In
seguito agli ultimi episodi di intolleranza legati al mondo del calcio,
il presidente della Lazio Claudio Lotito (nel ritratto di Adriano
Dell'Aquila) ha rilasciato al giornale dell'ebraismo italiano Pagine
Ebraiche la seguente intervista, che appare sul numero di gennaio
attualmente in distribuzione .
Arriva
con un po' di ritardo sulla tabella di marcia ma l'attesa è ricambiata
da un colloquio intenso e assolutamente informale. Per due ore – anche
qualcosa di più – Claudio Lotito, verace presidente della Lazio, ci
apre le porte della sua villa romana per parlare di razzismo nel mondo
del calcio, delle iniziative da adottare per contrastare chi diffonde
odio tra gli spalti, dell'impegno di moralità e trasparenza assunto dal
momento del suo ingresso in società. Era l'estate del 2004, la Lazio
sembrava sull'orlo del collasso e vicina a una retrocessione d'ufficio
per demeriti gestionali. Lotito, imprenditore di successo nel settore
delle pulizie, fu accolto come un salvatore della patria. I risultati
sul campo parlano di un piccolo miracolo sportivo: salary cap
relativamente contenuto e piazzamenti da top team. Sul fronte della
“moralizzazione” siamo a buon punto anche se il percorso è ben lontano
dal potersi dire esaurito. Nel corso del colloquio ferma ricorrerà da
parte sua una richiesta, supportata da citazione latina ad hoc
(d'obbligo, per chi conosce il personaggio). “Quo usque tandem abutere,
Catilina, patientia nostra? – si chiede Lotito – Fino a quando dovremo
sopportare questo accanimento? Basta con i processi mediatici, la
tifoseria laziale non è razzista”.
Presidente, non negherà che esista una pericolosa deriva estremista tra i supporter biancocelesti.
E invece contesto questa lettura. È una visione distorta, estremamente
dannosa per tutti quanti. Per il sottoscritto, per i tifosi, per
l'immagine del calcio italiano nel mondo.
Eppure alcuni episodi, supportati da foto e video inequivocabili, sembrano indicarci un orientamento diverso.
Mi sembra palese che siamo di fronte a strumentalizzazioni di episodi
numericamente ristretti ma che, attraverso la penetrazione invasiva dei
moderni strumenti tecnologici, attraverso un sistema di cattiva
informazione che contesto senza mezzi termini, esasperano gli animi e
ci allonanano dalla verità.
E quale sarebbe la verità?
La verità è che questi episodi sono riconducibili a un numero di
persone decisamente limitato. Siamo in presenza di un fenomeno
marginale che deve essere riportato con rigore e correttezza da chi ha
responsabilità nel mondo della comunicazione. Molto spesso questo non
avviene e così ci ritroviamo costantemente nell'occhio del ciclone per
pochi scemi quando tutti sanno quanto sia forte e proficuo il nostro
sforzo per isolare i violenti. Il razzismo fa schifo, è una piaga
sociale da estirpare senza la minima esitazione. Ma non si combatte
gettando discredito su una società e alimentando polemiche sterili.
Vogliamo ricordare cosa accadeva fino a pochi anni fa? Devo citare il
caso Winter e tanti altri deprecabili episodi? Non è palese
l'inversione di tendenza? Francamente mi sono stufato di sentire così
tante illazioni sul nostro conto. C'è persino chi è arrivato a chiedere
l'esclusione della Lazio dalle coppe europee dopo i fatti di Campo dei
Fiori. Che c'entra la Lazio? Che c'entra la nostra tifoseria con
quell'orribile episodio?
E con i cori antisemiti
cantati in Curva Nord durante l'incontro con il Tottenham, peraltro
ultimo atto di una serie di manifestazioni verbali aggressive?
Io non li ho sentiti e comunque si tratta di poche decine di persone. Sfido chiunque a dimostrare il contrario.
Non crede che questa dichiarazione potrebbe essere interpretata come un disimpegno?
No e lo dico costruttivamente, da amico di provata fede di Israele e
della Comunità ebraica. Credo che porre troppa enfasi su questi episodi
finisca per dare eccessiva visibilità a fenomeni minoritari che noi
tutti siamo chiamati a contrastare nel modo più adeguato. Dobbiamo
essere vigili perché l'emulazione, con le demenziali regole del branco,
è un pericolo davvero forte in questi casi. Avverto un clima d'allarme
eccessivo. Non nego che talvolta accadano episodi spiacevoli ma stiamo
alimentando un mostro che non esiste più. Non tutti avranno la sua stessa lettura dei fatti.
Pazienza, sono stanco di essere offeso.
Offeso?
Sì, offeso. Chi offende la Lazio e i suoi tifosi offende il
sottoscritto. Pochi sembrano ricordarsi che vivo sotto scorta e pago
ogni giorno il prezzo del mio impegno contro i violenti con una libertà
di movimento limitata. Lei arrivò alla Lazio nel 2004 prometendo nuova
moralità nel mondo del calcio.
Cos'è cambiato da allora?
Tante cose.
Sia più preciso.
Voglio dire che da quando sono arrivato io certi personaggi hanno
smesso di frequentare le curve. Chi è rimasto, di quella risma, è
assoluta minoranza. D'altronde è impensabile eliminare del tutto la
stoltezza dall'umanità. Un livello minimo di inettitudine è fisiologico
ma non deve farci desistere dal portare avanti determinate battaglie.
Voglio comportamenti ineccepibili anche dai nostri giocatori. È per
questo che con alcuni di loro ho preferito non proseguire il rapporto
di lavoro.
A chi si riferisce?
Mi riferisco a Paolo Di Canio, ad esempio. Ho trovato che il suo
atteggiamento non rispecchiasse i valori in cui credo e che sto
cercando di proiettare in tutto l'ambiente calcistico. Così, pur
consapevole di inimicarmi una parte della curva, ho preferito non
dilatare ulteriormente la sua avventura alla Lazio.
Quanto le è costata quella decisione?
Nella mia squadra non c'è e mai potrà esserci spazio per chi non
conduca esperienze di vita esemplari. La stessa vicenda del
calcioscommesse mi fa dormire sonni tranquilli. Mi fido dei nostri
tesserati, so bene quali straordinarie qualità umane abbiano.
Più volte ha parlato di “modello Lazio”. Che cosa intende con questo concetto?
Calciatori che prima di essere bravi con il pallone tra i piedi siano
un gruppo coeso, formato da persone che condividono gli stessi principi
e valori. In una società che si fa sempre più multiculturale la Lazio
deve essere espressione del cambiamento. Tante identità in campo e la
consapevolezza di essere un modello per migliaia di giovani. Anche per
questo ho voluto Petkovic alla guida. Chi meglio di una persona che
parla otto lingue, fa beneficenza e aiuta – in silenzio – così
tanta gente, nel ruolo di nostro ambasciatore nel mondo?
Adam Smulevich, Pagine Ebraiche, gennaio 2013 twitter @asmulevichmoked
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Una guerra incivile - Riflessioni sui risultati
della commissione storica congiunta tra Italia e Germania
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Non
fu guerra civile. Semmai fu guerra contro i civili. E scusate se la
differenza non è da poco. Non si tratta infatti di un gioco di parole
bensì dello sforzo di identificare e definire una volta per sempre la
natura del conflitto che ebbe come teatro di svolgimento l’Italia nel
biennio 1943-1945, non più fascista ma dilacerata da un confronto
armato, a più livelli, che l’attraversava da nord a sud. Tra l’8
settembre del 1943, quando ciò che restava del sistema amministrativo e
civile del Regno d’Italia crollava, insieme al clamoroso dissolvimento
del Regio esercito, e il 2 maggio 1945, quando la resa incondizionata
delle truppe tedesche e delle milizie repubblichine sancì la
conclusione del violentissimo confronto bellico, la nostra penisola
conobbe uno dei periodi più cupi della sua lunga storia. La caccia
all’ebreo - a partire dalla strage settembrina a Meina, passando per la
razzia romana dell’ottobre successivo,continuando con gli arresti e le
deportazioni sistematiche verso i campi della morte -, era solo
l’epitome, ovvero il tragico suggello, di un regime di occupazione
nazista che usava la pagliaccesca complicità dei collaborazionisti
della cosiddetta Repubblica sociale italiana come compiaciuta foglia di
fico. Molti storici hanno a lungo lavorato su questi temi, a partire
Lutz Klinkhammer, che già vent’anni fa aveva pubblicato un accurato e
misurato lavoro sulla «Occupazione tedesca dell’Italia» (Torino, 1993),
poi seguito da una riflessione sulle «Stragi naziste in Italia. La
guerra contro i civili 1943-44» (Bari, 1996). Alle immagini
stereotipate e convenzionali che prendevano in scarsa considerazione le
conseguenze, congiunte, della politica criminale del Terzo Reich verso
gli italiani, del tradimento delle élite amministrative e regie e dei
vertici dell’esercito nei confronti della popolazione nonché
dell’ultimo sussulto, assassino, del fascismo oramai morente, si è
infatti sostituita, in questi ultimi decenni, una sensibilità diversa.
La storiografia ha fatto dei passi in avanti, permettendoci uno sguardo
più diretto e sincero. Già era avvenuto nel merito della complessa e
dolorosissima vicenda del "confine orientale", tra Trieste e la
Dalmazia, dove tra il 1943 e il 1953 si era consumata la fuga in massa
della popolazione italiana e di radiceitalofona. In quel caso, a
sistematizzare razionalmente i fatti (e non a generare una paludata
"verità di Stato") erano intervenuti gli esiti della riflessione
congiunta prodotta dal lavoro della commissione di storici
italo-sloveni, riunitisi più volte tra il 1993 e il 2000. Da tale
impegno era derivato un testo di nitidezza esemplare, che cercava di
comprendere, ma non certo di giustificare, la meccanica degli eventi e
la pluralità dei loro protagonisti. Sforzo similare è quello che è
stato compiuto da un’altra commissione congiunta, questa volta
italo-tedesca, istituita nel 2008 e nominata nel marzo del 2009,
composta dal già citato Lutz Klinkhammer, da Gabriele Hammermann, da
Thomas Schlemmer, da Hans Woller, da Carlo Gentile,da Paolo Pezzino, da
Valeria Silvestri, da Aldo Venturelli nonché presieduta
pariteticamente da Mariano Gabriele, già docente di storia moderna e
contemporanea e presidente della Società italiana di storia militare, e
da Wolfgang Schieder, anch’egli già docente a Tubinga e a Colonia oltre
che presidente della commissione scientifica dell’Istituto storico
germanico di Roma. L’oggetto era, in questo caso, il rapporto tra
italiani e tedeschi nel biennio dell’occupazione germanica del nostro
paese. Il rapporto di circa duecento pagine che ne è derivato, firmato
nel luglio di quest’anno, è articolato in cinque
parti: italiani e tedeschi tra il 1943 e il 1945, la prospettiva dei
soldati tedeschi, le esperienze della popolazione italiane con le forze
d’occupazione tedesche, le esperienze degli internati militari italiani
e, infine, le raccomandazioni della commissione. Dalla sua
presentazione al pubblico, anche in questo caso in forma congiunta,
alla Farnesina nei giorni scorsi, con la partecipazione del ministro
degli Affari esteri italiano Giulio Terzi e del suo omologo tedesco
Guido Westerwelle, è emerso il quadro della presenza nazista nel
tragici diciannove mesi che portarono alla conclusione il conflitto
armato che stavamo vivendo sulla nostra pelle. I riferimenti più
significati che il rapporto fa sono alla coesistenza – e all’azione di
reciproco rinforzo – di tre guerre: la prima di esse condotta quasi
esclusivamente dai tedeschi contro gli angloamericani, che con due
armate stavano risalendo, non senza difficoltà, la penisola; la seconda
combattuta dalle SS, dalla Wehrmacht (l’allora esercito tedesco) e dai
raccogliticci reparti del neofascismo saloino contro il partigianato,
secondo metodi di particolare violenza, a tratti di efferatezza, e
criteri di "scarso rispetto del diritto internazionale"; la terza, ed è
forse quella di maggiore interesse per gli studiosi dell’oggi ma anche
per tutta l’opinione pubblica, contro la popolazione civile italiana,
laddove in molti casi il rapporto conflittuale deragliò in uno scontro
al di fuori di qualsiasi legittimità, condotto dai tedeschi "con mezzi
criminali". All’interno di questo prisma c’è poco o nessun spazio per
la nozione di "guerra civile" che, invece, prima la pubblicistica
neofascista (e soprattutto la sua più importante firma, quella di
Giorgio Pisanò) e poi in parte quella liberale (con Renzo De Felice e
poi Ernesto Galli della Loggia), la cattolica (Pietro Scoppola),
l’azionista (Giorgio Bocca e, soprattutto, Claudio Pavone, che vi ha
dedicato un fondamentale libro intitolato per l’appunto Una guerra
civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza) e quella di
taglio più marcatamente revisionista (tra tutti Giorgio Pansa, che ha
ottenuto un riscontro di pubblico, in questi ultimi dieci anni, tale da
fare pensare che abbia costruito una vera e propria ipoteca sul sentire
comune dei più) hanno invece assunto, sia pure da prospettive e con
obiettivi tra di loro anche molto differenti. Non fu guerra civile ma
guerra contro i civili. Il rapporto si incentra, tra le altre cose, sul
collaborazionismo repubblichino e sulla compromissione dei suoi
esponenti, come delle sue milizie armate (che non avevano lo status di
esercito), nella durissima lotta antipartigiana così come nellefunzioni
esercitate dall’occupante nel quadro delle sue prerogative di dominio.
L’immagine che ne esce di ciò che rimaneva dell’allora fascismo è senza
attenuanti, se mai ce ne fosse stato un qualche bisogno o una residua
opportunità. Ed è anche in ragione di questo che tale stato di cose che
viene fagocitato completamente qualsiasi rimando alla nozione di
"guerra civile", rendendola per più aspetti scarsamente funzionale
all’interpretazione dei fatti accaduti tra il 1943 e il 1945. Se una
spaccatura si misurò in Italia, in quel biennio terribile, questa non
fu tra due tronconi della società nazionale ideologicamente
contrapposti, l’uno a favore della continuazione della guerra nell’Asse
germano-italico e l’altro diversamente disposto. Semmai si consumò una
divisione tra la popolazione di un paese che era divenuta inerme terra
di dominio tedesco, da un lato, e i serventi fascisti dall’altro,
questi ultimi supinamente allineati alle posizioni più odiose del Terzo
Reich. Anche da questa fondamentale considerazione deriva quindi
l’inaccettabilità, non solo morale ma anche funzionale, della
parificabilità tra due parti, da intendersi altrimenti come dotate di
pari legittimità, perché contrapposte e combattenti sul medesimo piano:
quella nazifascista e quella partigiana e antifascista. Tale tipo di
perdurante approccio, fortemente ideologico, volto oggi a denunciare
l’antifascismo come un elemento da superare proprio perché strettamente
legato alle passioni di un tempo che non c’è più, e quindi indirizzato
a perpetuare la trascorsa “divisione del paese”, omette completamente
di indicare gli elementi fattuali dell’occupazione tedesca. Il rapporto
della commissione si sofferma invece ripetutamente su di essi, con un
encomiabile sforzo di equilibrio, non intendendo assolvere ad un ruolo
requisitorioma cercando di proseguire l’indagine storica, costruendo
quindi nessi di significato. Più che un elenco fine a sé di fatti e
misfatti si tratta del tentativo di indagare, congiuntamente, sulle
percezioni tedesche dell’Italia di allora, sull’esperienza che i
militari germanici, inviati nel nostro paese, fecero di esso, sui
rapporti che si stabilirono con la popolazione civile. Il rapporto non
rivela nulla di assolutamente nuovo, non intendendo assecondare la
vulgata sensazionalista che è invece tipica dei revisionismo. Buona
parte delle fonti a disposizione ci permettono di avere un quadro
sufficientemente chiaro di quel che fu, degli scenari così come dei
protagonisti. La linea di divisione tra vittime e carnefici è quindi
chiara e non ha la matrice semplificatoria dell’appartenenza nazionale
(i tedeschi tutti cattivi e gli italiani immensamente buoni) bensì
quella della responsabilità politica. Non di meno, ne emerge anche la
cornice di una guerra criminale, tale perché condotta soprattutto
contro un bersaglio indifeso, i civili. In questo caso noi italiani.
Una considerazione a latere si impone, quindi. Il tentativo, sospeso
tra un veteronazionalismo populistico d’accatto e un revanscismo
fascistoide, di intorbidare il passato mettendo tutti sul medesimo
piano, non ha nessun fondamento storico né, tanto meno, scientifico.
Ciò va detto non tanto per tutelare le prerogative particolaristiche di
una disciplina, la ricerca storica, che spesso ripiega su di sé, senza
parlare al grande pubblico, ma per iniettare nel dibattito collettivo
elementi di giudizio fondati. Cosa che necessita tanto di più dal
momento che il revisionismo di bassa lega, quello che si fonda sul
pregiudizio, oggi trova un terreno di saldatura in un sentimento
antitedesco che nulla ha a che fare con la realtà delle cose.
L’ostilità nei confronti della Germania, infatti, corre sui binari non
del severo metro di valutazione del suo passato quanto su un’ambigua
avversione per il suo presente di paese forte nel consesso europeo. Il
lavoro della commissione congiunta ci segnala non solo come si possa
fare luce sui trascorsi senza che ciò si traduca da subito in una sorta
di funzione tribunalizia, con accuse a ripetizione e difese sospette,
le une e le altre destinate ad approfondire il solco e non a colmarlo,
ma su quali siano i supporti per una storia realmente condivisa, basata
non su improbabili “pacificazioni” bensì su una riconciliazione che
parte dal riconoscimento delle responsabilità.
Claudio
Vercelli
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Nugae - Elishama Levinski
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Se
Elishama Levinski non fosse un personaggio di uno dei racconti di Karen
Blixen (Capricci del destino, La storia immortale), sarebbe sicuramente
qualcuno che vorrei incontrare di persona. Ebreo, nato in Polonia,
tutta la sua famiglia muore uccisa nel grande pogrom del 1848, quando
ha solo sei anni. Si unisce a un altro gruppo di ebrei che riescono a
scappare, ma da allora “come un pacchetto di merce poco richiesta”
vagabonda per l’Europa solo e abbandonato, completamente in balia del
caso. Finché poi non s’imbarca verso Oriente, e non va a lavorare in
Cina come impiegato negli uffici del signor Clay, un commerciante
inglese esageratamente ricco e così arido che mette quasi malinconia.
Per questo non stupisce che il povero Elishama sia ormai privo di ogni
desiderio, tranne quello di stare tranquillo, di essere lasciato in
pace, chiuso nel silenzio del piccolo sgabuzzino in cui abita. Non uno
con cui farsi grandi chiacchierate, d’accordo. Però proprio tutto
questo errare e questo soffrire fanno di lui uno dei personaggi più
saggi che potrebbero mai esistere, una specie di filosofo, ma con più
senso pratico. Certo, la figura dell’ebreo errante che non avendo nulla
si ciba di libri è un classico, ma qua non si tratta nemmeno di questo,
perché Elishama sa a malapena leggere, e l’unica cosa scritta che
possiede è un foglietto con un pezzo di una profezia di Isaia datogli
da un vecchio ebreo polacco morto in viaggio. Lui è diverso perché
l’uomo che è nato da tutte queste peripezie non è, come può apparire,
un’anima spenta e pessimista perché annebbiata dal dolore.
Analizzandolo più in profondità si vede come sia invece un individuo la
cui visuale di ciò che lo circonda è talmente disincantata da essere
perfetta, ma non per questo distaccata, capace di comprendere ciò che
spinge le persone ad agire. A tal punto da aiutare il signor Clay nella
sua impresa impossibile di realizzare una leggenda raccontata dai
marinai sulle navi. “Elishama parteggiava sempre con l’individuo contro
al mondo, dato che, per quanto pazzo potesse essere l’individuo, il
mondo in generale soffriva certamente di un’idiozia ancora più perfida
e inguaribile”. E forse il modo giusto di affrontare le cose è tutto
qua.
Francesca
Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF
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notizieflash |
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rassegna
stampa |
Cinguettii in arabo per Netanyahu
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Leggi la rassegna |
Il
primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha aperto oggi un account
twitter in arabo (@Israelipm_ar). "Saluti dalla Città Santa di
Gerusalemme, lo scopo di questo account è approfondire il dialogo con
voi" ha twittato ai suoi follower a Beirut, Bagdad, Il Cairo, e Amman.
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In primo piano nella rassegna di oggi alcune notizie dal Medio Oriente.
Prima fra tutte quella del voto in Egitto per approvare la nuova
Costituzione di chiara impronta islamista. Di tensioni e paese spaccato
riferisce Cecilia Zecchinelli sul Corriere della Sera.
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