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  6 gennaio 2013 - 24 Tevet 5773
l'Unione informa
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moked è il portale dell'ebraismo italiano
alef/tav

Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino

Rav Yosef Chaim Sonnenfeld, il rabbino di Gerusalemme in epoca mandataria, un giorno - quando era già in età avanzata - vide dei bambini che attingevano acqua da un pozzo per poi portarla a casa. Notata la difficoltà che i bambini avevano nel trasportare l'acqua, chiese il loro indirizzo e portò lui stesso l'acqua nelle loro abitazioni. I grandi - di età età e di umanità - si occupano con attenzione e partecipazione dei bambini. Come facevano in Egitto Jocheved e Miriam, mamma e sorella di Mosè, chiamate nella parashà letta ieri Shifrà e Puà: tranquillizzavano e coccolavano i neonati del popolo di Israele e ne curavano amorevolmente l'aspetto.

David Bidussa, storico sociale
delle idee
   

Kevin Prince Boateng con la sua uscita dal campo durante l'amichevole Pro Patria-Milan a causa dei cori razzisti che i bustocchi gli indirizzavano, ha detto che si è superata una soglia. Era l’ora, finalmente! Ma quel gesto, per quanto nobile e condivisibile da ogni democratico, non fa male a chi dovrebbe e non lo isola (per esempio non gli sbarra definitivamente le porte di uno stadio) e dunque non funziona da deterrente.
Al contrario. Involontariamente, ma inesorabilmente, dà ai razzisti, la sensazione di essere forti, vincenti e, soprattutto, di disporre della vita degli altri. Proprio quello che bisogna evitare di fare di fronte ai razzisti.

davar
Il gran rabbino di Francia Gilles Bernheim ai cattolici:
"Abbiamo perso la comprensione del senso morale"
È uno dei rabbini più autorevoli e ascoltati nel dibattito internazionale sui temi religiosi tanto da guadagnarsi, nel discorso prenatalizio alla Curia romana di papa Benedetto XVI, la citazione entusiastica del suo scritto “Matrimonio omosessuale, omogenitorialità e adozione: ciò che si dimentica di dire” pubblicato a seguito della recente approvazione della legge per il matrimonio omosessuale varata dal governo Hollande. Rav Gilles Bernheim, gran rabbino di Francia, torna a far sentire la sua voce in un'intervista rilasciata al quotidiano cattolico francese La Croix oggi parzialmente ripresa dall'Osservatore Romano, il giornale della Santa Sede. Al cuore del suo intervento un appello a tutti gli uomini di fede per costruire le basi di una società più solida nei suoi pilastri etici e religiosi. La riflessione si dipana a partire dal dibattito apertosi intorno ai labili confini tra rispetto della dignità umana, sempre doveroso, e legittimità della pratica del matrimonio omosessuale. Il problema è innanzitutto morale, denuncia il rabbino capo. “Abbiamo ampiamente perso la comprensione, insieme teorica e pratica, di quello che è il senso morale. Perché? Perché – afferma – l'effetto corrosivo del dominio del mercato non agisce solo sullo scenario sociale. Viene eroso anche il nostro vocabolario morale, che è indubbiamente la risorsa più importante di cui disponiamo per pensare il nostro futuro. Sempre più, in questa immensa società di mercato che è diventato il nostro pianeta, siamo giunti a pensare solo in termini di efficacia (come ottenere ciò che vogliamo?) e di terapia (come non sentirsi frustrati rispetto a ciò che vogliamo?). Efficacia e terapia, a volte addirittura infiltrate dentro le religioni monoteistiche, sono più imparentate con la mentalità del marketing, la stimolazione e l'appagamento del desiderio, che con la moralità, ossia con ciò che noi dovremmo desiderare”. “Nell'ambito pubblico – prosegue il rav – i due termini che dominano il discorso contemporaneo sono l'autonomia e i diritti, che si conformano con lo spirito del mercato, privilegiando la scelta e scartando l'ipotesi secondo la quale esisterebbero dei fondamenti oggettivi che consentono di effettuare una scelta piuttosto che un'altra. E diventato così molto difficile riflettere collettivamente su quelli che dovrebbero essere i nostri orientamenti, peraltro i più decisivi che si siano mai presentati all'umanità, che riguardino sia l'ambiente, la politica, l'economia, sia l'idea stessa di famiglia o di matrimonio, la vita e la morte”. La posta in gioco, nel caso specifico, non sé quindi l'omosessualità ma “il rischio irreversibile di una confusione delle genealogie” con la sostituzione della parentalità alla paternità e maternità e una confusione aggiuntiva dello status del bambino che passa da quello di soggetto a oggetto “al quale ognuno avrebbe diritto”. Rav Bernheim cita il caso dei nuovi manuali scolastici che esortano il bambino non solo a rispettare gli omosessuali come persone ma anche a riconoscere la fondatezza del loro comportamento. L'esigenza di legittimazione, osserva, “sembra tradurre a maggior ragione una permessività generale, quindi la rimozione di qualsiasi giudizio”.
“Da questo momento in poi – sottolinea – la presunta legittimazione non è più tale nel quadro dell'irrilevanza delle scelte. È piuttosto tutta l'antica legittimità del matrimonio, quale istituzione riconosciuta dalla società come buona per il suo equilibrio e la sua perennità, a venire cancellata”. Oggi, la sua amara conclusione, “la società oscilla stranamente tra ciò che è violentemente escluso, come i riferimenti alla nozione di sforzo su se stessi, all'esistenza di gerarchie morali, alle tradizioni e alle convenienze, e una permissività molto forte che deriva dalla mancanza di coraggio, dall'incertezza o dall'indifferenza”. Nel testo pubblicato su La Croix (che è un giornale cattolico ad altissima professionalità e il cui assetto proprietario non risponde direttamente alle gerarchie ecclesiastiche) anche un botta e risposta molto significativo sui rapporti tra ebraismo e cristianesimo che la redazione del quotidiano vaticano, sempre molto attenta ai dettagli, ha preferito sfumare forse per non turbare troppo gli animi di casa propria. Ribaltando la prospettiva della domanda di Martine De Sauto, autrice dell'intervista, rav Bernheim si sofferma sulla non accettazione della figura del Cristo nella religione ebraica. “L'antigiudaismo cristiano – sostiene il rav nell'auspicare un confronto franco e sincero – sarà superato soltanto quando tutti i cristiani saranno in grado di percepire in modo positivo il 'no' ebraico a Cristo”.
Già Ernesto Galli Della Loggia, tra gli altri, in un editoriale apparso sul Corriere della sera il 30 dicembre, aveva elogiato la densità e l'autorevolezza del pensiero di rav Bernheim mettendo il punto sui profondi legami teologici e dottrinari tra ebraismo e cristianesimo e non mancando di rimarcare, con toni netti, l'assenza in Italia di una voce ebraica forte e presente su questi temi. “Quando da noi si parla di temi che in qualche modo coinvolgono la fede religiosa – scriveva Della Loggia – l'ebraismo tenda a non avervi e/o prendervi alcuna parte. E quindi a non essere mai menzionato. Basta porre mente a tutta la discussione sulla liceità dell'ingegneria genetica, dell'eutanasia o del matrimonio tra omosessuali. Dibattendosi di queste cose è come se l'ebraismo fosse disceso nelle catacombe tanto la sua voce è tenue o assente”. Dal gran rabbino di Francia, secondo il noto giornalista e storico romano, anche un'altra lezione. “E cioè – proseguiva – quanto è importante che la discussione pubblica sia condotta con coraggio, sfidando il conformismo che spesso anima l'intellettualità convenzionale e il mondo dei media. Quanto è importante che personalità autorevoli non abbiano paura di far sentire la loro opinione anche quando questa non è conforme a quello che appare il mainstream delle idee dominanti. È una lezione particolarmente essenziale per l'Italia. Dove è sempre così raro ascoltare voci fuori dal coro e provenienti da bocche insospettate, dove è sempre così forte la tentazione di aver ragione appiccicando etichette a chi dissente invece di discuterne gli argomenti, dove sono sempre pronti a scattare spietatamente i riflessi condizionati delle appartenenze”.

Adam Smulevich - twitter @asmulevichmoked
 
"L'elogio morale della precisione" e "il nesso di casualità"
Pagine Ebraiche su La Lettura del Corriere della sera
Rimedi contro la crisi: oggi, sull'inserto domenica del Corriere della sera, è Beppe Severgnini ad offrirci una ricetta con un denso “Elogio morale della precisione”. Una riflessione, che occupa interamente le prime due pagine della Lettura e che ha come riferimento una conversazione sviluppatasi sul suo blog Italians a seguito dell'intervista rilasciata dal grande matematico Judea Pearl a Rossella Tercatin su Pagine Ebraiche del mese di dicembre.
Scrive Severgnini: “Mi ha colpito la conversazione tra Stefano Soatto, padovano, 44 anni, professore di robotica alla Ucla, e Rossella Tercatin, 24 anni, autrice di un'intervista per Pagine Ebraiche a Judea Pearl, vincitore del Turing Award 2012, pioniere dell'analisi causale”.
Nell'intervista – originale, documentata e scrupolosa – prosegue Severginini – “Rossella commette un piccolo errore: descrive Stanford come una università Ivy League”. L'errore suscita la reazione di Soatto: “Ti mando un paio di commenti. Scusa se mi permetto di farteli – osserva – ma visto che sei giovane e giornalista, rappresenti un nodo importante del futuro del tuo paese. Stanford non è una Ivy League. Ciò non vuol dire che non sia un'ottima università, ma quando uno scrive è importante verificare la correttezza di tutte le affermazioni, anche se apparentemente banali o prive di conseguenze. Quando una cosa è scritta, è scritta per sempre, ed è difficile immaginare quali ripercussioni possa avere a distanza di anni”.
Pignoleria, si chiede Severgnini? “No, esattezza motivata e finalizzata. Una piccola lezione utile per tutti, ma indispensabile per noi italiani. Chi ce l'ha fatta, fateci caso, ha saputo unire brillantezza e precisione”.
Ma la pedanteria non è di casa solo al Corriere. Anche nel mondo ebraico non ci facciamo mancare nulla. C'è già chi sui social network, infatti, ha appuntato che nello stesso dotto testo apparso sul supplemento culturale domenicale del primo quotidiano italiano l'autore abbia in definitiva dimenticato di spiegare al povero lettore cosa mai significhi questa espressione Ivy League e soprattutto come nello stesso testo l'autore scriva "nesso di casualità" al posto di "nesso di causalità". "Niente di grave, può succedere" se la ride Guido Vitale che dirige questa redazione congratulandosi con Rossella per la bella e prestigiosa citazione di Severgnini. E ripete un'ennesima volta ai colleghi che "questo lavoro non è un'equazione, inutile pretendere di far tornare i conti", cui segue l'immancabile ammonizione ispirata alla tradizione ebraica: "Abituatevi a convivere con i vostri errori, a correggerli senza vergognarvi di averli commessi, a crescere senza pretendere di essere perfetti. Gli errori non sono una macchia, ma la bandiera dell'umanità che siamo capaci di riversare in quello che facciamo ogni giorno".

l.p

pilpul
La cerniera dello Yemen
Scomparso dalla scena mediatica l’Afghanistan, letteralmente risucchiato dallo stallo politico nel quale si trova da diversi anni, dinanzi all’effetto congiunto dell’inefficacia dell’azione militare americana ed europea, rivelatasi inadeguata rispetto agli equilibri di lungo periodo del paese, e del prevedibile consolidamento talebano nella aree rurali, altri scenari si sono aperti all’attenzione internazionale. Non sono, né plausibilmente saranno, luoghi di intervento, più o meno “democratico”, delle forze armate occidentali ma già da almeno alcuni anni costituiscono il perno della presenza islamista, ovvero quella più radicale. Tra di essi, in quanto paese caratterizzato dall’instabilità permanente e cerniera, malgrado di mezzo ci sia il mare, tra Asia e Africa, così come tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, si pone in primo piano lo Yemen. Ufficialmente repubblica presidenziale, si è unificato nel 1990, dove vicissitudini e precedenti travagliatissimi. Va detto che anche in questo caso, come in altre aree della regione, l’impronta coloniale britannica, una presenza durata fino al 1967, ha lasciato il suo segno, generando più problemi di quanti non si sia adoperata a risolverne. La regione meridionale, con la capitale Aden e le province di Jaar e Abyan, da sempre esercitano un ruolo strategico, costituendo la punta di lancia sui commerci marittimi del meridione asiatico. Dallo Yemen, poi, non è troppo difficile raggiungere quello che resta della Somalia, terra di scorrerie delle milizie di osservanza islamista e focolaio, insieme al Mali, delle più recenti (ma, in tutta probabilità, anche delle future) guerre civili del continente. Non è peraltro un caso se il Golfo d’Aden sia segnato su tutte le cartine dei naviganti con la matita rossa, essendo luogo non solo di traffici illegali di ogni genere ma anche di una fiorente pirateria. Di fatto le sorti del paese, dal 1978, sono state rette dalla monocrazia autoritaria di Ali Abd Allah Saleh, padre-padrone dello Stato, il quale ha ceduto formalmente le redini del potere sono pochi mesi fa al suo vice, Abed Rabbo Mansour Hadi, quest’ultimo a capo di un governo di «riconciliazione nazionale», destinato nelle intenzioni a durare fino al febbraio del 2014, quando dovrebbero tenersi le elezioni politiche e quelle presidenziali. Da quando lo Yemen ha assunto l’attuale fisionomia, con la fine degli anni Sessanta, il Congresso generale del popolo, il partito di Saleh, è la forza dominante. Il pluripartitismo esiste sulla carta, non certo nei fatti. Diversamente dai dispotismi comunisti, il predominio di un partito su qualsiasi altra organizzazione politica serve in questo caso a surrogare l’assenza di strutture pubbliche capaci di fare fronti ai bisogni della collettività. Mentre nei regime dell’Est il partito si affiancava, in funzione competitiva, alle amministrazioni statali qui, invece, le sostituisce, essendo esse inesistenti o insufficienti. Naturalmente, la radice della recente cessione di sovranità esercitata dal dittatore non è stato un atto di autonoma volontà ma il risultato delle pressioni dal basso, lievitate con la «primavera araba» yemenita, iniziata nel gennaio del 2011 e non ancora conclusasi. La giurisdizione dello Stato e dell’amministrazione pubblica sui 528mila chilometri quadrati che compongono il paese, a fronte di una popolazione che supera i 23 milioni e mezzo, è poco più di una chimera. Al modello gestionale e organizzativo del potere importato dall’esperienza occidentale si sovrappone e si contrappone, il più delle volte imponendosi, la preesistente organizzazione clanica, che nei venti governatorati e nella municipalità metropolitana di Sana’a ha la meglio su qualsiasi tentativo di uniformare l’amministrazione e la giurisdizione. Il controllo del territorio, infatti, è esercitato dalle emanazioni militarizzate di questi gruppi che, sovente, hanno anche il compito di garantire qualche forma di sussistenza per la popolazione. Lo sforzo di Saleh, nei suoi quasi trentacinque anni di dominio, è stato sempre quello di mediare tra le spinte e le controspinte che gli interessi contrapposti dei diversi aggregati clanici hanno espresso nel corso del tempo. Non diversamente, per certi aspetti, da un Gheddafi. Gli è riuscito, usando spesso il pugno di ferro, finché ha avuto a disposizione le risorse per farlo. In fondo, a ben pensarci, si tratta di un caso di sorprendente longevità politica. Abitato quasi esclusivamente da musulmani sunniti, lo Yemen ha la prerogativa, ad oggi ineguagliata, di essere il paese dove si diventa maggiorenni a quindici anni. Abituale, in molte famiglie, è il possesso delle armi: insieme allo jambiya, il tradizionale pugnale ricurvo, capita che ci sia chi si affidi anche ai kalashnikov. La diffusione delle armi da taglio e da fuoco è pari solo a quella del qat, una foglia sovente masticata con gusto poiché contiene un alcaloide che stimola stati di ebbrezza ed euforia. Il ricorso alla sostanza psicotropa è peraltro qualcosa di ben diverso da una pratica individuale e solitaria, essendo semmai una sorta di diffusa convenzione sociale. L’insediamento ebraico, di antichissima radice, si è definitivamente dissolto nel 2009, quando anche gli ultimi componenti della locale comunità hanno dovuto abbandonare la terra d’origine, incalzati dalle ripetute minacce provenienti dalle cellule del radicalismo islamico. Lo Yemen, infatti, è luogo di fondamentalismo. Come capita in questi casi, poiché il binomio tra miseria e radicalismo è piuttosto diffuso, il paese è il più povero tra gli Stati arabi, collocato dalle Nazioni Unite al centocinquantaquattresimo posto sui 176 Stati del nostro pianeta censiti e monitorati dallo United Nations Development Programme. Il 41,8 per cento della popolazione nel 2007 risultava al di sotto della soglia di povertà nazionale, vivendo con meno di due dollari al giorno. Nel 2012 tale percentuale è salita al 54,5 per cento. In compenso il 4 per cento è costituito da milionari, che detengono la quasi totalità delle risorse economiche nazionali. Metà degli yemeniti è impiegata in lavori per una agricoltura modesta, praticata su poche terre, in non più del 3 per cento dell’intero territorio nazionale. Peraltro il 76 per cento di essi vive in aree rurali, dove la povertà è la condizione comune per tre quarti degli individui. L’aspettativa di durata media della vita non supera i sessant’anni, mentre i tassi di analfabetismo e di semianalfabetismo riguardano circa il 45 per cento degli individui, toccando nel caso femminile il 61,6 per cento. Fattori fondamentali nella debolezza strutturale dell’economia sono l’endemica corruzione, la mancanza di trasparenza negli atti pubblici e l’impedimento alla partecipazione nei processi decisionali della collettività, la subalternità della popolazione femminile e lo sfruttamento di quella infantile, la disoccupazione giovanile, pari a più della metà della fascia di individui in età lavorativa, a fronte di un tasso di crescita della popolazione intorno al 3 per cento annuo (il dato in questo caso risale al 2005). Nel 2011 il Pil è crollato del 10,6 per cento, a causa dell’instabilità interna. In questo quadro angosciante e fosco il fondamentalismo, che già aveva concorso a disintegrare a suo tempo l’unità politica della Somalia, è entrato prepotentemente in scena. Precedentemente, nel 2000, nel porto di Aden, una barca esplosiva, armata da Al Qaeda, aveva colpito l’incrociatore americano Cole, uccidendo diciassette militari. Nel corso dei dieci anni successivi l’organizzazione che è stata di Bin Laden, e che oggi ha trovato altri patrocinatori, si è ulteriormente radicata. Va precisato che usando la parola fondamentalismo è bene avere chiaro il fatto che ci si trova dinanzi ad una pluralità di forze, quasi sempre concorrenti tra di loro, e quindi anche conflittuali, pertanto in lotta non tanto e non solo contro gli autocratici poteri costituiti ma anche al proprio interno. La popolazione costituisce la prima vittima di questa guerra, dove nessuno vince perché la vera posta in gioco è la sua perpetuazione ad infinito. Nella provincia meridionale di Jaar i qaedisti di Ansar al Shariah (letteralmente i «partigiani della legge islamica»), che hanno da tempo eletto il territorio yemenita a loro patria adottiva, si sono adoperati per dare vita ad un effimero emirato islamista. Hanno assoldato un buon numero di seguaci tra i maschi, soprattutto adolescenti, che si sono poi impegnati nei combattimenti e nell’imposizione, tra i civili, della «legge del Profeta». La leadership delle formazioni radicali – tuttavia è sempre rimasta in mano ad elementi stranieri, parte integrante del network terroristico che dagli anni Novanta, prima con i cascami della lunghissima guerra civile in Algeria poi con quella bosniaca, si è costituito come ossatura permanente. Questi signori della guerra sono il prodotto della “globalizzazione della violenza e del terrore”, in grado di intervenire con celerità e profitto in ogni dove si creino opportunità di usufrutto economico e politico. La reazione militare del governo di Sana’a non si è peraltro fatta attendere e ha portato ad un duro confronto sul campo, con il drammatico corollario di distruzioni e lutti. L’emirato non ha avuto successo, raccogliendo semmai l’opposizione della popolazione, ma le ferite imposte dalla guerra intestina hanno segnato il destino dei civili. La presenza salafita e radicale non si riduce tuttavia a quella di osservanza alqaedista. Nello Yemen del nord, e soprattutto nella provincia di Sa’da, l’Iran è presente sotto le mentite spoglie di soccorso umanitario e sanitario. In realtà, a dare credito alle stesse autorità yemenite, attraverso questo presidio, sempre meno tollerato da Sana’a, Teheran starebbe cercando di alimentare una rete sciita in grado si supportare le attività separatiste del movimento Houthis, avverso ai sunniti. L’obiettivo, neanche troppo difficile da immaginare, è quello di secessionare le provincie settentrionali dal corpo del paese. Al di là dei singoli progetti politici, e dell’eterno conflitto tra gruppi rivali, rimane comunque il fatto che il paese è divenuto uno dei luoghi privilegiati del peggior estremismo. Un focolaio perennemente infetto, al quale gli Stati Uniti hanno fino ad oggi risposto fornendo sostegno militare alle autorità civili ben sapendo, tuttavia, che la legittimazione di queste ultime è per più aspetti prossima allo zero.

Claudio Vercelli

Nugae - Life in stills
Per chi si fosse perso nel numero incalcolabile di festival del cinema sparsi in giro per il mondo e il calendario, settimana prossima inizia il New York Jewish Film Festival, alla sua ventiduesima edizione. Fra i film in concorso, il cui scopo è dipingere la realtà ebraica in ogni sua sfumatura, uno in particolare ha già riscosso successo nelle sue proiezioni precedenti, vincendo molti premi. Si tratta di Life in stills, un documentario di circa un’oretta in ebraico e tedesco coi sottotitoli in inglese, girato dalla giovane regista israeliana Tamar Tal. Quella che si racconta è una di quelle tipiche storie dolciamare, in cui si ride e si piange. I protagonisti sono Miriam Wissenstain, arzilla novantaseienne che dalla morte del marito ne ha preso in gestione il negozio di fotografie nel cuore di Tel Aviv, The Photo House, e suo nipote Ben, che quando arriva una lettera che dà loro tre mesi prima di essere sfrattati, si impegna ad aiutarla a salvare la storica attività. E così al centro di quest’avventura si dipinge la geniale relazione fra una nonna dal carattere forse non troppo accomodante ma di certo davvero interessante e un nipote che piano piano la scopre fino ad arrivare a conoscerla in profondità e, missione impossibile, prova a smussarla. Dando vita a dialoghi veramente surreali, in cui non si sa come Miriam ce l’ha sempre vinta, anche quando Ben le fa notare che sarebbe meglio non insultare i clienti. Ma al di là di questo, ciò che attira in un attimo l’attenzione non sono le battute argute o la vicenda commovente, e nemmeno  la tenerissima  foto della locandina con Ben e Miriam appoggiati l’uno alla spalla dell’altro, ma proprio il titolo. Perché Life in stills, vita in fotogrammi, significa che il lavoro di una vita sta nel milione di negativi conservati nel negozio e che documentano la storia di Israele praticamente dalle sue origini, ma anche che in generale in un’immagine stampata su un pezzo di carta è davvero possibile toccare un concretissimo frammento di se stessi, e raccogliendone tante si può ricostruire la propria vita come un delicato castello. Perché in fondo anche i ricordi non sono altro che piccole immagini, fotogrammi del film di cui ognuno è regista.

Francesca Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF

           

notizieflash   rassegna stampa
Tel Aviv potenzia l'offerta Wi-fi
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Internet libero in tutta Tel Aviv, la città più "connessa" di Israele. Il progetto di potenziamento della rete Wi-fi, sostenuto dalla municipalità, prenderà presto avvio con l'installazione di 80 stazioni in vari punti strategici. Costo complessivo dei lavori poco più di un milione e mezzo di dollari.

 

“Elogio morale della precisione”. L’intervento di Beppe Severgnini, oggi su La Lettura, cita l’intervista di Rossella Tercatin al grande matematico Judea Pearl sul penultimo numero di Pagine Ebraiche.









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