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La potenza della menzogna
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Anna
Foa, in un recente intervento su questa newsletter, dinanzi
all’ennesimo esempio di torsione della realtà, si domandava se la
verità storica - che non è ricostruzione a sé, sezionabile,
opzionabile, assumibile a brandelli, secondo i propri gusti, quelli del
momento, ma dovrebbe invece costituire l’alimento di una coscienza
condivisa - possa ancora affermarsi sulle «favole» e sulle «bugie». È
fin troppo ovvio riscontrare come quella cosa che chiamiamo verità
storica sia per i più, alla resa dei conti, quasi sempre sgradevole, se
non altro perché a distanza di tempo non dà loro necessariamente
ragione, semmai ponendone in evidenza soprattutto i torti. La verità
storica, peraltro, non è mai un bianco contro il nero, un’intransigente
dicotomia, dove una parte ne esce immacolata e l’altra definitivamente
condannata. Essa, nel ricostruire l’operato di una pluralità di attori
e di interpreti, ci restituisce la complessità degli eventi che furono.
Non la loro moralità che, semmai, è affare del giudizio dei posteri.
Chi ragiona altrimenti, finge di cercare la conoscenza “oggettiva” del
passato ricostruendolo invece a propria immagine e somiglianza. Si
tratta, in quest’ultimo caso, di un intervento propriamente ideologico,
dove i trascorsi vengono piegati ai bisogni, agli interessi e alle
passioni dell’oggi. L’occasione di questa riflessione era peraltro
originata dalla pubblicazione e dalla diffusione di due interessanti
volumi, uno di Juri Bossuto e Luca Costanzo e l’altro di Alessandro
Barbero. Entrambi si occupano della vicenda del destino dei soldati
dell’esercito borbonico, sia pure da angolazioni differenti. In
particolare, ed è il caso del primo dei due testi, vengono smontate
colpo su colpe le fantasiose accuse, rivolte alle autorità del nascente
Stato unitario, di avere dato corso ad una vera e propria pratica di
deliberato sterminio nei confronti dei prigionieri meridionali
trattenuti nel forte torinese di Fenestrelle. Una pratica che, nelle
intenzioni degli accusatori, costituirebbe l’indice di una più generale
volontà politica, quella di mettere al sacco economico e in stato di
totale sudditanza politica il Mezzogiorno, altrimenti isola felice,
come poi, sostengono i medesimi, si sarebbe concretamente verificato
nei centocinquanta anni successivi della storia d’Italia, quindi fino
ad oggi. Le voci su Fenestrelle erano già state messe in circolazione
nel passato, ed in particolare in quei lontani anni in cui
l’unificazione si ultimava, soprattutto tra gli ambienti borbonici e in
quelli papalini, con l’obiettivo di delegittimare il giovane Stato.
Avevano poi assunto una sorta di «esistenza autonoma», come sempre
capita alle invenzioni che lievitano da sé, con quel formidabile
passaparola che fortifica il discorso di senso comune. Dietro ad esse,
ovviamente, c’erano – e in misura minore permangono ancora oggi –
interessi irrisolti, legati ai vecchi equilibri frantumati dal processo
di unificazione peninsulare del XIX secolo. Quello che qui ci
interessa, tuttavia, non è il fatto storico preso in considerazione dai
volumi che abbiamo testé menzionato, bensì il meccanismo che sta dietro
alla possente macchina mitologica che alimenta quella sorta di
contro-realtà che riposa sulla menzogna condivisa. Poiché se il
contenuto dei falsi muta di circostanza in circostanza, secondo le
necessità dei singoli casi, la meccanica della falsificazione è invece
quasi sempre la medesima. Non è un caso, infatti, se molti dei
detrattori dei lavori di Bossuto, Costanzo e Barbero, abbiano fatto
fuoco e fiamme su di essi reiterando non solo quelle petulanti accuse
di omissione dei “fatti”, che periodicamente vengono evocate, quasi a
volere credere che in tal modo siano avvalorate ancora di più le
proprie fantasie, ma che ciò facendo siano anche venuti accostando il
tutto alla Shoah. In altre parole, la pretesa della sussistenza di una
volontà omicida da parte delle autorità sabaude, e poi unitarie, viene
accomunata alla politica criminale e assassina del Terzo Reich contro
gli ebrei. Questo atteggiamento, oltre che irritante per la palese
sproporzione storica, nonché per l’oltraggiosità nei riguardi delle
autentiche vittime del passato, è tuttavia indicativo di un meccanismo
di identificazione con la rilevanza dello sterminio nazista. Il tutto,
però, non dal punto di vista, morale e civile, delle vere vittime bensì
sul versante della concorrenza nei loro confronti, per acquisire per
parte propria il loro ruolo, di fatto carpendoglielo. In altre parole:
paragonarsi ai morti dell’Olocausto è politicamente premiante, offre
l’immagine, dinanzi all’opinione pubblica, di avere subito un torto
così grosso da richiedere un risarcimento gigantesco. In ogni circuito
della falsificazione, chi consapevolmente o meno fa proprie le
invenzioni, dando ad esse la plausibilità di un fatto storico, si
presenta infatti come una doppia vittima dell’altrui volontà: vittima
per le presunte violenze subite, vittima per l’oblio al quale queste
sarebbero state consegnate, all’interno di un disegno politico che si
baserebbe sul deliberato occultamento del crimine e, quindi, della sua
memoria. Più in generale, i mistificatori del passato si presentano
sotto la duplice veste di coloro che hanno subito un’offesa
irreparabile ma che, nel medesimo tempo, denunciandone l’esistenza,
intendono liberare l’opinione pubblica dalla coltre della “menzogna”. I
manipolatori, infatti, da sempre indossano i paramenti di sacerdoti
della coscienza collettiva, alla quale porterebbero finalmente la piena
cognizione del “vero”, volutamente omesso dal “potere” per
inconfessabili calcoli di interesse proprio. Dietro a questo
atteggiamento vittimistico, che risulta seducente e quindi convincente
agli occhi (e alle orecchie) di tanti, c’è una strategia complessa, non
riconducibile solo all’ignoranza. Poiché l’affermare il falso è in sé
già una forma di sapere, ancorché ribaltato rispetto ai fatti concreti.
Per meglio dire, è la ricostruzione degli eventi piegandoli secondo le
proprie aspettative. La stessa Anna Foa, nella sua nota, richiamava «la
spiegazione in chiave complottistica della realtà», rimandando all’eco
antisemitico che in essa alberga permanentemente. È un fantasma che si
ripropone con la forza e la possenza di una montagna e dal quale dubito
che saremo mai in grado di liberarci. Da questo punto di vista, per la
coerenza che la menzogna ha in sé, per la sua capacità di presentarsi e
accreditarsi come una lettura non solo alternativa ma esaustiva e
confortante del passato, è infatti assai difficile scalfirla con gli
strumenti della ragione. A quest’ultima, infatti, si contrappone corpo
a corpo, contrastandola con un linguaggio proprio, una narrazione a se
stante, una retorica che non ammette repliche, dei significati
alternativi che il trascorrere del tempo non solo non mette in
discussione ma che semmai fortifica. Chi accetta la menzogna lo fa
perché si sente da essa rassicurato. Gli offre una chiave di
comprensione del presente, altrimenti inafferrabile. Soprattutto, gli
dà la patente di vittima, fornendogli dei bersagli contro i quali
scagliare la sua rabbia. Viene osservato che «la forza del mito, il
potere della menzogna sovrastano il rigore della verità documentaria».
È vero. Nel caso del revisionismo radicale del passato, del
negazionismo così come della ricostruzione fantasiosa e alterata,
viziata dai lucidi deliri, di ciò che è stato, si manifesta la costanza
di una macchina mitologica che coabita, lottandovi contro, con la forza
della comunicazione razionale. Non è una questione meramente
storiografica, come certuni ancora ingenuamente continuano a pensare.
Tra chi torce e sbriciola il passato, ricomponendolo secondo le sue
esigenze, e chi cerca di capire il passato, usando il dubbio lecito
così come la ragione, c’è la differenza che intercorre tra un parassita
e il corpo sul quale questo cerca di soggiornare. È parte stessa della
strategia negazionista simulare che sussista un dibattito “aperto” su
ciò che viene fatto oggetto dei propri strali, quasi che la
contrapposizione tra presunte tesi equivalenti sia un fatto di per sé
lecito perché fondato su un confronto che, in verità, non ha nessuna
ragione d’esistere. Non ce l’ha mancandone i presupposti elementari:
mentre lo studioso, ma anche la persona di buon senso, si pongono il
problema di comprendere attraverso i riscontri e i confronti, il
manipolatore – non importa quanto sia consapevole della funzione che si
è dato e per conto di chi e di cosa parli - ha solo degli articoli di
fede da imporre ossessivamente. Per l’appunto, si tratta non del
confronto ma dello scontro tra ragione e mito. Quest’ultimo, detto per
inciso, senza la grandezza che un tempo ebbe ma piuttosto con la
tracotanza del fondamentalismo culturale e ideologico dei giorni
nostri. La retorica, anch’essa di senso comune, per cui «la storia la
scrivono sempre i vincitori» (e pertanto sarebbe già a priori
destituita di fondamento poiché mera celebrazione apologetica dei
primi), si inserisce di buon grado dentro questa deriva del pensiero.
Di essa ne rinforza la falsa premessa per cui in una società
democratica sarebbe consentita una sola voce (essendo quindi la
democrazia stessa una finzione). Non è così perché la democrazia
implica semmai la coesistenza di voci distinte, e quindi concorrenti,
ma non necessariamente equivalenti. Solo il confronto critico sui loro
fondamenti e sui loro presupposti permette di certificarne, o meno, la
plausibilità. La menzogna si sottrae per definizione a tale
procedimento, celebrandosi come la Verità con la maiuscola, quella che
per il fatto stesso d’essere proclamata non occorre di verifica. Il
passato è un terreno di battaglia, un campo di tensioni perduranti, che
riflettono, in un gioco di specchi all’indietro, gli interessi
contrapposti dell’oggi. Quando esso viene incapsulato dentro la cornice
della mitologia menzognera, sospesa tra fiaba e bugia, allora la
democrazia rischia molto. Ne sono infatti messi in discussione i
presupposti discorsivi, quelli per cui, senza venire meno alla propria
identità, si interloquisce con l’altro evitando un gioco ad esito zero,
dove uno dei due deve scomparire una volta per sempre.
David Bidussa, storico sociale delle idee
Claudio
Vercelli
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Nugae - Mary Poppins
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Fra
un appassionante servizio di telegiornale sugli addobbi per l’albero e
l’ennesima pubblicità di profumi, ogni anno a quest’epoca ecco a un
certo punto fare capolino in televisione, puntuale e sorridente, la
bella Julie Andrews. Tutti hanno visto almeno una volta lo
straordinario musical Disney Mary Poppins, ma fra i tanti film che
vengono riproposti allo sfinimento, questo non stufa mai. Un po’ perché
rassicura ritrovarla lì, di anno in anno sempre praticamente perfetta.
E poi perché Mary Poppins non è solo la storia di un’incredibile tata
che viaggia appesa a un ombrello e fa conversazione con i cagnolini. Se
analizzata nel suo complesso, ritrae un atteggiamento positivo, in cui
ciò che conta è semplicemente la determinazione a fare bene. Senza
retorica e pedagogia melensa da cartoni animati. I più attenti potranno
dunque scorgere in Mary una via di mezzo fra una psicoterapeuta e una
guida spirituale. “Basta un poco di zucchero e la pillola va giù”
l’aveva detto anche Lucrezio in latino. E poi ci sono frasi come “non
giudicare mai le cose dal loro aspetto, nemmeno una valigia” (non si sa
mai, potrebbe sempre contenere un attaccapanni), o “sto fra la cenere,
eppure non c’è nessuno qua giù più felice di me” (questa in realtà è
dello spazzacamino Bert), che attraverso una battuta o una canzoncina
toccano temi che a pensarci bene stanno alla base dei diritti umani. Ma
la migliore è sicuramente supercalifragilistichespiralidoso, la parola
magica che salva quando non si sa che cosa dire. Certamente il motto è
rimasto famoso. Ma forse anche un po’ troppo poco seguito. Perché
l’ideale quando non si sa che cosa dire sarebbe tacere, a dir la
verità. Ma non sempre viene fatto, anzi la tendenza è quella di dire
qualunque cosa in qualunque momento, basta accendere la tv o guardare
Facebook per accorgersene. E allora a quel punto sarebbe molto più
divertente provare a sostituire ogni dichiarazione inutile con questa
dolce parolina, in fondo anche se ti sembra che abbia un suono
spaventoso, se lo dici forte avrai un successo strepitoso. Sì, sarebbe
molto meglio. Supercalifragilistichespiralidoso.
Francesca
Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF
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Sorgente di vita - Pregiudizio
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