se non visualizzi correttamente questo messaggio, fai click qui

25 dicembre 2012 - 12 Tevet 5773
l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
 
alef/tav
linea

Roberto
Della Rocca,
rabbino

Sul Corriere della Sera di domenica scorsa un articolo di Paolo Conti riporta una lettura laica del Natale cristiano da parte dello psicoanalista Massimo Ammaniti. Secondo quest'ultimo la natività ".....ricorda alla nostra civiltà l'arrivo di un personaggio che ha comunque modificato la concezione della morale introducendo il concetto di perdono, la comprensione dell'altro e superando la vecchia legge dell'occhio per occhio, dente per dente ....." (pagina 19).  Il solito copione paolino e marcioniano  per il quale  il Vecchio Testamento, bollato con il marchio di legalismo e vendicatività, con la sua legge del taglione, sarebbe stato  superato da una nuova alleanza che avrebbe finalmente elargito quell'amore e quel perdono di cui sarebbe priva la Bibbia ebraica. Che queste tesi vengano ancora diffuse in alcune parrocchie non ci stupisce più di tanto. Quando però ci vengono propinate da un noto psicoanalista che, per la professione che svolge, dovrebbe andare oltre ad una lettura superficiale dei testi, ci getta nello sconforto. Ammaniti dovrebbe riflettere sulle fonti rabbiniche e talmudiche, quelle scritte dai tanto "deprecati " Farisei, laddove alla ritorsione si sostituisce il risarcimento, facendo pagare al colpevole quello che si definirebbe modernamente il lucro cessante, il danno permanente e anche quello psicologico. E tutto questo molti secoli prima che la civilissima Europa (cristiana?) affrontasse questi temi. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma forse bastano questi per sollecitare i nostri intellettuali a sapere di più, a cercare testi, a studiare la storia ebraica, a cercarsi Maestri, e in ultima analisi a "scoprire" gli ebrei con spirito obiettivo e alieno da antichi pregiudizi.
Dario
 Calimani,
 anglista



Ho scritto: “Ammettiamo, con Monti un po’ ci si annoiava.” E forse qualcuno, poco incline all’ironia, è riuscito a fraintendere. Concludo allora il pensiero. Con Monti ci si annoiava perché si era smesso di parlare di processi, di leggi ad personam, della sovversività dei giudici, dei pregi del fascismo mussoliniano, di comunisti mangiabambini. Ora, invece, non ci si annoierà più e si tornerà a sorridere con fantasia. E se lo spread risalirà e le borse andranno in caduta libera, che male ci sarà? In cambio, avremo un milione di nuovi posti di lavoro, ci toglieranno l’IMU, ci distrarranno con veline e bunga bunga, e nuove barzellette su negri, ebrei e omosessuali. In cambio, l’Italia tornerà più vicina a Netanyahu, e questo ci rincuora. E ci rigodremo l’abbraccio mortale di tanti scorribandisti fascisti, mentre la sinistra italiana continuerà a perdersi in affatturata, oclocratica ammirazione delle false primavere arabe. Che cosa si può volere di più? Giusto allora che, a dispetto di tutto ciò, la politica corrotta dei privilegi protesti preoccupata, non dallo spread o dalla disoccupazione, ma dalla sfrontatissima candidatura di Monti, che rischia di mettere in crisi il sistema. Eppure c’è chi di questa candidatura si rallegra, perché spera che la presenza di un terzo incomodo, tecnico e pragmatico anche se un po’ cinico, costringerà la politica a confrontarsi con i problemi veri della gente, anziché sciorinare slogan e demagogia, e perseguire imperterrita interessi privati, sprechi e ladrocini.

davar
Un animale morale
È il periodo più religioso dell’anno. In qualsiasi città americana o britannica il cielo notturno è illuminato da simboli religiosi, sicuramente ci sono decorazioni natalizie e probabilmente anche una menorah gigante. La religione in Occidente sembra essere viva, e in buona salute.
Ma lo è veramente? O si tratta di simboli che sono stati svuotati di contenuto, nulla più che uno sfondo scintillante per la nuova fede occidentale, il consumismo, e per le sue cattedrali laiche, i centri commerciali?
A un primo sguardo, la religione è in declino. In Gran Bretagna sono appena stati pubblicati i risultati del censimento nazionale del 2011. Mostrano che un quarto della popolazione dichiara di non avere una religione, un dato circa doppio rispetto a quello di dieci anni fa. E nonostante gli Stati Uniti d’America restino il paese occidentale più religioso circa il venti per cento della sua popolazione dichiara di non avere un’affiliazione religiosa, un numero doppio rispetto alla generazione precedente.
Se si guardano i dati da un punto di vista differente, però, si può vedere come raccontino una storia diversa. Sin dal diciottesimo secolo, molti intellettuali occidentali hanno predetto l’imminente morte delle religioni. Tuttavia nonostante una serie di attacchi volti a sconfiggerle, il più recente da parte dei nuovi atei, fra cui Sam Harris, Richard Dawkins e lo scomparso Christopher Hitchens, si dichiarano devote a una fede religiosa tre persone su quattro in Gran Bretagna e quattro persone su cinque in America. Ed è questo, nell’età della scienza, a essere davvero sorprendente.
È ironico che molti dei nuovi atei siano seguaci di Charles Darwin. Siamo quello che siamo, sostengono, perché si tratta di ciò che ci ha permesso di sopravvivere e di passare il nostro codice genetico alla generazione successiva. Il nostro assetto biologico e culturale costituisce la nostra capacità di adattamento. Tuttavia la religione è il sopravvissuto più grande di tutti. I superpoteri tendono a durare un secolo, le grandi fedi durano millenni; la domanda è: perché?
Lo stesso Darwin ha suggerito quella che è quasi sicuramente la risposta corretta. Era stuzzicato da un fenomeno che sembrava contraddire una sua tesi di base, ossia che la selezione naturale debba favorire i più spietati. Gli altruisti, che mettono a rischio la propria vita per gli altri, dovrebbero quindi in genere morire prima di passare i propri geni alla generazione successiva. Però tutte le società danno valore all’altruismo, e qualcosa di simile può essere visto anche tra gli animali sociali, dagli scimpanzé ai delfini e alle formiche tagliafoglie.
Gli scienziati hanno mostrato come funziona. Abbiamo neuroni specchio che ci portano a provare dolore quando vediamo gli altri soffrire. Siamo animali morali.
Le implicazioni precise delle risposte di Darwin sono ancora oggetto di dibattito da parte dei suoi discepoli, tra cui lo studioso di Oxford Richard Dawkins. Per spiegarlo nel modo più semplice possibile: passiamo i nostri geni come individui ma sopravviviamo come membri di un gruppo, e i gruppi possono esistere solo quando gli individui non agiscono esclusivamente per il proprio bene ma per il bene del gruppo come un unico insieme. Il nostro unico vantaggio è che formiamo gruppi più grandi e più complessi rispetto a qualsiasi altra forma di vita.
Un effetto è che abbiamo due modalità di reazione, una che si concentra su potenziali pericoli per noi, come individui, e l’altra, situata nella corteccia prefrontale, che ragiona in maniera più ponderata sulle conseguenza delle nostre azioni su di noi e sugli altri. La prima è immediata, istintiva ed emotiva. La seconda è riflessiva e razionale. Siamo presi in mezzo, per usare una frase dello psicologo Daniel Kellerman, tra pensiero veloce e pensiero lento.
Il percorso veloce ci aiuta a sopravvivere, ma può anche portarci ad agire in maniera impulsiva e distruttiva. Il percorso lento ci porta ad un comportamento più ragionato, ma che spesso è ignorato nella foga del momento. Siamo peccatori e santi, egoisti e altruisti, esattamente come hanno a lungo sostenuto filosofi e profeti.
Se è così, possiamo capire come la religione ci abbia aiutato a sopravvivere nel passato – e perché ne avremo ancora bisogno nel futuro.
Rafforza e accelera il percorso lento. Riconfigura i nostri tracciati neurali, trasformando l’altruismo in istinto, attraverso i rituali che seguiamo, il testo che leggiamo così come le preghiere che pronunciamo. Rimane l’elemento più potente per la costruzione di comunità che il mondo abbia mai conosciuto. La religione lega gli individui all’interno di un gruppo attraverso comportamenti altruisti, creando relazioni di fiducia abbastanza forti da sconfiggere emozioni distruttive. Ben lontani dal confutare la religione, i Neo Darvinisti ci hanno aiutati a capire perché è importante.
Nessuno lo ha spiegato in maniera più elegante di quella usata dallo scienziato politico Robert D. Putnam. Negli anni ’90 è diventato famoso per la frase “bowling alone” (giocare a bowling da soli): il numero di persone che andavano a giocare a bowling era in aumento, ma erano meno quelle che si univano a una squadra di bowling. L’individualismo stava lentamente distruggendo la nostra capacità di formare dei gruppi. Un decennio più tardi, nel suo libro American Grace, ha mostrato che è rimasto un solo luogo in cui è presente un capitale sociale: le comunità religiose.
La ricerca di Putnam ha mostrato che chi va frequentemente in chiesa o in sinagoga è più disponibile a donare soldi a enti caritatevoli, fare lavoro volontario, aiutare i senzatetto, donare sangue, aiutare un vicino con i lavori di casa, passare del tempo con chi si sente depresso, offrire il posto a uno sconosciuto o aiutare qualcuno a trovare un lavoro. La religiosità misurata in frequentazione di una chiesa o di una sinagoga è un indicatore di altruismo migliore rispetto a istruzione, età, reddito, genere o appartenenza razziale.
La religione è il miglior antidoto all’individualismo dell’epoca del consumismo. L’idea che la società possa farne a meno è contraria alla storia e, ora, all’evoluzionismo biologico. Questo potrebbe mostrare che Dio ha il senso dell’umorismo. Certamente mostra che le società libere dell’Occidente non devono mai perdere il loro senso del Divino.

Jonathan Sacks, rabbino capo del Commonwealth
International Herald Tribune, 24 dicembre 2012
(versione italiana di Ada Treves)

Iron Dome - I segreti della difesa che ha protetto Israele
A poche settimane dalla fine della crisi tra Israele e la Striscia di Gaza su un punto sembrano tutti d’accordo: il vero eroe del conflitto si è rivelato il sistema israeliano antimissilistico Kipat Barzel, o Iron Dome in inglese (letteralmente “cupola di ferro”, un nome che, come ha fatto notare l’editorialista del Forward Philologos, riecheggia il “Muro di ferro” a protezione del popolo ebraico in Israele di cui parlò Ze’ev Jabotinsky in un suo famoso scritto). Durante l’operazione Pilastro di difesa Iron Dome ha intercettato l’86,3 per cento dei 421 razzi sparati contro aree popolate del territorio israeliano (il sistema è programmato per non intervenire nel caso di razzi verso zone disabitate). Il vicepresidente della società fornitrice Rafael, Oron Oriol, ha spiegato al quotidiano Times of Israel che il sistema non sarebbe mai stato pronto in tempo se non fosse stato per un modo di lavorare della compagnia alquanto inusuale. “Con progetti di vaste dimensioni come Iron Dome di solito si procede per livelli di sviluppo. Questo significa che non si va avanti oltre un certo punto nello sviluppare il missile intercettore, se il radar non distingue ancora tra un Qassam e un aquilone. Se ci fossimo attenuti a questa regola ci avremmo messo cinque anni. Invece abbiamo portato avanti test in parallelo, e preparato la linea di produzione mentre stavamo ancora sviluppando il sistema” ha sottolineato Oriol, ex pilota di F-16. Un approccio che si è rivelato fondamentale quando si è trattato di affrontare l’emergenza dei razzi contro Tel Aviv, che non veniva colpita dal 1991 ed era priva di batteria Iron Dome, che è stata ultimata e consegnata “concentrando in due giorni il lavoro di due mesi”. Ma per capire l’origine del sistema capace di limitare le vittime civili israeliane bisogna fare un passo indietro. Perché, come ricorda il magazine ebraico americano Tablet, l’uomo dietro Iron Dome, è un ex ministro della Difesa che tutti considerano il principale responsabile dei fallimenti che Israele incontrò con la guerra del Libano nel 2006: Amir Peretz. Nel 2006 l’esercito israeliano stava tentando di sviluppare un sistema di armi difensive. Tuttavia, dati gli alti costi e le tante difficoltà, il progetto aveva ricevuto una priorità molto bassa. Fu Peretz a insistere perché le cose cambiassero. Nato in Marocco 60 anni fa, Peretz è cresciuto in una famiglia di lavoratori a Sderot, la città del Negev divenuta simbolo della resistenza contro i razzi. Dopo aver diretto il potente sindacato israeliano, la Histadrut, dal 1999 si è dedicato alla politica. Per il suo legame diretto con la questione dei razzi, molti hanno tentato di sostenere che non considerava il tema con il giusto distacco. Oggi si prende la sua rivincita. “Come ministro della Difesa partecipavo a riunioni con gli ufficiali più alti in grado, eppure era una buona cosa che ci fossi io, un civile, a stimolare un modo diverso di pensare. La difesa è una strategia valida ed efficace e ha salvato vite da ambo parti”. Perché spiega ancora il Tablet “se il numero di vittime civili israeliane fosse stato molto alto, un’offensiva massiccia sarebbe stata inevitabile agli occhi dell’opinione pubblica”. Non tutti sono d’accordo nel considerare Iron Dome come la soluzione ai problemi di Israele: c’è chi pone l’accento sull’importanza di una soluzione politica che ponga fine al conflitto, altri fanno notare come sia insito nelle organizzazioni terroristiche la capacità di trovare i punti deboli dei nuovi meccanismi di difesa per superarli. Solo il futuro potrà dimostrare l’impatto della Cupola sugli equilibri dell’area nel lungo periodo. Che sia positivo è la speranza di molti, a cominciare dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che nello sviluppo di Iron Dome ha già investito 275 milioni di dollari.

Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche, gennaio 2013 twitter @rtercatinmoked

pilpul
Diseguaglianze
L'anno 2012 si chiude in un clima decisamente preoccupante. Al di là di una crisi economica sempre più grave, osservatori e cittadini sono in ansia per una campagna elettorale che si preannuncia breve ma incandescente. L'incertezza sembra la regina d'Italia. In questa situazione fluida un unico dato rimane stabile attraverso i mesi e i vari quadri politici: il 10 per cento delle famiglie italiane detiene circa il 50 per cento della ricchezza complessiva di questo paese. Lo certificano i principali centri studi italiani (Censis, Nomisma, Istat).
Se torniamo indietro a un anno fa, quando Mario Monti fu chiamato a governare un paese sull'orlo del fallimento, dobbiamo rammentarci delle tre parole che furono alla base del suo programma lacrime e sangue: rigore, sviluppo, equità. Non occorre essere economisti per comprendere che esiste una relazione profonda tra i tre termini, ma anche che oltre i parametri numerici esistono scelte politiche ed ideali. E ognuno potrà dare il suo giudizio sulla capacità del governo dei tecnici di dare corpo a questi tre concetti fondamentali. A mio parere qualunque politica, in presenza di un'ingiustizia così smaccata, deve muovere da una vera esigenza redistributiva. Un paese non é il salute se la diseguaglianza tra i suoi cittadini cresce e diventa cronica (come purtroppo é accaduto negli ultimi anni in maniera drammatica anche in Israele).
Come ebrei, penso che abbiamo di che allarmarci, e che dobbiamo levare la nostra voce come esponenti della società civile organizzata. Quando la distanza tra ricchi e poveri si dilata, é facile che si rafforzino movimenti populisti, xenofobi, razzisti. In un paese in cui si sta mediamente peggio, tutti stanno peggio e sono più insicuri. Gli ebrei non fanno certamente eccezione.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas - twitter @tobiazevi

Storie -  Sam Pivnik e le storie infinite di Auschwitz
Auschwitz ha smesso di parlare all'oggi? No, e forse non lo farà mai. E fin quando ci saranno sopravvissuti o parenti prossimi di coloro che sono finiti dentro quell'inferno, continueranno ad emergere storie dalla "notte e nebbia" del passato, infrangendo la direttiva nazista che voleva cancellare dalla faccia della terra ogni traccia del passaggio nei lager di milioni di esseri umani.
Una di queste vicende, mai prima di ora raccontate, è quella di Sam Pivnik, figlio di un sarto ebreo, nato a Bedzin in Polonia, il quale improvvisamente, il 1° settembre 1939, giorno del suo tredicesimo compleanno, quando i nazisti invadono il suo Paese, vede spazzata ogni possibilità di futuro. Da quel momento, si legge in L’ultimo sopravvissuto (Newton Compton Editori, 326 pagine), il suo libro di memorie appena uscito in Italia, cessa la sua vita normale: conosce il ghetto, i divieti imposti dai tedeschi, il coprifuoco, gli stenti, il terrore per le strade. A seguito di un rastrellamento, tutta la sua famiglia viene deportata ad Auschwitz-Birkenau. Lui è l’unico, insieme al fratello Nathan, a sfuggire alle camere a gas.
Quando Mengele passa in infermeria a selezionare gli ebrei destinati alla morte, il suo dito punta verso il ragazzo polacco, ma Sam si butta ai suoi piedi, inonda di lacrime i suoi stivali, pregandolo di risparmiarlo o di ucciderlo con un colpo di pistola, invece di mandarlo nelle camere a gas. E incredibilmente Mengele lo lascia in vita.
Sopravvissuto alle crudeltà delle SS e dei Kapo, ai lavori forzati nella miniera Fürstengrube e alla marcia della morte nel rigido inverno polacco, Sam è infine il 3 maggio 1945 tra i prigionieri sulla nave Cap Arcona, bombardata dalla Royal Air Force, convinta che fosse carica di soldati nazisti che tentavano di fuggire in Norvegia. Ma ancora una volta, miracolosamente, riesce a salvarsi.
Nel dopoguerra Sam si trasferirà a Londra dagli zii e parteciperà alla guerra d’indipendenza del 1948, come membro del Machal, i Volontari per Israele.
Resta da chiedersi perché ha raccontato la sua storia soltanto oggi. “E’ una domanda semplice, ma la risposta non lo è – scrive lui stesso - Quando sono arrivato a Londra dopo la guerra nessuno voleva più sentire di quello che era successo (…) La coscienza mi chiese di dimenticare, di costruirmi una nuova vita, Quello che voi leggerete una o magari due volte in questo libro è ciò che io rivivo ogni giorno e ogni notte della mia vita. Come ogni altro sopravvissuto all’Olocausto. Non è una lamentela. Non lo faccio per essere compatito. È un fatto. E un altro fatto è che un giorno ho capito che dovevo raccontare questa storia. Ufficialmente e poi stamparla. Perché ogni storia dell’Olocausto dovrebbe essere raccontata”.
 
Mario Avagliano
twitter @marioavagliano 

notizie flash   rassegna stampa
Natale - Gli auguri di Shimon Peres
  Leggi la rassegna

Il presidente israeliano Shimon Peres ha inviato il seguente messaggio di auguri:

E’ per me un privilegio, come presidente dello Stato d’Israele, mandare profondi auguri per un felice Natale all’intero mondo cristiano da parte di tutta Israele e di esprimere la speranza che l’intero Medio Oriente possa entrare in un’era di pace e prosperità. Lo Stato d’Israele è impegnato a proteggere tutti i luoghi santi e la libertà di preghiera per ciascuno. In Terra Santa la coesistenza tra ebrei, cristiani e musulmani continuerà. Vorrei mandare un messaggio chiaro al mondo, un messaggio di pace e unità tra tutte le fedi, tra tutte le nazioni. Auguro a tutti i cristiani ovunque nel mondo un felice Natale.

 

In Italia oggi non escono in edicola i quotidiani, ma ne vengono comunque aggiornati i siti web.
















L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti che fossero interessati a offrire un proprio contributo possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it  Avete ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo e-mail, scrivete a: desk@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”. © UCEI - Tutti i diritti riservati - I testi possono essere riprodotti solo dopo aver ottenuto l'autorizzazione scritta della Direzione. l'Unione informa - notiziario quotidiano dell'ebraismo italiano - Reg. Tribunale di Roma 199/2009 - direttore responsabile: Guido Vitale.