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  23 dicembre 2012 - 10 Tevet 5773
l'Unione informa
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moked è il portale dell'ebraismo italiano
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Jonathan Sacks, rabbino capo
del Commonwealth



Per quanto grande possa essere un individuo in virtù del suo naturale carattere, ancora più grande è colui che è capace di crescere e cambiare.
David Bidussa, storico sociale
delle idee
   

Le parole hanno significati. Alcune di esse destano anche sensazioni. La parola “comunità” rientra tra queste. Comunità è intesa come “luogo caldo”, intimo, confortevole, caratterizzato da reciproca comprensione. Non sono sicuro che sia proprio così, ma diciamo che c’è un desiderio che sia così.
Alcuni anni fa il sociologo Zygmunt Bauman riflettendo sulla dimensione della comunità come desiderio (“Voglia di comunità”, Laterza, Roma–Bari 2001, p. 6) non ha mancato di richiamare la nostra attenzione proponendo di distinguere tra la comunità dei nostri sogni e ciò che chiama la ‘comunità realmente esistente’ specificando come con questo termine sia da intendere “una collettività che pretende di essere la comunità incarnata e che a partire da questa convinzione esige una lealtà incondizionata in cui qualsiasi altro atteggiamento è percepito come un imperdonabile atto di tradimento". “La ‘comunità realmente esistente’ – prosegue Bauman – qualora ce ne trovassimo partecipi, reclamerebbe ubbidienza assoluta in cambio dei servizi erogati o che promette di erogare”.
E perciò si chiede: “Desideri la sicurezza? Cedi la tua libertà, o quanto meno buona parte di essa. Desideri la tranquillità? Non fidarti di nessuno al di fuori della comunità. Desideri la reciproca comprensione? Non parlare con gli estranei e non usare lingue straniere. Desideri provare questa piacevole sensazione di intimo ambiente familiare? Istalla un allarme alla porta e un sistema di telecamere nel giardino. Desideri l’incolumità? Non far entrare estranei ed evita a tua volta comportamenti strani e pensieri bizzarri. Desideri calore? Non avvicinarti alle finestre e non osare mai aprirne una”. E termina: “Il problema è che se si segue questo consiglio e si tengono le finestre chiuse, l’aria all’interno diventa ben presto stantia e alla fine irrespirabile”.

davar
Il presidente della Lazio Lotito: “Il razzismo non mi va giù”
In seguito agli ultimi episodi di intolleranza legati al mondo del calcio, il presidente della Lazio Claudio Lotito (nel ritratto di Adriano Dell'Aquila) ha rilasciato al giornale dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche la seguente intervista, che appare sul numero di gennaio attualmente in distribuzione .

Arriva con un po' di ritardo sulla tabella di marcia ma l'attesa è ricambiata da un colloquio intenso e assolutamente informale. Per due ore – anche qualcosa di più – Claudio Lotito, verace presidente della Lazio, ci apre le porte della sua villa romana per parlare di razzismo nel mondo del calcio, delle iniziative da adottare per contrastare chi diffonde odio tra gli spalti, dell'impegno di moralità e trasparenza assunto dal momento del suo ingresso in società. Era l'estate del 2004, la Lazio sembrava sull'orlo del collasso e vicina a una retrocessione d'ufficio per demeriti gestionali. Lotito, imprenditore di successo nel settore delle pulizie, fu accolto come un salvatore della patria. I risultati sul campo parlano di un piccolo miracolo sportivo: salary cap relativamente contenuto e piazzamenti da top team. Sul fronte della “moralizzazione” siamo a buon punto anche se il percorso è ben lontano dal potersi dire esaurito. Nel corso del colloquio ferma ricorrerà da parte sua una richiesta, supportata da citazione latina ad hoc (d'obbligo, per chi conosce il personaggio). “Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? – si chiede Lotito – Fino a quando dovremo sopportare questo accanimento? Basta con i processi mediatici, la tifoseria laziale non è razzista”.

Presidente, non negherà che esista una pericolosa deriva estremista tra i supporter biancocelesti.
E invece contesto questa lettura. È una visione distorta, estremamente dannosa per tutti quanti. Per il sottoscritto, per i tifosi, per l'immagine del calcio italiano nel mondo.
Eppure alcuni episodi, supportati da foto e video inequivocabili, sembrano indicarci un orientamento diverso.
Mi sembra palese che siamo di fronte a strumentalizzazioni di episodi numericamente ristretti ma che, attraverso la penetrazione invasiva dei moderni strumenti tecnologici, attraverso un sistema di cattiva informazione che contesto senza mezzi termini, esasperano gli animi e ci allonanano dalla verità.
E quale sarebbe la verità?
La verità è che questi episodi sono riconducibili a un numero di persone decisamente limitato. Siamo in presenza di un fenomeno marginale che deve essere riportato con rigore e correttezza da chi ha responsabilità nel mondo della comunicazione. Molto spesso questo non avviene e così ci ritroviamo costantemente nell'occhio del ciclone per pochi scemi quando tutti sanno quanto sia forte e proficuo il nostro sforzo per isolare i violenti. Il razzismo fa schifo, è una piaga sociale da estirpare senza la minima esitazione. Ma non si combatte gettando discredito su una società e alimentando polemiche sterili. Vogliamo ricordare cosa accadeva fino a pochi anni fa? Devo citare il caso Winter e tanti altri deprecabili episodi? Non è palese l'inversione di tendenza? Francamente mi sono stufato di sentire così tante illazioni sul nostro conto. C'è persino chi è arrivato a chiedere l'esclusione della Lazio dalle coppe europee dopo i fatti di Campo dei Fiori. Che c'entra la Lazio? Che c'entra la nostra tifoseria con quell'orribile episodio?
E con i cori antisemiti cantati in Curva Nord durante l'incontro con il Tottenham, peraltro ultimo atto di una serie di manifestazioni verbali aggressive?
Io non li ho sentiti e comunque si tratta di poche decine di persone. Sfido chiunque a dimostrare il contrario.
Non crede che questa dichiarazione potrebbe essere interpretata come un disimpegno?
No e lo dico costruttivamente, da amico di provata fede di Israele e della Comunità ebraica. Credo che porre troppa enfasi su questi episodi finisca per dare eccessiva visibilità a fenomeni minoritari che noi tutti siamo chiamati a contrastare nel modo più adeguato. Dobbiamo essere vigili perché l'emulazione, con le demenziali regole del branco, è un pericolo davvero forte in questi casi. Avverto un clima d'allarme eccessivo. Non nego che talvolta accadano episodi spiacevoli ma stiamo alimentando un mostro che non esiste più. Non tutti avranno la sua stessa lettura dei fatti.
Pazienza, sono stanco di essere offeso.
Offeso?
Sì, offeso. Chi offende la Lazio e i suoi tifosi offende il sottoscritto. Pochi sembrano ricordarsi che vivo sotto scorta e pago ogni giorno il prezzo del mio impegno contro i violenti con una libertà di movimento limitata. Lei arrivò alla Lazio nel 2004 prometendo nuova moralità nel mondo del calcio.
Cos'è cambiato da allora?
Tante cose.
Sia più preciso.
Voglio dire che da quando sono arrivato io certi personaggi hanno smesso di frequentare le curve. Chi è rimasto, di quella risma, è assoluta minoranza. D'altronde è impensabile eliminare del tutto la stoltezza dall'umanità. Un livello minimo di inettitudine è fisiologico ma non deve farci desistere dal portare avanti determinate battaglie. Voglio comportamenti ineccepibili anche dai nostri giocatori. È per questo che con alcuni di loro ho preferito non proseguire il rapporto di lavoro.
A chi si riferisce?
Mi riferisco a Paolo Di Canio, ad esempio. Ho trovato che il suo atteggiamento non rispecchiasse i valori in cui credo e che sto cercando di proiettare in tutto l'ambiente calcistico. Così, pur consapevole di inimicarmi una parte della curva, ho preferito non dilatare ulteriormente la sua avventura alla Lazio.
Quanto le è costata quella decisione?
Nella mia squadra non c'è e mai potrà esserci spazio per chi non conduca esperienze di vita esemplari. La stessa vicenda del calcioscommesse mi fa dormire sonni tranquilli. Mi fido dei nostri tesserati, so bene quali straordinarie qualità umane abbiano.
Più volte ha parlato di “modello Lazio”. Che cosa intende con questo concetto?
Calciatori che prima di essere bravi con il pallone tra i piedi siano un gruppo coeso, formato da persone che condividono gli stessi principi e valori. In una società che si fa sempre più multiculturale la Lazio deve essere espressione del cambiamento. Tante identità in campo e la consapevolezza di essere un modello per migliaia di giovani. Anche per questo ho voluto Petkovic alla guida. Chi meglio di una persona che parla otto lingue, fa beneficenza  e aiuta – in silenzio – così tanta gente, nel ruolo di nostro ambasciatore nel mondo?

Adam Smulevich, Pagine Ebraiche, gennaio 2013
twitter @asmulevichmoked

Il Movimento Cinque Stelle e il Giorno della Memoria
Il rappresentante del Movimento Cinque Stelle al Consiglio di Zona 3 di Milano Patrizia Bedori ha votato contro la proposta di finanziamento a tre spettacoli per la celebrazione del Giorno della Memoria. Una scelta comunicata con le lacrime agli occhi perché dettata dalle indicazioni degli attivisti del Movimento attraverso la rete, e non dalle convinzioni personali.
Gli attivisti del Movimento Cinque Stelle del Consiglio di Zona 3 di Milano si sono espressi contro il finanziamento attraverso il forum e al consigliere non è rimasto altro da fare che seguire l’indicazione di voto. “Mi sono emozionata perché personalmente ero favorevole alle iniziative in occasione della Shoah - ha dichiarato - ma noi eletti siamo solo portavoce”. "Spero che Grillo intervenga personalmente e con parole chiare – l’auspicio del portavoce della Comunità ebraica di Milano Daniele Nahum - Questa non è la prima uscita infelice del Movimento 5 Stelle. Spesso i commenti in rete degli attivisti grillini sfociano nella xenofobia”.
La notizia della presa di posizione del Movimento Cinque Stelle al Consiglio di Zona 3 è rimbalzata sui social network. La risposta non si è fatta attendere. “E’ la zona 3 di Milano a fornire il nuovo pretesto per una campagna mediatica di sistema - si legge nel comunicato - gli attivisti 5 stelle in zona 3, hanno deciso, in questo momento di gravissima crisi economica, di  concentrare con priorità assoluta le pur esigue risorse di zona, su iniziative a favore dei meno fortunati fra i nostri concittadini (…) Cogliamo l’occasione per chiarire che noi del movimento 5 stelle abbiamo la memoria nel nostro DNA e la trasmetteremo anche ai nostri figli perché crediamo che i massacri e le persecuzioni razziali, religiose, di genere, politiche, siano tutte da ricordare e da condannare”.
Gli spettacoli si faranno comunque perché il finanziamento è stato votato all’unanimità da tutti gli altri consiglieri.

pilpul
Una guerra incivile - Riflessioni sui risultati
della commissione storica congiunta tra Italia e Germania
Non fu guerra civile. Semmai fu guerra contro i civili. E scusate se la differenza non è da poco. Non si tratta infatti di un gioco di parole bensì dello sforzo di identificare e definire una volta per sempre la natura del conflitto che ebbe come teatro di svolgimento l’Italia nel biennio 1943-1945, non più fascista ma dilacerata da un confronto armato, a più livelli, che l’attraversava da nord a sud. Tra l’8 settembre del 1943, quando ciò che restava del sistema amministrativo e civile del Regno d’Italia crollava, insieme al clamoroso dissolvimento del Regio esercito, e il 2 maggio 1945, quando la resa incondizionata delle truppe tedesche e delle milizie repubblichine sancì la conclusione del violentissimo confronto bellico, la nostra penisola conobbe uno dei periodi più cupi della sua lunga storia. La caccia all’ebreo - a partire dalla strage settembrina a Meina, passando per la razzia romana dell’ottobre successivo,continuando con gli arresti e le deportazioni sistematiche verso i campi della morte -, era solo l’epitome, ovvero il tragico suggello, di un regime di occupazione nazista che usava la pagliaccesca complicità dei collaborazionisti della cosiddetta Repubblica sociale italiana come compiaciuta foglia di fico. Molti storici hanno a lungo lavorato su questi temi, a partire Lutz Klinkhammer, che già vent’anni fa aveva pubblicato un accurato e misurato lavoro sulla «Occupazione tedesca dell’Italia» (Torino, 1993), poi seguito da una riflessione sulle «Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili 1943-44» (Bari, 1996). Alle immagini stereotipate e convenzionali che prendevano in scarsa considerazione le conseguenze, congiunte, della politica criminale del Terzo Reich verso gli italiani, del tradimento delle élite amministrative e regie e dei vertici dell’esercito nei confronti della popolazione nonché dell’ultimo sussulto, assassino, del fascismo oramai morente, si è infatti sostituita, in questi ultimi decenni, una sensibilità diversa. La storiografia ha fatto dei passi in avanti, permettendoci uno sguardo più diretto e sincero. Già era avvenuto nel merito della complessa e dolorosissima vicenda del "confine orientale", tra Trieste e la Dalmazia, dove tra il 1943 e il 1953 si era consumata la fuga in massa della popolazione italiana e di radiceitalofona. In quel caso, a sistematizzare razionalmente i fatti (e non a generare una paludata "verità di Stato") erano intervenuti gli esiti della riflessione congiunta prodotta dal lavoro della commissione di storici italo-sloveni, riunitisi più volte tra il 1993 e il 2000. Da tale impegno era derivato un testo di nitidezza esemplare, che cercava di comprendere, ma non certo di giustificare, la meccanica degli eventi e la pluralità dei loro protagonisti. Sforzo similare è quello che è stato compiuto da un’altra commissione congiunta, questa volta italo-tedesca, istituita nel 2008 e nominata nel marzo del 2009, composta dal già citato Lutz Klinkhammer, da Gabriele Hammermann, da Thomas Schlemmer, da Hans Woller, da Carlo Gentile,da Paolo Pezzino, da Valeria  Silvestri, da Aldo Venturelli nonché presieduta pariteticamente da Mariano Gabriele, già docente di storia moderna e contemporanea e presidente della Società italiana di storia militare, e da Wolfgang Schieder, anch’egli già docente a Tubinga e a Colonia oltre che presidente della commissione scientifica dell’Istituto storico germanico di Roma. L’oggetto era, in questo caso, il rapporto tra italiani e tedeschi nel biennio dell’occupazione germanica del nostro paese. Il rapporto di circa duecento pagine che ne è derivato, firmato nel luglio di  quest’anno, è  articolato in  cinque parti: italiani e tedeschi tra il 1943 e il 1945, la prospettiva dei soldati tedeschi, le esperienze della popolazione italiane con le forze d’occupazione tedesche, le esperienze degli internati militari italiani e, infine, le raccomandazioni della commissione. Dalla sua presentazione al pubblico, anche in questo caso in forma congiunta, alla Farnesina nei giorni scorsi, con la partecipazione del ministro degli Affari esteri italiano Giulio Terzi e del suo omologo tedesco Guido Westerwelle, è emerso il quadro della presenza nazista nel tragici diciannove mesi che portarono alla conclusione il conflitto armato che stavamo vivendo sulla nostra pelle. I riferimenti più significati che il rapporto fa sono alla coesistenza – e all’azione di reciproco rinforzo – di tre guerre: la prima di esse condotta quasi esclusivamente dai tedeschi contro gli angloamericani, che con due armate stavano risalendo, non senza difficoltà, la penisola; la seconda combattuta dalle SS, dalla Wehrmacht (l’allora esercito tedesco) e dai raccogliticci reparti del neofascismo saloino contro il partigianato, secondo metodi di particolare violenza, a tratti di efferatezza, e criteri di "scarso rispetto del diritto internazionale"; la terza, ed è forse quella di maggiore interesse per gli studiosi dell’oggi ma anche per tutta l’opinione pubblica, contro la popolazione civile italiana, laddove in molti casi il rapporto conflittuale deragliò in uno scontro al di fuori di qualsiasi legittimità, condotto dai tedeschi "con mezzi criminali". All’interno di questo prisma c’è poco o nessun spazio per la nozione di "guerra civile" che, invece, prima la pubblicistica neofascista (e soprattutto la sua più importante firma, quella di Giorgio Pisanò) e poi in parte quella liberale (con Renzo De Felice e poi Ernesto Galli della Loggia), la cattolica (Pietro Scoppola), l’azionista (Giorgio Bocca e, soprattutto, Claudio Pavone, che vi ha dedicato un fondamentale libro intitolato per l’appunto Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza) e quella di taglio più marcatamente revisionista (tra tutti Giorgio Pansa, che ha ottenuto un riscontro di pubblico, in questi ultimi dieci anni, tale da fare pensare che abbia costruito una vera e propria ipoteca sul sentire comune dei più) hanno invece assunto, sia pure da prospettive e con obiettivi tra di loro anche molto differenti. Non fu guerra civile ma guerra contro i civili. Il rapporto si incentra, tra le altre cose, sul collaborazionismo repubblichino e sulla compromissione dei suoi esponenti, come delle sue milizie armate (che non avevano lo status di esercito), nella durissima lotta antipartigiana così come nellefunzioni esercitate dall’occupante nel quadro delle sue prerogative di dominio. L’immagine che ne esce di ciò che rimaneva dell’allora fascismo è senza attenuanti, se mai ce ne fosse stato un qualche bisogno o una residua opportunità. Ed è anche in ragione di questo che tale stato di cose che viene fagocitato completamente qualsiasi rimando alla nozione di "guerra civile", rendendola per più aspetti scarsamente funzionale all’interpretazione dei fatti accaduti tra il 1943 e il 1945. Se una spaccatura si misurò in Italia, in quel biennio terribile, questa non fu tra due tronconi della società nazionale ideologicamente contrapposti, l’uno a favore della continuazione della guerra nell’Asse germano-italico e l’altro diversamente disposto. Semmai si consumò una divisione tra la popolazione di un paese che era divenuta inerme terra di dominio tedesco, da un lato, e i serventi fascisti dall’altro, questi ultimi supinamente allineati alle posizioni più odiose del Terzo Reich. Anche da questa fondamentale considerazione deriva quindi l’inaccettabilità, non solo morale ma anche funzionale, della parificabilità tra due parti, da intendersi altrimenti come dotate di pari legittimità, perché contrapposte e combattenti sul medesimo piano: quella nazifascista e quella partigiana e antifascista. Tale tipo di perdurante approccio, fortemente ideologico, volto oggi a denunciare l’antifascismo come un elemento da superare proprio perché strettamente legato alle passioni di un tempo che non c’è più, e quindi indirizzato a perpetuare la trascorsa “divisione del paese”, omette completamente di indicare gli elementi fattuali dell’occupazione tedesca. Il rapporto della commissione si sofferma invece ripetutamente su di essi, con un encomiabile sforzo di equilibrio, non intendendo assolvere ad un ruolo requisitorioma cercando di proseguire l’indagine storica, costruendo quindi nessi di significato. Più che un elenco fine a sé di fatti e misfatti si tratta del tentativo di indagare, congiuntamente, sulle percezioni tedesche dell’Italia di allora, sull’esperienza che i militari germanici, inviati nel nostro paese, fecero di esso, sui rapporti che si stabilirono con la popolazione civile. Il rapporto non rivela nulla di assolutamente nuovo, non intendendo assecondare la vulgata sensazionalista che è invece tipica dei revisionismo. Buona parte delle fonti a disposizione ci permettono di avere un quadro sufficientemente chiaro di quel che fu, degli scenari così come dei protagonisti. La linea di divisione tra vittime e carnefici è quindi chiara e non ha la matrice semplificatoria dell’appartenenza nazionale (i tedeschi tutti cattivi e gli italiani immensamente buoni) bensì quella della responsabilità politica. Non di meno, ne emerge anche la cornice di una guerra criminale, tale perché condotta soprattutto contro un bersaglio indifeso, i civili. In questo caso noi italiani. Una considerazione a latere si impone, quindi. Il tentativo, sospeso tra un veteronazionalismo populistico d’accatto e un revanscismo fascistoide, di intorbidare il passato mettendo tutti sul medesimo piano, non ha nessun fondamento storico né, tanto meno, scientifico. Ciò va detto non tanto per tutelare le prerogative particolaristiche di una disciplina, la ricerca storica, che spesso ripiega su di sé, senza parlare al grande pubblico, ma per iniettare nel dibattito collettivo elementi di giudizio fondati. Cosa che necessita tanto di più dal momento che il revisionismo di bassa lega, quello che si fonda sul pregiudizio, oggi trova un terreno di saldatura in un sentimento antitedesco che nulla ha a che fare con la realtà delle cose. L’ostilità nei confronti della Germania, infatti, corre sui binari non del severo metro di valutazione del suo passato quanto su un’ambigua avversione per il suo presente di paese forte nel consesso europeo. Il lavoro della commissione congiunta ci segnala non solo come si possa fare luce sui trascorsi senza che ciò si traduca da subito in una sorta di funzione tribunalizia, con accuse a ripetizione e difese sospette, le une e le altre destinate ad approfondire il solco e non a colmarlo, ma su quali siano i supporti per una storia realmente condivisa, basata non su improbabili “pacificazioni” bensì su una riconciliazione che parte dal riconoscimento delle responsabilità.

Claudio Vercelli


Nugae - Elishama Levinski
Se Elishama Levinski non fosse un personaggio di uno dei racconti di Karen Blixen (Capricci del destino, La storia immortale), sarebbe sicuramente qualcuno che vorrei incontrare di persona. Ebreo, nato in Polonia, tutta la sua famiglia muore uccisa nel grande pogrom del 1848, quando ha solo sei anni. Si unisce a un altro gruppo di ebrei che riescono a scappare, ma da allora “come un pacchetto di merce poco richiesta” vagabonda per l’Europa solo e abbandonato, completamente in balia del caso. Finché poi non s’imbarca verso Oriente, e non va a lavorare in Cina come impiegato negli uffici del signor Clay, un commerciante inglese esageratamente ricco e così arido che mette quasi malinconia. Per questo non stupisce che il povero Elishama sia ormai privo di ogni desiderio, tranne quello di stare tranquillo, di essere lasciato in pace, chiuso nel silenzio del piccolo sgabuzzino in cui abita. Non uno con cui farsi grandi chiacchierate, d’accordo. Però proprio tutto questo errare e questo soffrire fanno di lui uno dei personaggi più saggi che potrebbero mai esistere, una specie di filosofo, ma con più senso pratico. Certo, la figura dell’ebreo errante che non avendo nulla si ciba di libri è un classico, ma qua non si tratta nemmeno di questo, perché Elishama sa a malapena leggere, e l’unica cosa scritta che possiede è un foglietto con un pezzo di una profezia di Isaia datogli da un vecchio ebreo polacco morto in viaggio. Lui è diverso perché l’uomo che è nato da tutte queste peripezie non è, come può apparire, un’anima spenta e pessimista perché annebbiata dal dolore. Analizzandolo più in profondità si vede come sia invece un individuo la cui visuale di ciò che lo circonda è talmente disincantata da essere perfetta, ma non per questo distaccata, capace di comprendere ciò che spinge le persone ad agire. A tal punto da aiutare il signor Clay nella sua impresa impossibile di realizzare una leggenda raccontata dai marinai sulle navi. “Elishama parteggiava sempre con l’individuo contro al mondo, dato che, per quanto pazzo potesse essere l’individuo, il mondo in generale soffriva certamente di un’idiozia ancora più perfida e inguaribile”. E forse il modo giusto di affrontare le cose è tutto qua.

Francesca Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF

           

notizieflash   rassegna stampa
Cinguettii in arabo per Netanyahu
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Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha aperto oggi un account twitter in arabo (@Israelipm_ar). "Saluti dalla Città Santa di Gerusalemme, lo scopo di questo account è approfondire il dialogo con voi" ha twittato ai suoi follower a Beirut, Bagdad, Il Cairo, e Amman.


 

In primo piano nella rassegna di oggi alcune notizie dal Medio Oriente.
Prima fra tutte quella del voto in Egitto per approvare la nuova Costituzione di chiara impronta islamista. Di tensioni e paese spaccato riferisce Cecilia Zecchinelli sul Corriere della Sera.

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