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17
gennaio 2013 - 6 Shevat
5773 |
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Elia
Richetti,
presidente dell'Assemblea rabbinica italiana
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Insieme
alla prescrizione di ricordare ogni anno l’uscita dall’Egitto e di
insegnarne il valore alle generazioni future, la Torah ci impone che
ciò sia “come segno sulla tua mano e per memoria fra i tuoi occhi,
affinché l’insegnamento del Signore sia nella tua bocca”. È
l’istituzione del precetto dei Tefillìn, che leghiamo appunto al
braccio ed alla fronte. Come sappiamo, nella concezione ebraica
qualunque concetto astratto è privo di valore se non ha una
corrispondenza pratica: l’idea non vale nulla se non è applicata in
un’azione concreta, e l’azione senza un’idea dietro è sterile. Ma
un’altra considerazione ci è suggerita dal versetto che abbiamo citato.
Se osserviamo attentamente i termini, ritroviamo nominate tre distinte
parti del corpo: la mano, gli occhi e la bocca. Ora, se i primi due
sono direttamente in relazione con i Tefillìn, non vediamo che cosa
c’entri la bocca. Una possibile spiegazione si può trovare
interpretando in maniera più lata: oltre all’idea ed alla pratica
(rispettivamente rappresentati da testa e braccio), un altro elemento
deve entrare in gioco: la parola; per questo la Torah avverte “le-mà‘an
tihyè Toràth Ha-Shèm be-fìkha”, “affinché l’insegnamento del Signore
sia nella tua bocca”, e non nel tuo cuore o nel tuo cervello. Si tratta
qui di testimoniare anche con le parole gli effetti della liberazione
dall’Egitto: con la Tefillah, ovviamente, ma anche evitando la
maldicenza, non avendo timore di affermare il punto di vista
dell’Ebraismo su questioni etiche e pratiche. Come ogni giorno mettiamo
i Tefillìn, ogni giorno dovremo essere pronti a dichiarare, manifestare
e glorificare l’Ebraismo attraverso l’uso che faremo della nostra
bocca.
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Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme
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Ultimo
giovedí prima delle elezioni in Israele. La prognosi
da noi pubblicata su questa pagina il 24 dicembre – sembra strano – può
essere riletta parola per parola: non è cambiato nulla. A parte modesti
trasferimenti di preferenze all'interno di ognuno dei due blocchi
principali di partiti che avevamo definito i "repubblicani" e i
"democratici". Fra i primi, in leggero calo Likud-Beytenu, in ascesa
alla sua destra il più naturale degli alleati politici, Habayit
Hayehudí. E a destra della destra, Otzmà LeIsrael. L'alleanza tattica
Netanyahu-Liberman non è molto piaciuta, ma tutti capiscono che è
essenziale per vincere le elezioni e riottenere il mandato di premier.
Al centro-centrosinistra, modesti trasferimenti di preferenze dai
Laburisti alla diaspora centrista, un giorno Yair Lapid, l'indomani
Tzipi Livni, e a Merez. Riuscirà Kadima a superare la soglia di
ammissione alla Knesset? L'agenda elettorale
sicurezza-difesa-uomo-forte escogitata da Bibi e dai suoi consiglieri è
riuscita efficacemente a cancellare dalla campagna elettorale le
problematiche socioeconomiche, quando è ben noto che le elezioni sono
state anticipate per evitare una dolorosa manovra finanziaria che si
imporrà comunque immediatamente dopo il voto ed entro giugno. Analisti
e siti elettronici evidenziano con euforia il ruolo "trasversale" dei
"religiosi" nel futuro parlamento, ma ignorano il fatto che a causa
della sballata e autolesiva legge elettorale israeliana gli abitanti di
Giudea e Samaria (meno del 5% della popolazione totale) avranno in
parlamento per lo meno il 10% se non il 15% dei seggi. Alle distinzioni
primordiali (Haredim, Arabi, Religiosi), preferiremmo il confronto fra
le idee e la visione di una società civile che non è esclusivamente
delimitata dal Mar Mediterraneo e dal Fiume Giordano.
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Giorno della Memoria 2013 – Il coraggio di resistere |
Presentato
a Palazzo Chigi il programma della quattordicesima edizione del Giorno
della Memoria. Filo conduttore di questa edizione "Il coraggio di
resistere", tema che verrà sviluppato con particolare attenzione al
ruolo avuto nel contesto bellico dalla Resistenza ebraica e alle
rivolte nei ghetti e nei campi di sterminio.
A illustrare le specificità di questa nuova sfida, rivolta in primis
alle nuove generazioni, il ministro per la Cooperazione internazionale
e l'integrazione Andrea Riccardi, la coordinatrice dell’Ufficio Studi e
Rapporti Istituzionali della presidenza del Consiglio dei Ministri Anna
Nardini, il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Renzo Gattegna, il Consigliere UCEI Victor Magiar e lo storico Marcello
Pezzetti.
"Dopo
aver affrontato negli anni scorsi l'argomento dell'autoritarismo, cioè
delle origini delle dittature e quindi le origini delle persecuzioni e
delle discriminazioni, - ha spiegato infatti Gattegna - dopo aver
affrontato il fenomeno di internet che è diventato uno strumento di
propaganda anche delle teorie più aberranti e più folli,
quest'anno abbiamo deciso di focalizzare la nostra attenzione su coloro
che hanno avuto la forza e il coraggio di opporsi attivamente al
nazismo". "La testimonianza del Ghetto di Varsavia dimostra
- ha proseguito il Presidente UCEI - che gli ebrei non si sono fatti
portare passivamente alla morte e il loro fu l'esempio di chi decise di
morire con le armi in pugno pur sapendo che la morte era sicura".
Gattegna ha poi sottolineato che insieme ai combattenti del Ghetto ci
sono state altre categorie di persone che hanno dato la vita per
sconfiggere il nazismo, innanzitutto i Giusti che hanno rischiato la
propria vita e quella delle loro famiglie per sottrarre vittime alla
deportazione, i partigiani, gli eserciti alleati e infine gli
scienziati come Rita Levi Montalcini, che anche nei momenti più
difficili e bui non rinunciò mai ad impegnarsi nei suoi studi.
Sulla
stessa linea anche l'intervento di Marcello Pezzetti che ha spiegato
che quello del Ghetto di Varsavia non è che l'evento più conosciuto ma
che gli ebrei tentarono di ribellarsi perfino nei campi di
concentramento con tre rivolte che si svolsero a Treblinka e Birchenau
e di cui la gente comune sa poco o nulla.
"Ribellione,
rivolta, resistenza, coraggio quattro termini che caratterizzano il
taglio delle iniziative che si svolgeranno quest'anno in occasione del
Giorno della Memoria" ha infine detto Victor Magiar nel saluto che ha
concluso la conferenza stampa.
Fra i numerosi eventi con testimonianze, giornate di studio per i
giovani e tavole rotonde che si svolgeranno, la Tavola rotonda Il
coraggio di resistere che si svolgerà il 24 gennaio alle 15.30 nella
Sala polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, alla
quale saranno presenti voci autorevoli come quella del ministro
Riccardi, del presidente UCEI Gattegna, del rabbino capo di Tel
Aviv-Yafo Meir Lau presidente di Yad Vashem, poi gli storici Marcello
Pezzetti direttore della Fondazione Museo della Shoah e David
Silberklang del Memoriale Yad Vashem e Michele Sarfatti della
Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano.
Sempre il 24 gennaio ma alle ore 11 del mattino la Comunità ebraica di
Roma organizza un incontro diretto da Marcello Pezzetti con i testimoni
della Shoah nel Tempio Maggiore " Dopo la Shoah...Il ritorno alla vita"
cui sarà presente rav Lau. Molte le iniziative anche fuori della
Capitale, sempre per citarne solo alcune, nella Reggia di Caserta il 23
gennaio sarà inaugurata la mostra "1938-1945. La persecuzione degli
ebrei in Italia. Documenti per una Storia" che rimarrà in cartellone
fino all'11 febbraio. A Milano il 27 gennaio, nel corso della cerimonia
che si terrà al Memoriale della Shoah Binario 21, sarà presentato in
collegamento diretto con il Museo di Yad Vashem, il libro Testimonianza
Memoria della Shoah a Yad Vashem, traduzione italiana di "To Bear
Witness". Fra le varie iniziative anche l'undicesima edizione del
Concorso I giovani incontrano la Shoah.
le
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Qui Firenze – Prospettive (e insidie) per la Memoria |
Memoria,
rimozione, diniego. “Tre modalità di affrontare il passato che
coesistono e che si intrecciano variamente tra loro ma che, nella
storia della memoria della Shoah in Italia – afferma la storica Anna
Foa, tra i relatori del convegno internazionale Dopo i testimoni in
pieno svolgimento a Firenze – corrispondono anche a tre fasi
cronologiche successive nella nostra storia nazionale. Nella prima ha
prevalenza la rimozione; nella seconda la memoria; nella terza, senza
avere la prevalenza, si affaccia comunque sempre più prepotente il
diniego”. Nell'intervento della professoressa Foa una riflessione sul
problema della successione di queste diverse fasi. A destare
preoccupazione, afferma, è soprattutto l'ultimo aspetto. Un fenomeno
che va inserendosi “nella problematicità della memoria”, collegandosi
intimamente “al rifiuto di Israele” e valendosi da una parte “dei nuovi
mezzi di comunicazione” e dall'altra “dell'incoltura generalizzata, del
tabù antifascista e del complottismo dilagante”. Come agire in questo
difficile e intricato contesto? Per uscirne, secondo la professoressa
Foa, non si può fare appello esclusivo alla memoria. “Il processo
memoriale è concluso e il problema oggi non è difendere la memoria –
afferma con parole nette – bensì recuperare alla memoria la serietà
della storia e dare un senso a questa memoria che abbiamo costruito,
senza dogmatismi e chiusure”. Incalzanti si susseguono intanto le
riflessioni dei vari relatori. Il convegno di studi, organizzato
dall'Istituto Storico della Resistenza con il patrocinio della Regione
Toscana, si lega strettamente alla presentazione, ieri sera al Teatro
della Pergola, della traduzione del volume Storia della Shoah scritto
dall'intellettuale francese Georges Bensoussan e pubblicato in Italia
da Giuntina. Assieme all'autore, tra gli ospiti, l'editore Daniel
Vogelmann, il rabbino capo rav Joseph levi e il presidente della
Comunità ebraica fiorentina Sara Cividalli. Questa mattina, nuovamente
nelle sale universitarie di via San Gallo, l'apertura della terza
sessione di interventi dedicata a "produzioni di memorie" e presieduta
da Stuart Woolf. Ad inaugurare i lavori la relazione di Simon Levis
Sullam sui cosiddetti testimoni secondari. Tre le figure paradigmatiche
citate dallo storico veneziano: Cesare Cases, Franco Fortini e Cesare
Segre. Di grande interesse inoltre le riflessioni di Guri Schwarz sul
processo di consapevolezza e di elaborazione interno alla società
italiana e sulla crisi in essa del discorso antifascista. “Italia fuori
dal cono d'ombra della Shoah”, come scrisse Renzo De Felice:
un'affermazione che fa discutere e che è stata baricentro della sua
relazione. Banalizzazione, sacralizzazione e negazione della Shoah. Tre
ruote di uno stesso ingranaggio, per la semiologa Valentina Pisanty.
Tre dispositivi retorici, spiega, che attivano presupposti e sinapsi
comuni “rafforzandole attraverso la ripetizione, sino a ristrutturare
una porzione politicamente sensibile della memoria collettiva”. Tra i
vari contributi odierni, l'intervento di Ernesto De Cristofaro sul
racconto giudiziario che coinvolse testimoni e vittime a partire
dall'immediato dopoguerra e quello di Marta Baiardi, responsabile
assieme ad Alberto Cavaglion e Simone Neri Serneri del coordinamento
scientifico e organizzativo del seminario, sulla memoria degli aiuti. I
lavori riprenderanno nel pomeriggio nella Sala Comparetti. Presieduta
da Ida Zatelli, la quarta sessione – dedicata al racconto – avrà come
protagonisti, oltre alla docente, anche Massimo Giuliani, Alberto
Cavaglion, Asher Salah e Aldo Zargani.
Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked
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Qui Roma - Georges Bensoussan presenta alla Sapienza
lo studio dello sradicamento degli ebrei dai paesi arabi
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“La
memoria contro la storia: la fine degli ebrei nel mondo arabo (XIX-XX
secolo)”. Questo il tema che sarà oggi sviluppato all'Università
Sapienza di Roma nel corso di un convegno promosso dal Dipartimento di
Storia, Culture e Religioni e coordinato dalla professoressa Anna Foa.
All'incontro, che si aprirà alle 16.30 nell'aula di studi
storico-religiosi della Facoltà di Lettere e Filosofia, interverranno
Georges Bensoussan, Luigi Goglia e Lucetta Scaraffia. Occasione della
tavola rotonda è la presentazione dell'ultimo lavoro dello storico
francese, responsabile editoriale del Memoriale della Shoah di Parigi,
che in Juifs en pays arabes: le grand déracinement 1850-1975, edito da
Tallandier, ricostruisce magistralmente e con parole sofferte la
scomparsa di un mondo vittima di orrori e persecuzioni indicibili.
Proponiamo di seguito uno stralcio del libro pubblicato su Pagine Ebraiche, luglio 2012.
Degli 850 mila, un milione di ebrei che vivevano nel paesi arabi nel
1948, non ne restavano che 25 mila nel 1976 (e per la maggior parte in
Marocco). Nello stesso lasso di tempo, lo Stato di Israele ne aveva
accolti 600 mila. E' possibile separare la componente ebraica dei paesi
arabi dalla loro storia generale? E cedere alla tentazione di fare
storia in maniera lacrimosa riducendo questo passato a un cumulo di
sofferenze, come se non fossero mai esistiti anche “lunghi periodi di
tranquillità, di prosperità, di gioie, di cui testimonia lo studio
dell'universo culturale ebraico”? Gli ebrei non sono soggetti passivi
di fronte alla Storia. Considerare la violenza della componente araba
come unica responsabile della fine di queste comunità equivale a
ignorare la loro evoluzione interna, che da molto tempo le ha
allontanate dalla maggioranza araba e musulmana. Focalizzando
l'attenzione sul fattore ebraico, faceva un tempo rimarcare lo storico
degli ebrei del Marocco H. Z. Hirschberg, si ricava l'impressione che
in Marocco, per esempio, gli ebrei avessero sofferto principalmente a
causa della crudeltà del sultano. Che fossero stati i soli a essere
pesantemente tassati. Che solo le donne ebree sarebbero state vittime
dei suoi soldati. Ora, lo si sa bene, alla svolta del XX secolo, tutta
la popolazione del Marocco soffriva della semianarchia allora
dominante. Ma dato questo per acquisito, distinguo fondamentale, gli
oppressi musulmani non rappresentavano né una minoranza né dei
discriminati dhimmi. Al momento di smarrirsi, gli ebrei arabi si sono
contati, riconosciuti, ritrovati e costituiti in vera minoranza, come
se la sparizione annunciata avesse affrettato la presa di coscienza di
un destino comune già avviato col nazionalismo arabo, con la fine del
colonialismo e con la distruzione degli ebrei d'Europa. Nel 1942 viene
pubblicato in Egitto l'Annuario degli ebrei d'Egitto e del Medio
Oriente, una lista di 150 nomi che raccoglieva notabili provenienti
dalle comunità caraite, sefardite e aschenazite. Per la prima (e
l'ultima) volta riuniti. Se questo mondo sembra aver perduto corpi e
beni con il conflitto arabo- israeliano, in realtà il naufragio era
avvenuto molto prima, quando le società ebraiche si erano scontrate con
l'arcaismo del mondo arabo da cui si sentivano sempre più lontane a
causa dell'alfabetizzazione, della modernizzazione, persino una ancora
timida occidentalizzazione. Tanto più che man mano che progrediva la
sua emancipazione, l'esistenza ebraica era vista dal nazionalismo arabo
come un “impedimento d'essere”. “Perché non appena si prende
l'abitudine di misurarsi con gli altri – scriveva Jean- Jacques
Rousseau - di portarsi al di fuori di sé per attribuirsi il primo e
miglior posto, è impossibile non prendere in antipatia tutto quello che
ci sorpassa, tutto quello che ci ridimensiona, tutto quello che ci
comprime, ogni elemento che essendo qualcosa ci impedisce di essere
tutto”. Sfrondare dalla storia tutto quello che non le appartiene:
bisogna tenere in mente questa preoccupazione per raccontare gli ultimi
ebrei in terra araba. Guardando alle persone senza un nome e ai luoghi
oscuri, ai cammini dimenticati, ai sentieri laterali e trascurando la
strada maestra delle evidenze: “Onorare la memoria dei senza nome è un
compito più arduo che onorare quella delle persone celebri. L'idea di
costruzione storica si consacra a questa memoria degli anonimi”,
annotava Walter Benjamin nel 1940 in una delle sue ultime lettere.
Tutta la scrittura della Storia che ambisce a dare vita ai senza voce è
una scrittura di sé, così come la componente di sé indicibile e senza
voce che mette in luce l'investigazione dei mondi scomparsi. Ma il
creatore non ha da essere trasparente, né rispetto agli altri né ai
propri occhi. Come negare la propria impronta della comune umanità
sarebbe equivalente a ridurre il proprio racconto alla propria
identità. Non si tratta quindi né di piagnucolare, né di maledire, né
di ritrovarsi nella nostalgia di una mitologica intesa cordiale. Ma
solamente di comprendere. E di intendere queste violenze che ci hanno
negato per quello che davvero furono. E, seminando parole sugli esili
temuti, dominare quello che un tempo ci aveva schiacciati. (...)
Aveva appoggiato la sua fronte sul gelido riquadro del vetro. Il giorno
si levava, bagnato, grigio, sporco. Era settembre, a Parigi,
all'incrocio delle vie Louis-Bonnet e de la Présentation. A Belleville.
Il dolore prendeva il sopravvento. Le tornavano in mente tutte le
sofferenze del mondo, le perdite e le assenze divenute sparizioni. I
mandorli di Tlemcen, il mare guardato dalle colline più alte, le albe
leggere in primavera, gli alberi di albicocche nel giardino di
famiglia, la tomba di suo padre. Tutto. Il mondo inghiottiva in un
soffio la sporcizia della terra e lasciava emergere queste sublimi
delizie sospese nel tempo, l'alba d'estate al suo villaggio, il
crepuscolo a Ennaya, e tutti i volti, gli scomparsi, gli inghiottiti
del mondo, coloro di cui nessun Memoriale mai porterà il nome. La
fronte premuta al riquadro del vetro, lasciava il dolore sciogliersi in
lei. Aveva 36 anni. Era mia madre. E' da quella mattina in cui ho letto
sul suo viso l'amarezza dell'esilio che è cominciata la mia vita
adulta. A quella assente, in Francia, a quella svanita in Marocco, alle
mie madri, è dedicato questo libro.
Georges Bensoussan
da Juifs en Pays Arabes – Le grand déracinement 1850-1975 – Tallandier
Pagine Ebraiche, luglio 2012
(versione italiana di Ada Treves)
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Nirenstein: “Lascio il Parlamento, torno in Israele”
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"Lascio il Parlamento, torno in Israele". Lo annuncia l'onorevole Fiamma Nirenstein, in un'intervista che pubblica il Giornale
di stamane, il quotididiano di cui lei stessa è redattrice. Confermando
un'anticipazione emersa nel corso di un colloquio con Pagine Ebraiche,
che nel prossimo numero pubblicherà un bilancio della sua esperienza
parlamentare, l'onorevole Nirenstein vicepresidente della
Commissione Affari Esteri della Camera, tocca numerosi temi.
Definisce "bellissimi" i cinque anni trascorsi a Montecitorio, e motiva
la sua scelta semplicemente con la volontà di tornare a occuparsi a
tempo pieno di giornalismo e Israele. Pur tracciando un bilancio
positivo del proprio impegno volto ad aumentare la consapevolezza dei
problemi legati al panorama mediorientale e nella Commissione
bipartisan contro l’antisemitismo, Nirenstein non risparmia dure
critiche a Mario Monti e timori per l’immediato futuro. “Sono rimasta
profondamente delusa quando Monti ha dato per la Palestina
l’indicazione di votare sì al riconoscimento dello status di Stato non
membro all’Onu” ha dichiarato, avanzando l’ipotesi che la scelta sia
stata compiuta dal premier “nella prospettiva di un migliore rapporto
con la sinistra, convinto, come altri, che la moneta filo araba possa
pagare e ripagare. Sono preoccupata. Perché se si dovesse vedere di
nuovo un D’Alema ministro degli Esteri, l’Italia ripiomberebbe in una
posizione arretrata, con una visione distorta delle problematiche del
mondo arabo e di Israele”.
Tra le sue intenzioni per l’immediato futuro, c’è quella di prendere la
cittadinanza “perché credo che Israele sia oggi l’unico Paese che offre
la prospettiva di un futuro colto e intelligente, un Paese dove la
gente ha uno stile di vita più semplice, solidale, che trova forza in
un grande amor patrio e in un profondo senso della vita”.
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Qui Torino – La santità della famiglia |
Prendono
avvio in queste ore le iniziative organizzate in tutta Italia in
occasione della giornata del dialogo e della riflessione
ebraico-cristiana dedicata quest'anno, come scrivono nella nota di
accompagnamento il presidente dell'Assemblea rabbinica italiana rav
Elia Richetti e il presidente della commissione della Conferenza
episcopale per l'ecumenismo Mansueto Bianchi, alla famiglia “come
cellula essenziale della società” e come “contesto di base in cui si
imparano e si esercitano le virtù umane”. Nella sede della Comunità
ebraica di Torino, alla presenza del vicepresidente dell'Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane Giulio Disegni e di un folto pubblico, la
prima visita ufficiale del nuovo arcivescovo del capoluogo piemontese
Cesare Nosiglia (foto di Marco Morello). Ad accoglierlo, tra gli altri,
il presidente Beppe Segre e rav Alberto Somekh, autore di un denso
intervento sul divieto di commettere adulterio'.
Nel suo intervento l'arcivescovo ha sottolineato l'importanza
dell'incontro e della riflessione comune come realtà concreta capace di
dare realizzazione effettiva ai principi di vicinanza spirituale,
ribadendo poi come il Concilio Vaticano Secondo - di cui ricorre
quest'anno il cinquantesimo anniversario - abbia segnato una svolta
centrale nei rapporti tra le due religioni e aperto la strada a una
fase di riflessione e di richiesta di perdono al mondo ebraico da parte
della Chiesa. La cristianità vede nella fedeltà coniugale, secondo le
sue parole, "il percorso del bene, il segno di un rapporto non solo tra
uomo e uomo ma tra uomo e Dio, capace di dare saldezza forza giustizia
a una società in costante relazione con la presenza divina".
“Questa visita, che fa seguito a quello di tre anni fa del suo
predecessore Cardinale Severino Poletto e prima ancora, nel 1998, del
Cardinale Giovanni Saldarini – ha affermato Segre, che ha anche letto
un messaggio del rabbino capo rav Eliahu Birnbaum – costituisce un
passo di quel cammino straordinario di confronto e di amicizia che si è
sviluppato negli ultimi decenni, a partire da quella fondamentale
dichiarazione Nostra Aetate che ha ricordato il patrimonio spirituale
comune a cristiani e ad ebrei ed avviato un dialogo fraterno”.
Di grande interesse la lezione del rav Somekh, a lungo soffermatosi sul
concetto di “santità della famiglia” secondo la visione ebraica del
mondo. “Su questo punto – osserva il rav – la tradizione ebraica parla
chiaro fin dai primordi”. Il divieto dell’adulterio non nasce infatti
con i Dieci Comandamenti, ma è già implicito nella creazione della
prima famiglia umana. Nella Genesi si legge: “Perciò l’uomo lascerà suo
padre e sua madre e si unirà con sua moglie”. Passaggio che il Talmud
commenta così: “Ma non con la moglie di un altro”. La purezza e l’onore
della famiglia costituita dall’unione uomo-donna, ha pertanto
sottolineato il rav, “sono la base di una società forte e stabile”. Un
allentamento dei vincoli morali di fatto contribuirebbe “al crollo
della civiltà”.
(foto di Marco Morello)
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Qui Roma – In Darkness presto nelle sale
cinematografiche
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Presentato
alla stampa il film In Darkness che uscirà nelle sale cinematografiche
italiane il prossimo 24 gennaio. Diretta da Agnieszka Holland, la
pellicola ha fatto parte della cinquina finalista in corsa per la
nomination come miglior film straniero agli Academy Awards 2012 (per
rileggere i testi usciti nell’occasione su Pagine Ebraiche clicca qui).
Tratta dal libro In The Sewers of Lvov (Nelle fogne di Lvov) di Robert
Marshall, in Darkness narra la storia di un gruppo di ebrei nascosti
nel sistema fognario della città polacca occupata dai nazisti nel 1943.
Quando si imbattono in Leopold Socha, operaio improvvisatosi ladruncolo
per cercare di garantire il sostentamento a se stesso e alla sua
famiglia, gli chiedono aiuto in cambio di denaro. La vicenda si
sviluppa però in modo inaspettato nella terribile lotta per
sopravvivere fino alla sconfitta del nazismo.
Tra gli interpreti anche Olek Mincer, attore ebreo di origine ucraina
da quasi trent’anni in Italia.
“Esaminare le molte storie del periodo della Shoah mostra
un’incredibile varietà di destini e vicissitudini, spiegate in un ricco
tessuto di trame e drammi, con personaggi che affrontano scelte morali
e umane difficili dando prova sia del meglio che del peggio della
nostra natura” ha dichiarato la regista.
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Qui Venezia - Alla Ca' Foscari un
confronto sulla Memoria |
Nel
1943 militari italiani sotto il controllo delle SS naziste iniziarono
le prime retate di ebrei anche a Venezia. Lì ovunque, e chiunque
venisse identificato come ebreo – che fosse un uomo adulto, una bambina
neonata o un’anziana signora immobilizzata nel letto di una casa di
riposo – venne spinto nel lungo percorso che dalle carceri veneziane
portò al campo di concentramento di Fossoli e infine al campo di
sterminio di Auschwitz Birkenau.
L’Università, come luogo che ha conosciuto e in parte prodotto le leggi
razziste e la persecuzione antiebraica, è arrivata in ritardo ad
approfondire i fatti e le testimonianze. In parte per inerzia, in parte
perché non ha voluto considerare da subito le proprie responsabilità
dirette nella campagna di discriminazione contro gli ebrei.
L’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha avviato da anni una sua forma
di riflessione sull’argomento, proponendo conferenze e lezioni sul tema
come forma di partecipazione attiva al dibattito sulla Shoah.
Incontri come quello proposto in occasione del Giorno della Memoria dal
titolo "Venezia 1943 / Venezia 2013 cosa accadde, che cosa ci dice” con
l’intervento di Gadi Luzzatto Voghera, docente della Boston University
a Padova, che si occupa della storia degli ebrei e di didattica della
Shoah e dell'antisemitismo, introdotto da Giovanni Vian, docente di Ca’
Foscari e storico del cristianesimo.
Venezia fu colpita pesantemente dai fatti di quegli anni, venne colpita
nel profondo del proprio tessuto sociale. Quando durante i
rastrellamenti si andavano a catturare gli ebrei del Veneto non si
andava infatti a colpire soggetti estranei, ma si andavano a colpire
individui che erano da secoli profondamente radicati nella società
veneta e nelle istituzioni culturali del Veneto.
Uno per tutti Giuseppe Jona, medico, socio corrispondente dell'Istituto
veneto e presidente dell'Ateneo veneto dal 1925 al 1929, che nella
veste di presidente della Comunità ebraica di Venezia nel 1943, quando
i nazisti gli imposero di consegnare gli elenchi degli appartenenti
alla Comunità ebraica di Venezia, decise di togliersi la vita pur di
non cedere. Altri come lui che, sopravvissuti, ritornarono nella
Venezia del dopoguerra e vennero riammessi dalle istituzioni che li
avevano cacciati durante le leggi razziste.
Un comportamento che provocò un certo sconcerto, ci si sarebbe
aspettato il rifiuto da parte loro di rientrare dove non erano stati
ben accetti fino a qualche anno prima. Una reazione che sottolinea
quanto fosse profonda l’integrazione, tale da non provocare nelle
vittime un distacco, un rifiuto categorico di quella società che li
aveva allontanati. I pochi sopravvissuti ripresero il processo di
integrazione con una visione migliorativa delle condizioni di vita, che
prevalse sull’immane tragedia vissuta. Una forma di attualizzazione del
termine Zachor, del ricordare che viene declinato, secondo il
significato ebraico, in un’ottica protesa al futuro e non al passato.
Dopo il 1945 e il 1946 molti cercarono di parlare, di raccontare la
loro vicenda, ma non trovarono orecchie disposte ad ascoltare. Si pensi
a Primo Levi, che si ridusse a dover pubblicare “Se questo è un uomo”
con una piccola casa editrice e con una tiratura di 2500 copie, perché
rifiutato da case editrici più prestigiose come Einaudi. La società non
era pronta, non era disposta ad affrontare un passato così vicino e i
testimoni dopo i primi tentativi di aprirsi al racconto scelsero infine
il silenzio.
Con la crisi delle svastiche negli anni ’60, quando in Europa per
motivi sconosciuti, alcune compagini giovanili ripresero a utilizzare
la svastica come simbolo di riconoscimento, si sollevarono nuovi
interrogativi all’interno della comunità scientifica europea: non erano
svaniti i simboli, come non era svanito l’antisemitismo, passato
indenne attraverso la Shoah e ripresentatosi attraverso altri percorsi
di rielaborazione ideologica.
La vera svolta che spinse l’Europa a fare i conti con la Shoah, fu la
cattura in Argentina di Adolf Eichmann e il successivo processo, il
primo nella storia che si può considerare mediatico. La riflessione si
sviluppò non solo nella società esterna, ma anche all’interno del mondo
ebraico: dal confronto ad alto livello tra Hanna Arendt e Gershom
Scholem, alla messa in accusa dei Consigli ebraici che gestivano i
Ghetti, considerati in parte collaborazionisti del regime, alle accuse
ad personam, alle teorie contrapposte degli intenzionalisti e dei
funzionalisti: i primi che facevano risalire l’ideologia dello
sterminio già ai primi anni dopo la pubblicazione del Mein Kampf e i
secondi che invece la riconducevano alla conferenza di Wannsee.
Da quel momento non solo la storiografia, ma molte altre discipline
presero in considerazione l’esperienza concentrazione per i loro studi:
la sociologia, la medicina, la psicologia. Si ricordi l’esperimento di
Milgram sull’obbedienza, scaturito da una delle testimonianze di
Eichmann al processo, che portò alla conclusione che: “…a volte non è
tanto il tipo di persona che siamo, ma la situazione in cui ci troviamo
a determinare le nostre azioni”.
Con Yad Vashem nacque l’idea che sulla Shoah si dovessero fornire
strumenti museali che non esaurissero il loro compito con la mera
celebrazione del ricordo, ma che fossero luoghi per la raccolta di
documenti, luoghi di studio e approfondimento. Un museo come forma
attiva di memoria che celebrasse inoltre chi mise a repentaglio la
propria vita per salvare anche un solo ebreo.
Fin dagli anni ’70 il cinema aveva iniziato a trattare, sebbene
edulcorandolo, il tema della Shoah. Si fece un ulteriore passo avanti
solo nel 1985 con l’uscita del documentario “Shoah” realizzato da
Claude Lanzmann, in cui erano presenti, in più di 9 ore di girato,
testimonianze dei sopravvissuti, dei carnefici, ma soprattutto
testimonianze di chi visse la Shoah da fuori. Un ragionamento sui
vuoti, sui non luoghi della Shoah, sull’indifferenza di chi aveva
intuito cosa stava succedendo e non fece nulla.
Da qui la domanda pressante: se i luoghi sono stati distrutti, se
rimangono luoghi della memoria, che ruolo avranno le testimonianze dei
sopravvissuti?
I testimoni tornarono allora a farsi sentire, spesso con la difficoltà
degli storici nel distinguere tra ricordi reali e ricordi costruiti, ad
esempio, attraverso successive letture. Con l’emergere delle
testimonianze la società Europea capì che l’evento Shoah e la memoria
di quegli eventi erano un elemento fondante della storia d’Europa. Una
forma di religione civile con un monumento posto al centro, Auschwitz.
Nel 2013 la società italiana interroga la memoria di quanto accaduto,
propone percorsi educativi di ricerca e di riflessione, sulla base di
questo sentire la Shoah, cercando di tutelarsi da continue incursioni
di nostalgici, negazionisti che sempre più pensano di poter imporre le
loro posizioni sotto l’egida di un oblio diffuso e di un appiattimento
delle responsabilità.
Michael Calimani
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"Destra e sinistra vogliono ancora dire qualcosa" |
Su
queste colonne, riflettendo criticamente sulla politica italiana e su
Mario Monti, Dario Calimani
ha ricordato come "gli inviti a dimenticarsi di destra e sinistra e a
fare solo il pragmatico bene del paese (come se quel bene non avesse
valori colorati o almeno qualche sana, sfumata differenza)
contribuiscano a scandeggiare le diversità...". Un ottimo spunto per
riflettere anche sugli specifici orientamenti della realtà ebraica
nostrana così come emergono dallo “sfoglio” di Facebook e siti vari.
Il panorama generale – lo dico con triste preoccupazione – è piuttosto
piatto. Sia chiaro, non mi riferisco alla vicenda mediorientale, che
per sua natura è particolarmente complessa, variegata, emotiva. Intendo
dire che questo panorama non è piatto per motivazioni di ideologia in
senso stretto, ma di modo di interpretare e vivere la realtà. Non è una
questione di partiti o di movimenti, ma di sostanza. Secondo me, la
moderna coniugazione di destra e sinistra sta nella propensione alla
chiusura o all'apertura – verso la società, verso noi stessi, verso
l'altro e gli altri. Dobbiamo guardare il nostro grado di aspirazione a
un futuro collettivo migliore e al cambiamento oppure, al contrario, la
timorosa accettazione dello status quo, la convinzione o meno che vi
sia bisogno della politica – non del banditismo, della politica. Se
così è, io guardo al riformismo di sinistra. Perché credo ancora
nell'ottimismo della volontà. Perché mi piacerebbe tanto smettere di
leggere lamentele, piagnistei, accuse in genere smaccatamente
strumentali. Vorrei meno cori abbaiati e più discorsi pacati. Come dice
la pubblicità, "immagina, puoi". A patto, appunto, di usare più
politica, non meno politica. E di pensare che destra e sinistra
vogliano ancora dire qualcosa
Stefano Jesurum, giornalista
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"Destra uguale fascismo, uno stereotipo" |
Al
contrario di come ha sostenuto qualcuno anche su questa rubrica, non
sono così convinto che destra e sinistra abbiano ancora un senso, né
tantomeno ritengo che sostenere questa tesi possa aprire le porte ai
fascisti, nuovi e vecchi. Mi spiego: i termini destra e sinistra sono
mere semplificazioni politiche, dei contenitori usati storicamente per
definire un qualcosa che oggi non c’è più. Questo non significa che non
possano recuperare un senso in futuro, ma in questo momento, più che
indicare delle chiare linee di pensiero, a me sembra che spieghino in
realtà solo le ideologie del secolo scorso e in maniera neanche tanto
coerente. Tanto che, identificare la destra con il fascismo, è tanto
superficiale quanto legare indissolubilmente il comunismo con la
sinistra. Se pensiamo che poi c’è chi come Von Hayek sostiene che
fascismo, comunismo e nazismo, avessero la stessa radice, in quanto
derivati dell’ideologia socialista, il quadro sembra ancora più
confuso. Per questo, più che la visione di Monti di superare destra e
sinistra, mi spaventa maggiormente un modello in cui si ritiene che il
bene abbia una sfumatura di colore ben precisa, identificabile a
sinistra, mentre tutto ciò che vi è dall’altra parte è identificabile
come il male (assoluto?). Io non credo sia così. Anzi credo che un
paese avanzato abbia bisogno di due visioni politiche contrapposte che,
a prescindere dalle definizioni, contribuiscano ognuna con il proprio
modello al bene del paese. Senza pensare che la ragione stia da una
parte sola, e che soprattutto, prima di pensare a contenitori
vecchi (destra e sinistra) bisognerà immaginare contenuti nuovi,
adeguati a saper restituire una speranza, oltreché una visione per la
quale ritorni importante tornare a occuparsi della cosa pubblica.
Daniel Funaro
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Mar Morto - Il livello delle acque sale
per la prima volta dopo dieci anni
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seguito alle abbondanti precipitazioni delle scorse settimane, il
livello delle acque del Mar Morto è salito di dieci centimetri. E' la
prima volta in dieci anni che le misurazioni registrano un innalzamento.
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Donna Moderna racconta la vita della Comunità di Roma, con le parole entusiaste e affascinate di Marta Ghelma.
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