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17 gennaio 2013 - 6 Shevat 5773
l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
alef/tav
elia richetti Elia
Richetti,
presidente dell'Assemblea rabbinica italiana
 

Insieme alla prescrizione di ricordare ogni anno l’uscita dall’Egitto e di insegnarne il valore alle generazioni future, la Torah ci impone che ciò sia “come segno sulla tua mano e per memoria fra i tuoi occhi, affinché l’insegnamento del Signore sia nella tua bocca”. È l’istituzione del precetto dei Tefillìn, che leghiamo appunto al braccio ed alla fronte. Come sappiamo, nella concezione ebraica qualunque concetto astratto è privo di valore se non ha una corrispondenza pratica: l’idea non vale nulla se non è applicata in un’azione concreta, e l’azione senza un’idea dietro è sterile. Ma un’altra considerazione ci è suggerita dal versetto che abbiamo citato. Se osserviamo attentamente i termini, ritroviamo nominate tre distinte parti del corpo: la mano, gli occhi e la bocca. Ora, se i primi due sono direttamente in relazione con i Tefillìn, non vediamo che cosa c’entri la bocca. Una possibile spiegazione si può trovare interpretando in maniera più lata: oltre all’idea ed alla pratica (rispettivamente rappresentati da testa e braccio), un altro elemento deve entrare in gioco: la parola; per questo la Torah avverte “le-mà‘an tihyè Toràth Ha-Shèm be-fìkha”, “affinché l’insegnamento del Signore sia nella tua bocca”, e non nel tuo cuore o nel tuo cervello. Si tratta qui di testimoniare anche con le parole gli effetti della liberazione dall’Egitto: con la Tefillah, ovviamente, ma anche evitando la maldicenza, non avendo timore di affermare il punto di vista dell’Ebraismo su questioni etiche e pratiche. Come ogni giorno mettiamo i Tefillìn, ogni giorno dovremo essere pronti a dichiarare, manifestare e glorificare l’Ebraismo attraverso l’uso che faremo della nostra bocca.

Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme


Sergio Della Pergola

Ultimo giovedí prima delle elezioni in Israele. La prognosi da noi pubblicata su questa pagina il 24 dicembre – sembra strano – può essere riletta parola per parola: non è cambiato nulla. A parte modesti trasferimenti di preferenze all'interno di ognuno dei due blocchi principali di partiti che avevamo definito i "repubblicani" e i "democratici". Fra i primi, in leggero calo Likud-Beytenu, in ascesa alla sua destra il più naturale degli alleati politici, Habayit Hayehudí. E a destra della destra, Otzmà LeIsrael. L'alleanza tattica Netanyahu-Liberman non è molto piaciuta, ma tutti capiscono che è essenziale per vincere le elezioni e riottenere il mandato di premier. Al centro-centrosinistra, modesti trasferimenti di preferenze dai Laburisti alla diaspora centrista, un giorno Yair Lapid, l'indomani Tzipi Livni, e a Merez. Riuscirà Kadima a superare la soglia di ammissione alla Knesset? L'agenda elettorale sicurezza-difesa-uomo-forte escogitata da Bibi e dai suoi consiglieri è riuscita efficacemente a cancellare dalla campagna elettorale le problematiche socioeconomiche, quando è ben noto che le elezioni sono state anticipate per evitare una dolorosa manovra finanziaria che si imporrà comunque immediatamente dopo il voto ed entro giugno. Analisti e siti elettronici evidenziano con euforia il ruolo "trasversale" dei "religiosi" nel futuro parlamento, ma ignorano il fatto che a causa della sballata e autolesiva legge elettorale israeliana gli abitanti di Giudea e Samaria (meno del 5% della popolazione totale) avranno in parlamento per lo meno il 10% se non il 15% dei seggi. Alle distinzioni primordiali (Haredim, Arabi, Religiosi), preferiremmo il confronto fra le idee e la visione di una società civile che non è esclusivamente delimitata dal Mar Mediterraneo e dal Fiume Giordano.

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Giorno della Memoria 2013 – Il coraggio di resistere
Presentato a Palazzo Chigi il programma della quattordicesima edizione del Giorno della Memoria. Filo conduttore di questa edizione "Il coraggio di resistere", tema che verrà sviluppato con particolare attenzione al ruolo avuto nel contesto bellico dalla Resistenza ebraica e alle rivolte nei ghetti e nei campi di sterminio.
A illustrare le specificità di questa nuova sfida, rivolta in primis alle nuove generazioni, il ministro per la Cooperazione internazionale e l'integrazione Andrea Riccardi, la coordinatrice dell’Ufficio Studi e Rapporti Istituzionali della presidenza del Consiglio dei Ministri Anna Nardini, il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna, il Consigliere UCEI Victor Magiar e lo storico Marcello Pezzetti.

"Dopo aver affrontato negli anni scorsi l'argomento dell'autoritarismo, cioè delle origini delle dittature e quindi le origini delle persecuzioni e delle discriminazioni,  - ha spiegato infatti Gattegna - dopo aver affrontato il fenomeno di internet che è diventato uno strumento di propaganda anche delle teorie più aberranti e più folli,  quest'anno abbiamo deciso di focalizzare la nostra attenzione su coloro che hanno avuto la forza e il coraggio di opporsi attivamente al nazismo".  "La testimonianza del Ghetto di Varsavia dimostra  - ha proseguito il Presidente UCEI - che gli ebrei non si sono fatti portare passivamente alla morte e il loro fu l'esempio di chi decise di morire con le armi in pugno pur sapendo che la morte era sicura". Gattegna ha poi sottolineato che insieme ai combattenti del Ghetto ci sono state altre categorie di persone che hanno dato la vita per sconfiggere il nazismo, innanzitutto i Giusti che hanno rischiato la propria vita e quella delle loro famiglie per sottrarre vittime alla deportazione, i partigiani, gli eserciti alleati e infine gli scienziati come Rita Levi Montalcini, che anche nei momenti più difficili e bui non rinunciò mai ad impegnarsi nei suoi studi.
Sulla stessa linea anche l'intervento di Marcello Pezzetti che ha spiegato che quello del Ghetto di Varsavia non è che l'evento più conosciuto ma che gli ebrei tentarono di ribellarsi perfino nei campi di concentramento con tre rivolte che si svolsero a Treblinka e Birchenau e di cui la gente comune sa poco o nulla.
"Ribellione, rivolta, resistenza, coraggio quattro termini che caratterizzano il taglio delle iniziative che si svolgeranno quest'anno in occasione del Giorno della Memoria" ha infine detto Victor Magiar nel saluto che ha concluso la conferenza stampa. 
Fra i numerosi eventi con testimonianze, giornate di studio per i giovani e tavole rotonde che si svolgeranno, la Tavola rotonda Il coraggio di resistere che si svolgerà il 24 gennaio alle 15.30 nella Sala polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, alla quale saranno presenti voci autorevoli come quella del ministro Riccardi, del presidente UCEI Gattegna, del rabbino capo di Tel Aviv-Yafo Meir Lau presidente di Yad Vashem, poi gli storici Marcello Pezzetti direttore della Fondazione Museo della Shoah e David Silberklang del Memoriale Yad Vashem e Michele Sarfatti della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano. Sempre il 24 gennaio ma alle ore 11 del mattino la Comunità ebraica di Roma organizza un incontro diretto da Marcello Pezzetti con i testimoni della Shoah nel Tempio Maggiore " Dopo la Shoah...Il ritorno alla vita" cui sarà presente rav Lau. Molte le iniziative anche fuori della Capitale, sempre per citarne solo alcune, nella Reggia di Caserta il 23 gennaio sarà inaugurata la mostra "1938-1945. La persecuzione degli ebrei in Italia. Documenti per una Storia" che rimarrà in cartellone fino all'11 febbraio. A Milano il 27 gennaio, nel corso della cerimonia che si terrà al Memoriale della Shoah Binario 21, sarà presentato in collegamento diretto con il Museo di Yad Vashem, il libro Testimonianza Memoria della Shoah a Yad Vashem, traduzione italiana di "To Bear Witness". Fra le varie iniziative anche l'undicesima edizione del Concorso I giovani incontrano la Shoah.

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Qui Firenze – Prospettive (e insidie) per la Memoria
Memoria, rimozione, diniego. “Tre modalità di affrontare il passato che coesistono e che si intrecciano variamente tra loro ma che, nella storia della memoria della Shoah in Italia – afferma la storica Anna Foa, tra i relatori del convegno internazionale Dopo i testimoni in pieno svolgimento a Firenze – corrispondono anche a tre fasi cronologiche successive nella nostra storia nazionale. Nella prima ha prevalenza la rimozione; nella seconda la memoria; nella terza, senza avere la prevalenza, si affaccia comunque sempre più prepotente il diniego”. Nell'intervento della professoressa Foa una riflessione sul problema della successione di queste diverse fasi. A destare preoccupazione, afferma, è soprattutto l'ultimo aspetto. Un fenomeno che va inserendosi “nella problematicità della memoria”, collegandosi intimamente “al rifiuto di Israele” e valendosi da una parte “dei nuovi mezzi di comunicazione” e dall'altra “dell'incoltura generalizzata, del tabù antifascista e del complottismo dilagante”. Come agire in questo difficile e intricato contesto? Per uscirne, secondo la professoressa Foa, non si può fare appello esclusivo alla memoria. “Il processo memoriale è concluso e il problema oggi non è difendere la memoria – afferma con parole nette – bensì recuperare alla memoria la serietà della storia e dare un senso a questa memoria che abbiamo costruito, senza dogmatismi e chiusure”. Incalzanti si susseguono intanto le riflessioni dei vari relatori. Il convegno di studi, organizzato dall'Istituto Storico della Resistenza con il patrocinio della Regione Toscana, si lega strettamente alla presentazione, ieri sera al Teatro della Pergola, della traduzione del volume Storia della Shoah scritto dall'intellettuale francese Georges Bensoussan e pubblicato in Italia da Giuntina. Assieme all'autore, tra gli ospiti, l'editore Daniel Vogelmann, il rabbino capo rav Joseph levi e il presidente della Comunità ebraica fiorentina Sara Cividalli. Questa mattina, nuovamente nelle sale universitarie di via San Gallo, l'apertura della terza sessione di interventi dedicata a "produzioni di memorie" e presieduta da Stuart Woolf. Ad inaugurare i lavori la relazione di Simon Levis Sullam sui cosiddetti testimoni secondari. Tre le figure paradigmatiche citate dallo storico veneziano: Cesare Cases, Franco Fortini e Cesare Segre. Di grande interesse inoltre le riflessioni di Guri Schwarz sul processo di consapevolezza e di elaborazione interno alla società italiana e sulla crisi in essa del discorso antifascista. “Italia fuori dal cono d'ombra della Shoah”, come scrisse Renzo De Felice: un'affermazione che fa discutere e che è stata baricentro della sua relazione. Banalizzazione, sacralizzazione e negazione della Shoah. Tre ruote di uno stesso ingranaggio, per la semiologa Valentina Pisanty. Tre dispositivi retorici, spiega, che attivano presupposti e sinapsi comuni “rafforzandole attraverso la ripetizione, sino a ristrutturare una porzione politicamente sensibile della memoria collettiva”. Tra i vari contributi odierni, l'intervento di Ernesto De Cristofaro sul racconto giudiziario che coinvolse testimoni e vittime a partire dall'immediato dopoguerra e quello di Marta Baiardi, responsabile assieme ad Alberto Cavaglion e Simone Neri Serneri del coordinamento scientifico e organizzativo del seminario, sulla memoria degli aiuti. I lavori riprenderanno nel pomeriggio nella Sala Comparetti. Presieduta da Ida Zatelli, la quarta sessione – dedicata al racconto – avrà come protagonisti, oltre alla docente, anche Massimo Giuliani, Alberto Cavaglion, Asher Salah e Aldo Zargani.

Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked

Qui Roma - Georges Bensoussan presenta alla Sapienza
lo studio dello sradicamento degli ebrei dai paesi arabi
“La memoria contro la storia: la fine degli ebrei nel mondo arabo (XIX-XX secolo)”. Questo il tema che sarà oggi sviluppato all'Università Sapienza di Roma nel corso di un convegno promosso dal Dipartimento di Storia, Culture e Religioni e coordinato dalla professoressa Anna Foa. All'incontro, che si aprirà alle 16.30 nell'aula di studi storico-religiosi della Facoltà di Lettere e Filosofia, interverranno Georges Bensoussan, Luigi Goglia e Lucetta Scaraffia. Occasione della tavola rotonda è la presentazione dell'ultimo lavoro dello storico francese, responsabile editoriale del Memoriale della Shoah di Parigi, che in Juifs en pays arabes: le grand déracinement 1850-1975, edito da Tallandier, ricostruisce magistralmente e con parole sofferte la scomparsa di un mondo vittima di orrori e persecuzioni indicibili.
Proponiamo di seguito uno stralcio del libro pubblicato su Pagine Ebraiche, luglio 2012.

Degli 850 mila, un milione di ebrei che vivevano nel paesi arabi nel 1948, non ne restavano che 25 mila nel 1976 (e per la maggior parte in Marocco). Nello stesso lasso di tempo, lo Stato di Israele ne aveva accolti 600 mila. E' possibile separare la componente ebraica dei paesi arabi dalla loro storia generale? E cedere alla tentazione di fare storia in maniera lacrimosa riducendo questo passato a un cumulo di sofferenze, come se non fossero mai esistiti anche “lunghi periodi di tranquillità, di prosperità, di gioie, di cui testimonia lo studio dell'universo culturale ebraico”? Gli ebrei non sono soggetti passivi di fronte alla Storia. Considerare la violenza della componente araba come unica responsabile della fine di queste comunità equivale a ignorare la loro evoluzione interna, che da molto tempo le ha allontanate dalla maggioranza araba e musulmana. Focalizzando l'attenzione sul fattore ebraico, faceva un tempo rimarcare lo storico degli ebrei del Marocco H. Z. Hirschberg, si ricava l'impressione che in Marocco, per esempio, gli ebrei avessero sofferto principalmente a causa della crudeltà del sultano. Che fossero stati i soli a essere pesantemente tassati. Che solo le donne ebree sarebbero state vittime dei suoi soldati. Ora, lo si sa bene, alla svolta del XX secolo, tutta la popolazione del Marocco soffriva della semianarchia allora dominante. Ma dato questo per acquisito, distinguo fondamentale, gli oppressi musulmani non rappresentavano né una minoranza né dei discriminati dhimmi. Al momento di smarrirsi, gli ebrei arabi si sono contati, riconosciuti, ritrovati e costituiti in vera minoranza, come se la sparizione annunciata avesse affrettato la presa di coscienza di un destino comune già avviato col nazionalismo arabo, con la fine del colonialismo e con la distruzione degli ebrei d'Europa. Nel 1942 viene pubblicato in Egitto l'Annuario degli ebrei d'Egitto e del Medio Oriente, una lista di 150 nomi che raccoglieva notabili provenienti dalle comunità caraite, sefardite e aschenazite. Per la prima (e l'ultima) volta riuniti. Se questo mondo sembra aver perduto corpi e beni con il conflitto arabo- israeliano, in realtà il naufragio era avvenuto molto prima, quando le società ebraiche si erano scontrate con l'arcaismo del mondo arabo da cui si sentivano sempre più lontane a causa dell'alfabetizzazione, della modernizzazione, persino una ancora timida occidentalizzazione. Tanto più che man mano che progrediva la sua emancipazione, l'esistenza ebraica era vista dal nazionalismo arabo come un “impedimento d'essere”. “Perché non appena si prende l'abitudine di misurarsi con gli altri – scriveva Jean- Jacques Rousseau - di portarsi al di fuori di sé per attribuirsi il primo e miglior posto, è impossibile non prendere in antipatia tutto quello che ci sorpassa, tutto quello che ci ridimensiona, tutto quello che ci comprime, ogni elemento che essendo qualcosa ci impedisce di essere tutto”. Sfrondare dalla storia tutto quello che non le appartiene: bisogna tenere in mente questa preoccupazione per raccontare gli ultimi ebrei in terra araba. Guardando alle persone senza un nome e ai luoghi oscuri, ai cammini dimenticati, ai sentieri laterali e trascurando la strada maestra delle evidenze: “Onorare la memoria dei senza nome è un compito più arduo che onorare quella delle persone celebri. L'idea di costruzione storica si consacra a questa memoria degli anonimi”, annotava Walter Benjamin nel 1940 in una delle sue ultime lettere. Tutta la scrittura della Storia che ambisce a dare vita ai senza voce è una scrittura di sé, così come la componente di sé indicibile e senza voce che mette in luce l'investigazione dei mondi scomparsi. Ma il creatore non ha da essere trasparente, né rispetto agli altri né ai propri occhi. Come negare la propria impronta della comune umanità sarebbe equivalente a ridurre il proprio racconto alla propria identità. Non si tratta quindi né di piagnucolare, né di maledire, né di ritrovarsi nella nostalgia di una mitologica intesa cordiale. Ma solamente di comprendere. E di intendere queste violenze che ci hanno negato per quello che davvero furono. E, seminando parole sugli esili temuti, dominare quello che un tempo ci aveva schiacciati. (...)
Aveva appoggiato la sua fronte sul gelido riquadro del vetro. Il giorno si levava, bagnato, grigio, sporco. Era settembre, a Parigi, all'incrocio delle vie Louis-Bonnet e de la Présentation. A Belleville. Il dolore prendeva il sopravvento. Le tornavano in mente tutte le sofferenze del mondo, le perdite e le assenze divenute sparizioni. I mandorli di Tlemcen, il mare guardato dalle colline più alte, le albe leggere in primavera, gli alberi di albicocche nel giardino di famiglia, la tomba di suo padre. Tutto. Il mondo inghiottiva in un soffio la sporcizia della terra e lasciava emergere queste sublimi delizie sospese nel tempo, l'alba d'estate al suo villaggio, il crepuscolo a Ennaya, e tutti i volti, gli scomparsi, gli inghiottiti del mondo, coloro di cui nessun Memoriale mai porterà il nome. La fronte premuta al riquadro del vetro, lasciava il dolore sciogliersi in lei. Aveva 36 anni. Era mia madre. E' da quella mattina in cui ho letto sul suo viso l'amarezza dell'esilio che è cominciata la mia vita adulta. A quella assente, in Francia, a quella svanita in Marocco, alle mie madri, è dedicato questo libro.

Georges Bensoussan

da Juifs en Pays Arabes – Le grand déracinement 1850-1975 – Tallandier
Pagine Ebraiche, luglio 2012


(versione italiana di Ada Treves)

Nirenstein: “Lascio il Parlamento, torno in Israele”
"Lascio il Parlamento, torno in Israele". Lo annuncia l'onorevole Fiamma Nirenstein, in un'intervista che pubblica il Giornale di stamane, il quotididiano di cui lei stessa è redattrice. Confermando un'anticipazione emersa nel corso di un colloquio con Pagine Ebraiche, che nel prossimo numero pubblicherà un bilancio della sua esperienza parlamentare, l'onorevole Nirenstein  vicepresidente della Commissione Affari Esteri della Camera, tocca numerosi temi.
Definisce "bellissimi" i cinque anni trascorsi a Montecitorio, e motiva la sua scelta semplicemente con la volontà di tornare a occuparsi a tempo pieno di giornalismo e Israele. Pur tracciando un bilancio positivo del proprio impegno volto ad aumentare la consapevolezza dei problemi legati al panorama mediorientale e nella Commissione bipartisan contro l’antisemitismo, Nirenstein non risparmia dure critiche a Mario Monti e timori per l’immediato futuro. “Sono rimasta profondamente delusa quando Monti ha dato per la Palestina l’indicazione di votare sì al riconoscimento dello status di Stato non membro all’Onu” ha dichiarato, avanzando l’ipotesi che la scelta sia stata compiuta dal premier “nella prospettiva di un migliore rapporto con la sinistra, convinto, come altri, che la moneta filo araba possa pagare e ripagare. Sono preoccupata. Perché se si dovesse vedere di nuovo un D’Alema ministro degli Esteri, l’Italia ripiomberebbe in una posizione arretrata, con una visione distorta delle problematiche del mondo arabo e di Israele”.
Tra le sue intenzioni per l’immediato futuro, c’è quella di prendere la cittadinanza “perché credo che Israele sia oggi l’unico Paese che offre la prospettiva di un futuro colto e intelligente, un Paese dove la gente ha uno stile di vita più semplice, solidale, che trova forza in un grande amor patrio e in un profondo senso della vita”.

Qui Torino – La santità della famiglia
Prendono avvio in queste ore le iniziative organizzate in tutta Italia in occasione della giornata del dialogo e della riflessione ebraico-cristiana dedicata quest'anno, come scrivono nella nota di accompagnamento il presidente dell'Assemblea rabbinica italiana rav Elia Richetti e il presidente della commissione della Conferenza episcopale per l'ecumenismo Mansueto Bianchi, alla famiglia “come cellula essenziale della società” e come “contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane”. Nella sede della Comunità ebraica di Torino, alla presenza del vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Giulio Disegni e di un folto pubblico, la prima visita ufficiale del nuovo arcivescovo del capoluogo piemontese Cesare Nosiglia (foto di Marco Morello). Ad accoglierlo, tra gli altri, il presidente Beppe Segre e rav Alberto Somekh, autore di un denso intervento sul divieto di commettere adulterio'.
Nel suo intervento l'arcivescovo ha sottolineato l'importanza dell'incontro e della riflessione comune come realtà concreta capace di dare realizzazione effettiva ai principi di vicinanza spirituale, ribadendo poi come il Concilio Vaticano Secondo - di cui ricorre quest'anno il cinquantesimo anniversario - abbia segnato una svolta centrale nei rapporti tra le due religioni e aperto la strada a una fase di riflessione e di richiesta di perdono al mondo ebraico da parte della Chiesa. La cristianità vede nella fedeltà coniugale, secondo le sue parole, "il percorso del bene, il segno di un rapporto non solo tra uomo e uomo ma tra uomo e Dio, capace di dare saldezza forza giustizia a una società in costante relazione con la presenza divina".
“Questa visita, che fa seguito a quello di tre anni fa del suo predecessore Cardinale Severino Poletto e prima ancora, nel 1998, del Cardinale Giovanni Saldarini – ha affermato Segre, che ha anche letto un messaggio del rabbino capo rav Eliahu Birnbaum – costituisce un passo di quel cammino straordinario di confronto e di amicizia che si è sviluppato negli ultimi decenni, a partire da quella fondamentale dichiarazione Nostra Aetate che ha ricordato il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei ed avviato un dialogo fraterno”.
Di grande interesse la lezione del rav Somekh, a lungo soffermatosi sul concetto di “santità della famiglia” secondo la visione ebraica del mondo. “Su questo punto – osserva il rav – la tradizione ebraica parla chiaro fin dai primordi”. Il divieto dell’adulterio non nasce infatti con i Dieci Comandamenti, ma è già implicito nella creazione della prima famiglia umana. Nella Genesi si legge: “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà con sua moglie”. Passaggio che il Talmud commenta così: “Ma non con la moglie di un altro”. La purezza e l’onore della famiglia costituita dall’unione uomo-donna, ha pertanto sottolineato il rav, “sono la base di una società forte e stabile”. Un allentamento dei vincoli morali di fatto contribuirebbe “al crollo della civiltà”.
(foto di Marco Morello)

Qui Roma – In Darkness presto nelle sale cinematografiche
Presentato alla stampa il film In Darkness che uscirà nelle sale cinematografiche italiane il prossimo 24 gennaio. Diretta da Agnieszka Holland, la pellicola ha fatto parte della cinquina finalista in corsa per la nomination come miglior film straniero agli Academy Awards 2012 (per rileggere i testi usciti nell’occasione su Pagine Ebraiche clicca qui).
Tratta dal libro In The Sewers of Lvov (Nelle fogne di Lvov) di Robert Marshall, in Darkness narra la storia di un gruppo di ebrei nascosti nel sistema fognario della città polacca occupata dai nazisti nel 1943. Quando si imbattono in Leopold Socha, operaio improvvisatosi ladruncolo per cercare di garantire il sostentamento a se stesso e alla sua famiglia, gli chiedono aiuto in cambio di denaro. La vicenda si sviluppa però in modo inaspettato nella terribile lotta per sopravvivere fino alla sconfitta del nazismo.
Tra gli interpreti anche Olek Mincer, attore ebreo di origine ucraina da quasi trent’anni in Italia.
“Esaminare le molte storie del periodo della Shoah mostra un’incredibile varietà di destini e vicissitudini, spiegate in un ricco tessuto di trame e drammi, con personaggi che affrontano scelte morali e umane difficili dando prova sia del meglio che del peggio della nostra natura” ha dichiarato la regista.

Qui Venezia - Alla Ca' Foscari un confronto sulla Memoria
Nel 1943 militari italiani sotto il controllo delle SS naziste iniziarono le prime retate di ebrei anche a Venezia. Lì ovunque, e chiunque venisse identificato come ebreo – che fosse un uomo adulto, una bambina neonata o un’anziana signora immobilizzata nel letto di una casa di riposo – venne spinto nel lungo percorso che dalle carceri veneziane portò al campo di concentramento di Fossoli e infine al campo di sterminio di Auschwitz Birkenau.
L’Università, come luogo che ha conosciuto e in parte prodotto le leggi razziste e la persecuzione antiebraica, è arrivata in ritardo ad approfondire i fatti e le testimonianze. In parte per inerzia, in parte perché non ha voluto considerare da subito le proprie responsabilità dirette nella campagna di discriminazione contro gli ebrei. L’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha avviato da anni una sua forma di riflessione sull’argomento, proponendo conferenze e lezioni sul tema come forma di partecipazione attiva al dibattito sulla Shoah.
Incontri come quello proposto in occasione del Giorno della Memoria dal titolo "Venezia 1943 / Venezia 2013 cosa accadde, che cosa ci dice” con l’intervento di Gadi Luzzatto Voghera, docente della Boston University a Padova, che si occupa della storia degli ebrei e di didattica della Shoah e dell'antisemitismo, introdotto da Giovanni Vian, docente di Ca’ Foscari e storico del cristianesimo.
Venezia fu colpita pesantemente dai fatti di quegli anni, venne colpita nel profondo del proprio tessuto sociale. Quando durante i rastrellamenti si andavano a catturare gli ebrei del Veneto non si andava infatti a colpire soggetti estranei, ma si andavano a colpire individui che erano da secoli profondamente radicati nella società veneta e nelle istituzioni culturali del Veneto.
Uno per tutti Giuseppe Jona, medico, socio corrispondente dell'Istituto veneto e presidente dell'Ateneo veneto dal 1925 al 1929, che nella veste di presidente della Comunità ebraica di Venezia nel 1943, quando i nazisti gli imposero di consegnare gli elenchi degli appartenenti alla Comunità ebraica di Venezia, decise di togliersi la vita pur di non cedere. Altri come lui che, sopravvissuti, ritornarono nella Venezia del dopoguerra e vennero riammessi dalle istituzioni che li avevano cacciati durante le leggi razziste.
Un comportamento che provocò un certo sconcerto, ci si sarebbe aspettato il rifiuto da parte loro di rientrare dove non erano stati ben accetti fino a qualche anno prima. Una reazione che sottolinea quanto fosse profonda l’integrazione, tale da non provocare nelle vittime un distacco, un rifiuto categorico di quella società che li aveva allontanati. I pochi sopravvissuti ripresero il processo di integrazione con una visione migliorativa delle condizioni di vita, che prevalse sull’immane tragedia vissuta. Una forma di attualizzazione del termine Zachor, del ricordare che viene declinato, secondo il significato ebraico, in un’ottica protesa al futuro e non al passato.
Dopo il 1945 e il 1946 molti cercarono di parlare, di raccontare la loro vicenda, ma non trovarono orecchie disposte ad ascoltare. Si pensi a Primo Levi, che si ridusse a dover pubblicare “Se questo è un uomo” con una piccola casa editrice e con una tiratura di 2500 copie, perché rifiutato da case editrici più prestigiose come Einaudi. La società non era pronta, non era disposta ad affrontare un passato così vicino e i testimoni dopo i primi tentativi di aprirsi al racconto scelsero infine il silenzio.
Con la crisi delle svastiche negli anni ’60, quando in Europa per motivi sconosciuti, alcune compagini giovanili ripresero a utilizzare la svastica come simbolo di riconoscimento, si sollevarono nuovi interrogativi all’interno della comunità scientifica europea: non erano svaniti i simboli, come non era svanito l’antisemitismo, passato indenne attraverso la Shoah e ripresentatosi attraverso altri percorsi di rielaborazione ideologica.
La vera svolta che spinse l’Europa a fare i conti con la Shoah, fu la cattura in Argentina di Adolf Eichmann e il successivo processo, il primo nella storia che si può considerare mediatico. La riflessione si sviluppò non solo nella società esterna, ma anche all’interno del mondo ebraico: dal confronto ad alto livello tra Hanna Arendt e Gershom Scholem, alla messa in accusa dei Consigli ebraici che gestivano i Ghetti, considerati in parte collaborazionisti del regime, alle accuse ad personam, alle teorie contrapposte degli intenzionalisti e dei funzionalisti: i primi che facevano risalire l’ideologia dello sterminio già ai primi anni dopo la pubblicazione del Mein Kampf e i secondi che invece la riconducevano alla conferenza di Wannsee.
Da quel momento non solo la storiografia, ma molte altre discipline presero in considerazione l’esperienza concentrazione per i loro studi: la sociologia, la medicina, la psicologia. Si ricordi l’esperimento di Milgram sull’obbedienza, scaturito da una delle testimonianze di Eichmann al processo, che portò alla conclusione che: “…a volte non è tanto il tipo di persona che siamo, ma la situazione in cui ci troviamo a determinare le nostre azioni”.
Con Yad Vashem nacque l’idea che sulla Shoah si dovessero fornire strumenti museali che non esaurissero il loro compito con la mera celebrazione del ricordo, ma che fossero luoghi per la raccolta di documenti, luoghi di studio e approfondimento. Un museo come forma attiva di memoria che celebrasse inoltre chi mise a repentaglio la propria vita per salvare anche un solo ebreo.
Fin dagli anni ’70 il cinema aveva iniziato a trattare, sebbene edulcorandolo, il tema della Shoah. Si fece un ulteriore passo avanti solo nel 1985 con l’uscita del documentario “Shoah” realizzato da Claude Lanzmann, in cui erano presenti, in più di 9 ore di girato, testimonianze dei sopravvissuti, dei carnefici, ma soprattutto testimonianze di chi visse la Shoah da fuori. Un ragionamento sui vuoti, sui non luoghi della Shoah, sull’indifferenza di chi aveva intuito cosa stava succedendo e non fece nulla.
Da qui la domanda pressante: se i luoghi sono stati distrutti, se rimangono luoghi della memoria, che ruolo avranno le testimonianze dei sopravvissuti?
I testimoni tornarono allora a farsi sentire, spesso con la difficoltà degli storici nel distinguere tra ricordi reali e ricordi costruiti, ad esempio, attraverso successive letture. Con l’emergere delle testimonianze la società Europea capì che l’evento Shoah e la memoria di quegli eventi erano un elemento fondante della storia d’Europa. Una forma di religione civile con un monumento posto al centro, Auschwitz.
Nel 2013 la società italiana interroga la memoria di quanto accaduto, propone percorsi educativi di ricerca e di riflessione, sulla base di questo sentire la Shoah, cercando di tutelarsi da continue incursioni di nostalgici, negazionisti che sempre più pensano di poter imporre le loro posizioni sotto l’egida di un oblio diffuso e di un appiattimento delle responsabilità.

Michael Calimani

pilpul
"Destra e sinistra vogliono ancora dire qualcosa"
Su queste colonne, riflettendo criticamente sulla politica italiana e su Mario Monti, Dario Calimani ha ricordato come "gli inviti a dimenticarsi di destra e sinistra e a fare solo il pragmatico bene del paese (come se quel bene non avesse valori colorati o almeno qualche sana, sfumata differenza) contribuiscano a scandeggiare le diversità...". Un ottimo spunto per riflettere anche sugli specifici orientamenti della realtà ebraica nostrana così come emergono dallo “sfoglio” di Facebook e siti vari.
Il panorama generale – lo dico con triste preoccupazione – è piuttosto piatto. Sia chiaro, non mi riferisco alla vicenda mediorientale, che per sua natura è particolarmente complessa, variegata, emotiva. Intendo dire che questo panorama non è piatto per motivazioni di ideologia in senso stretto, ma di modo di interpretare e vivere la realtà. Non è una questione di partiti o di movimenti, ma di sostanza. Secondo me, la moderna coniugazione di destra e sinistra sta nella propensione alla chiusura o all'apertura – verso la società, verso noi stessi, verso l'altro e gli altri. Dobbiamo guardare il nostro grado di aspirazione a un futuro collettivo migliore e al cambiamento oppure, al contrario, la timorosa accettazione dello status quo, la convinzione o meno che vi sia bisogno della politica – non del banditismo, della politica. Se così è, io guardo al riformismo di sinistra. Perché credo ancora nell'ottimismo della volontà. Perché mi piacerebbe tanto smettere di leggere lamentele, piagnistei, accuse in genere smaccatamente strumentali. Vorrei meno cori abbaiati e più discorsi pacati. Come dice la pubblicità, "immagina, puoi". A patto, appunto, di usare più politica, non meno politica. E di pensare che destra e sinistra vogliano ancora dire qualcosa

Stefano Jesurum, giornalista

"Destra uguale fascismo, uno stereotipo"
Al contrario di come ha sostenuto qualcuno anche su questa rubrica, non sono così convinto che destra e sinistra abbiano ancora un senso, né tantomeno ritengo che sostenere questa tesi possa aprire le porte ai fascisti, nuovi e vecchi. Mi spiego: i termini destra e sinistra sono mere semplificazioni politiche, dei contenitori usati storicamente per definire un qualcosa che oggi non c’è più. Questo non significa che non possano recuperare un senso in futuro, ma in questo momento, più che indicare delle chiare linee di pensiero, a me sembra che spieghino in realtà solo le ideologie del secolo scorso e in maniera neanche tanto coerente. Tanto che, identificare la destra con il fascismo, è tanto superficiale quanto legare indissolubilmente il comunismo con la sinistra. Se pensiamo che poi c’è chi come Von Hayek sostiene che fascismo, comunismo e nazismo, avessero la stessa radice, in quanto derivati dell’ideologia socialista, il quadro sembra ancora più confuso. Per questo, più che la visione di Monti di superare destra e sinistra, mi spaventa maggiormente un modello in cui si ritiene che il bene abbia una sfumatura di colore ben precisa, identificabile a sinistra, mentre tutto ciò che vi è dall’altra parte è identificabile come il male (assoluto?). Io non credo sia così. Anzi credo che un paese avanzato abbia bisogno di due visioni politiche contrapposte che, a prescindere dalle definizioni, contribuiscano ognuna con il proprio modello al bene del paese. Senza pensare che la ragione stia da una parte sola, e che soprattutto, prima di pensare a contenitori vecchi (destra e sinistra) bisognerà immaginare contenuti nuovi, adeguati a saper restituire una speranza, oltreché una visione per la quale ritorni importante tornare a occuparsi della cosa pubblica.

Daniel Funaro

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Mar Morto - Il livello delle acque sale
per la prima volta dopo dieci anni
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In seguito alle abbondanti precipitazioni delle scorse settimane, il livello delle acque del Mar Morto è salito di dieci centimetri. E' la prima volta in dieci anni che le misurazioni registrano un innalzamento.
 

Donna Moderna racconta la vita della Comunità di Roma, con le parole entusiaste e affascinate di Marta Ghelma.









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