo. Ciò che restava di quest’ultima, con l’eccezione di
una serie di prerogative riconosciute ad Israele per la sua sicurezza,
verrà di fatto a cessare, con l’evacuazione della popolazione civile
israeliana insieme allo smantellamento di 21 insediamenti ebraici,
nell’agosto del 2005, nell’ambito del piano unilaterale di disimpegno
voluto dall’allora governo presieduto da Ariel Sharon. Nella Striscia e
nella città di Gaza, governate dall’Autorità nazionale palestinese,
ossia dagli uomini di Yasser Arafat, il ritiro israeliano comportò una
serie di effetti detonanti. La pessima gestione delle finanze pubbliche
e la diffusissima corruzione divennero da subito il fuoco della
polemica, delegittimando l’autogoverno palestinese. L’amministrazione
di al-Fath, infatti, aveva lasciato buona parte della popolazione
insoddisfatta. Alle elezioni legislative del 2006 Hamas, il movimento
islamista legato ai Fratelli musulmani egiziani, ottenne il 44 per
cento dei consensi, mentre al-Fath non superò il 41 per cento. Hamas di
fatto conquistò democraticamente, ossia con l’assenso dei votanti, il
controllo della Striscia. Formò un governo che non vedeva la
partecipazione degli avversari e l’anno successivo, dopo una infinità
di frizioni, di fatto procedette ad un vero e proprio regolamento di
conti, con l’espulsione forzata dei propri avversari, dopo una dura
guerra civile. Anche da ciò, e dall’avvio di una intensa attività
terroristica contro Israele, sono poi derivate le vicende a noi più
prossime (il lancio di ordigni contro la popolazione dello Stato
ebraico, le tregue temporanee, l’embargo, le azioni militari di
Gerusalemme), fino ai fatti delle settimane scorse. Evitiamo di
elencarle nello specifico, essendoci per più aspetti ben note. I fatti
degli ultimi due mesi arrivano dopo una serie di mutamenti che hanno
coinvolto profondamente Hamas. Da almeno quattro anni, infatti, il
movimento islamista al potere nella Striscia subisce le pressioni ai
fianchi dei gruppi jihadisti e salafiti. Gaza mette in contatto l’Asia
con l’Africa e questi ultimi sono in forte attività nel continente
nero. Non di meno, Hamas ha dovuto riposizionarsi nei confronti del
pencolante regime di Assad. Gli uomini di Ismail Hanyeh, infatti, hanno
optato per il sostegno alla Coalizione nazionale siriana, la composita
organizzazione la cui esistenza è stata formalizzata a Doha nel
novembre di quest’anno, e che raccoglie gli oppositori al regime
dell’oftalmologo damasceno. La Siria – e anche questo fatto è
abbondantemente risaputo – da sempre ospita “amorevolmente” le élite
del movimento islamista. Ma il mutamento del quadro geopolitico, oltre
anche ad una non facile dialettica tra i due tronconi di Hamas (quello
più “pragmatico”, presente nella Striscia, e quello “ideologico”,
riparato a suo tempo a Damasco), ha obbligato a scelte di discontinuità
rispetto ai tempi trascorsi. Così anche per ciò che concerne il
tentativo che il movimento-regime ha compiuto di ricontrattare i
rapporti con i paesi arabi sunniti ed in particolare con il Qatar, uno
dei burattinai della crisi siriana, nonché con l’Egitto passato sotto
il controllo dei Fratelli musulmani, anch’essi però messi a dura prova
dalla contestazione popolare di questi giorni. Il Cairo, durante
l’operazione Piombo fuso del 2008-2009, aveva rivelato i suoi reali
intendimenti chiudendo il valico meridionale di Rafah. In quegli stessi
mesi Teheran aveva invece proceduto a rafforzare il rapporto con Hamas,
usando la triangolazione con il Sudan per rifornire Gaza di missili
anticarro e razzi a media gittata Fajr 3 e 5. Anche da ciò, e dalla
cooperazione con il governo egiziano, derivò quindi l’azione
preventiva, nel gennaio del 2009, di bombardamento della colonna di
autocarri che stava trasportando il materiale nella Striscia. Ma questo
è, per l’appunto, il passato. L’attuale contesto geopolitico regionale
è diverso da quello di anche solo tre anni fa. Il riavvicinamento di
Hamas alla Fratellanza musulmana, in ascesa il tutta l’area Memo
(Mediterraneo-Medio Oriente) nasce infatti da un preciso calcolo
d’interesse, che solo l’incistarsi della crisi politica in atto in
Egitto in questi giorni potrebbe vederlo rimesso in discussione. Dai
riallineamenti politici e diplomatici di Hamas sono comunque derivati
scetticismo crescenti e diffidenza. Per l’Iran, che si ritiene escluso,
e di riflesso dalla Siria, che si reputa tradita. All’interno della
Striscia forze come l’immarcescibile Fronte popolare per la liberazione
della Palestina, organizzazione laica ma strettamente legata da una
sintonia operativa con il radicalismo islamico, e il Jihad islamico si
sono adoperate in tutti i modi per mettere in crisi l’azione politica
di Hamas. Ad essi, infatti, vanno attribuiti molti dei ripetuti lanci
di razzi contro Israele. La quale da tempo aveva invece stabilito
contatti riservati nell’ipotesi del raggiungimento di una tregua
stabile. Di fatto, il continuo flusso di armi provenienti dal Sudan, ed
in particolare da Yarmouk, a sud di Karthoum, nonché l’ossessivo
bombardamento contro i civili israeliani, hanno posto le premesse per i
passaggi successivi, tra i quali la morte di Ahmad al-Ja'bari, il vero
negoziatore per parte islamista, durante una operazione militare delle
forze aeree di Gerusalemme. Lo stallo delle negoziazioni è stato
infatti fatale, facendo precipitare una situazione di crisi che già da
tempo si era ulteriormente incancrenita. Dopo di che l’insieme della
cose che abbiamo preso in considerazione deve a sua volta essere
confrontato con altri fronti aperti. Non è probabile che il governo
egiziano arrivi a sfiduciare gli accordi di Camp David e a troncare i
rapporti con Israele. Non può permetterselo perché ha molte spine nel
suo fianco meridionale. La Turchia neo-ottomana di Erdogan deve
vedersela con i curdi. L’Iran potrebbe conoscere qualche cambiamento
con l’eventuale uscita di scena di Ahmadinejad, a conclusione del suo
ultimo mandato presidenziale. Allo stato attuale delle cose, però,
tutto si gioca intorno alla Siria. Hamas guarda anche in quella
direzione, così come deve porsi il problema, del pari al Cairo e a
Gerusalemme, della nuova instabilità che si misura nel Sinai. Il
movimento-regime sa di non avere chance di vittoria contro Israele. E
tuttavia cerca riscontri simbolici molto netti, per puntellare il suo
potere. Non è un caso se si sia autoproclamato “vincitore” nei recenti
scontri. Dopo di che, il perdurare della fragile tregua dipende da
molti elementi che nessuno dei protagonisti in campo riesce da solo a
governare.
Claudio
Vercelli
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Nugae - Sindrome da mancanza di Hannukkah
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Le
città si accendono di lucine colorate, le strade si affollano di grandi
sacchetti pieni di meraviglie, le radio trasmettono canzoni allegre
fino a non poterne più, alberi dai frutti di cristallo spuntano da
tutte le parti. E le amiche cominciano a manifestare i primi sintomi
della sindrome da mancanza di Natale, che ogni anno a quest’epoca fa la
sua comparsa come un’influenza stagionale. “Perché noi non possiamo
godere dello stesso calore e mangiare biscottini davanti al caminetto
scartando regali?”, chiedono. Piuttosto diffusa, la s.m.n. colpisce gli
ebrei un po’ in tutto il mondo da più di un secolo, da quando cioè ha
avuto inizio questa tanto odiosa commercializzazione del Natale. Il
risultato di tutto ciò è stato che, un po’ per consolazione un po’ per
ripicca, anche Hannukkah non ha tardato a subire la stesso processo,
trasformandosi da piccola ricorrenza in grosso evento, in modo da
rendere le vacanze invernali un periodo ugualmente eccitante per tutti.
La massima espressione del fenomeno si ha naturalmente negli Stati
Uniti, come testimonia una vasta bibliografia, in cui compaiono titoli
estrosi come A Kosher Christmas: ‘Tis The Season To Be Jewish o
Hanukkah in America: A History. Ma la novità è che questa tendenza, con
le luminarie di Hannukkah che affiancano sempre più spesso quelle
natalizie e l’ingrandirsi di anno in anno del reparto oggettistica di
Hannukkah dei grandi magazzini, con trottole, CD di musiche tipiche e
monete di cioccolato, si è accresciuta a tal punto da aver
incredibilmente suscitato addirittura l’invidia di quelli che hanno
sempre festeggiato Natale. Complice anche il fatto che nelle scuole si
parla sempre sia dell’una sia dell’altra festività, i giornali
raccontano di come sia ormai comune che bambini non ebrei tornino a
casa lamentandosi di non poter celebrare Hannukkah e facendo i capricci
per farsi comprare un candelabro. Per il momento questa nuovissima
sindrome da mancanza di Hannukkah riguarda solo l’America, ma chissà
che
presto non si diffonda anche in Europa. E forse così le vittime della
s.m.n. si sentiranno un po’ meno incomprese.
Francesca
Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF
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Melamed – Nemiche amiche vicine per calendario
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Fra
Hanukkah e Natale, in un certo senso, non è mai corso buon sangue: due
feste troppo vicine - nonostante il calendario ebraico si diverta a far
ballare la Festa delle luci fra la fine di novembre e e gli ultimi
giorni di dicembre – e con troppe caratteristiche che a un primo
superficiale sguardo sembrano simili. Quanto basta per alimentare una
rivalità, apparentemente scherzosa, condita di battute e vignette e
storielle più o meno ironiche che da anni tentano di conciliare due
festività che, a essere sinceri, possono avere in comune solo la luce
delle candele e i doni ai bambini. E forse neppure quello, visto che i
regali fanno parte della deriva commerciale di entrambe le occasioni.
Una trottola, che in realtà serviva per nascondere un’occasione di
studio insieme e far credere a uno sguardo nemico che si stava solo
giocando, questo era l’unico divertimento per quegli otto giorni di
festa. Neppure Natale, a quanto pare, sarebbe una festa in cui i regali
sono il tema dominante.
E poi? Poi i due mondi si sono avvicinati, e Sankt Nikolaus si è fatto
comprare dalla Coca Cola, ha scambiato il suo abito verde per una
divisa rossa, ed ha iniziato a fare gli straordinari per distribuire
regali. Quei regali che sono diventati sempre di più, e la letterina a
Babbo Natale ha fatto sì che vengano sempre più spesso acquistati su
ordinazione, grazie a genitori spioni che leggono le lettere
indirizzate al Polo Nord. Scritte da bambini che sanno benissimo come
gira il mondo e che riescono a commuovere gli adulti convincendoli che
certo, ovviamente, si sa, Babbo Natale viene solo nelle case dei
bambini che ci credono (e che si sono comportati bene)… E Hanukkah? Non
sarà mica una festa minore? Il fascino degli alberi di Natale
addobbati, il mistero di quella strana cosa chiamata presepe e
soprattutto la frenesia dello shopping di stagione e le centinaia di
pacchetti infiocchettati sono difficili da non notare, per quanto a
casa ci siano famiglie che fanno il possibile, e l’impossibile, per
dare il senso della festa, e Hanukkah di senso da offrire ne ha
tantissimo. I bambini a volte provano a fare i superiori, a scherzare
sulla quantità di Babbi Natale che si arrampicano ormai ovunque, appesi
ai balconi, ma – per essere sinceri - sanno anche che sicuramente fra
trottole e frittelle e monete di cioccolato qualche pacchetto sbucherà.
Perché siamo noi genitori, in realtà, che facciamo il confronto. Siamo
noi adulti che proiettiamo sui bambini le nostre preoccupazioni e, in
un certo senso, cediamo. Provate a chiedere ai bambini perché amano
Hanukkah… saranno pochi quelli che non citeranno i regali. Uno per
sera, ovviamente. Senza dichiararlo, senza ammetterlo, ma il timore che
i nostri cuccioli facciano il paragone con il tripudio di pacchetti
natalizi e che si sentano in un certo senso in difetto esiste. E
cercare di spiegare che no, non tutti festeggiano le stesse cose e che
anzi se vogliamo dirla tutta nel mondo si tratta solo di una piccola
minoranza di persone non basta. Non basta a noi stessi, soprattutto.
E allora è con un piccolo senso di rivalsa, subito coperto da un
altrettanto piccolo senso di colpa per il senso di rivalsa, che si
scopre che in America alla ben nota Christmas envy (l’invidia del
Natale) si sta sostituendo una sempre più diffusa Hanukkah envy, grazie
– grazie? – alla crescente diffusione di hannukiot e decorazioni a tema
negli spazi pubblici. Dalla prima hanukkia accesa alla Casa Bianca nel
1979 da Jimmy Carter, ai party a tema di George Bush, al primo
messaggio augurale del presidente degli Stati Uniti Barak Obama
(nell'immagine), si arriva al dreidel portato nello spazio
dall’astronauta Jeffrey Hoffman. Ovviamente la sovraesposizione è
maggiore ed ha effetti pervasivi nelle aree a maggiore popolazione
ebraica, e in Italia vedere negozi addobbati per Hanukkah è raro. Forse
impossibile. Intanto nelle case si contano i regali, e sceglierne otto
moltiplicato il numero di figli può diventare complicato, anche se
scegliere regali per le persone care è bello, sempre. Carta, nastro
adesivo, fiocchi… si lavora alacremente ma un piccolo disagio di fondo
resta. Poi la bellezza delle luci, il profumo delle frittelle e
soprattutto la gioia dei bambini coprirà ogni cosa, anche quella
piccola invidia che ci portiamo ancora dentro noi genitori, ricordo di
quando eravamo bambini ed abbiamo desiderato per settimane quella
particolare decorazione per l’albero che non aveva senso domandare.
Ada
Treves twitter @atrevermoked
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notizieflash |
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rassegna
stampa |
Qui Roma -
Paolo Mieli discute
il conflitto in Medio Oriente
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Leggi la rassegna |
Oggi al Museo ebraico alle 20 Paolo Mieli dialogherà con il giornalista
Fabio Perugia sul tema “Israele, ebrei ed il conflitto in Medio
Oriente”, in un incontro-aperitivo organizzato dall’Assessorato alle
politiche giovanili della Comunità ebraica di Roma.
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Torna a Gaza dopo 45 anni il leader di Hamas Khaled Meshaal, per una
visita di due giorni concordata con le autorità egiziani (ingresso
nella Striscia attraverso il valico di Rafah) (...)
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