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  20 gennaio 2013 - 9 Shevat 5773
l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
alef/tav

Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino


La prima mitzvah collettiva del popolo ebraico, alla vigilia della liberazione dalla schiavitù di Egitto, è legata al tempo: si tratta della definizione del capo mese. Libertà è dunque facoltà di muoversi nel tempo, di determinarlo. È non essere sottomessi al tempo di un altro esse umano.

David Bidussa, storico sociale
delle idee
   

Questo giovedì, 24 gennaio, Bollati Boringhieri manderà andrà in libreria il libro di Robert S.C. Gordon dal titolo “Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana dal 1944 al 2010”. Non so se avrà una fascetta che lancia il contenuto del libro in forma di slogan. In ogni caso io me la immagino così: “Non occorre più memoria. Occorre più storia”. Mi piacerebbe che ci fosse e che la scritta fosse questa. Più storia e non più racconti. Quelli è bene che ce ne siano molti. Ma la storia non è i racconti. Ciò che chiamiamo storia è  l’insieme delle domande che noi facciamo al passato; è la conseguenza degli strumenti e della metodologia con cui si indaga quel passato, anche sulla base di quei racconti e della procedure che producono quei racconti e dunque della memoria che si trasmette che riguarda quando, come e con quali parole si comunica il passato. Accanto c’è il problema di quale memoria sociale si costruisce nel tempo che discende a sua volta da molte cose: dai libri letti, dai film visti, dai racconti ascoltati, dalle convinzioni che si ha. Poi c’è l’uso politico che si fa del passato in nome del presente. E lì, per quanto possa essere paradossale, alle volte il fatto che la memoria sovrasti la conoscenza storica non è un vantaggio. Anzi spesso è la riproduzione di luoghi comuni. Per questo a me sembra che noi oggi abbiamo bisogno di più storia.

davar
Zakhor 2013 - Con i giovani per la Memoria
In partenza alla volta di Cracovia l'aereo del Viaggio della Memoria organizzato dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca in collaborazione con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Assieme a 130 studenti da tutto il paese e ai Testimoni Sami Modiano, Andra e Tatiana Bucci, i ministri Paola Severino e Francesco Profumo, il presidente della Rai Annamaria Tarantola, l'ambasciatore d'Italia in Israele Francesco Talò, il presidente UCEI Renzo Gattegna accompagnato dai due vicepresidenti Roberto Jarach e Giulio Disegni e dai consiglieri Elvira Di Cave e Mauro Tabor. Con loro anche lo storico e direttore scientifico del Museo della Shoah di Roma Marcello Pezzetti. In programma, nella giornata odierna, la visita al vecchio ghetto di Cracovia e l'incontro con le autorità ebraiche alla sinagoga cittadina. Domani invece visita al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Diretta twitter del Viaggio della Memoria su @paginebraiche, hashtag #Zakhor. Ci potete seguire cliccando qui oppure sulla finestra live di moked.it
 
L’ambasciatore Gilon racconta Israele su Facebook
Lo sviluppo in campo agricolo e medico scientifico. Israele nell’Unione Europea. I procedimenti necessari per il riconoscimento delle lauree italiane. Ma anche la cattiva qualità dell’informazione sullo Stato ebraico, le prossime elezioni, le prospettive dei negoziati di pace con i palestinesi. Sono tante le domande che il popolo di Facebook ha posto all’ambasciatore israeliano a Roma Naor Gilon attraverso la postazione dell’ambasciata sul social network creato da Mark Zuckerberg “Israele in Italia”. Per oltre un’ora Gilon ha raccolto e cercato di soddisfare le decine di curiosità espresse dagli utenti con le sue risposte. “Israele attribuisce un'enorme importanza alla ricerca e allo sviluppo: investe in R&D il 4.5 per cento del PIL. L'indice più alto nell'Ocse, e tra i più alti al mondo”, “Israele vede una vicinanza e identificazione di valori con l'Ue, molti dei cittadini d'Israele hanno origini da paesi europei, e inoltre l'Europa è la principale partner commerciale di Israele, assieme agli Usa”, “Auspichiamo sinceramente che il nuovo Egitto continui a favorire e a lavorare per il mantenimento della pace e a mantenere con Israele rapporti improntati al segno dell'amicizia e del reciproco rispetto”, alcune delle risposte. Se molti di coloro che hanno seguito e partecipato alla diretta Facebook hanno espresso vicinanza o desiderio di capire meglio la realtà israeliana, non sono mancati anche utenti che hanno postato domande o commenti dal sapore provocatorio, riguardanti in particolare la questione israelo-palestinese. L’ambasciatore non si è comunque sottratto al confronto, e alla fine si è detto soddisfatto dell’esperimento, promettendo di ripeterlo presto “Carissimi amici, grazie della vostra numerosa partecipazione! Mi impegno a rispondere nei prossimi giorni al maggior numero possibile delle domande che mi avete posto. Dato il successo dell'iniziativa, credo proprio che non potrò fare a meno di individuare presto un'altra data in cui ritrovarci di nuovo su Facebook e continuare a parlare di Israele. Todah rabbah”.

Melamed - Cara Abby, …
Dear Abby, probabilmente la columnist più letta al mondo, che ha avuto per oltre trent’anni una rubrica pubblicata su 1.400 (mille e quattrocento!) giornali americani e un numero di lettori quotidiani superiore ai 100 milioni, era il nome scelto da Pauline Esther Friedman. Aveva scelto di firmarsi con lo pseudonimo di Abigail Van Buren: Abigail perché le piaceva la saggezza del personaggio biblico, e Van Buren perché l’ottavo presidente degli Stati Uniti d’America era uno dei suoi personaggi preferiti. È morta a 94 anni, la scorsa settimana, qualche anno dopo la sua gemella, che a sua volta aveva una rubrica regolare, seguitissima, che firmava col nome di Ann Landers.
Dear Abby, che negli anni ha risposto a domande sugli argomenti più svariati, a volte chiedendo pareri di esperti, a volte con durezza, ma sempre con il suo noto e molto amato buonsenso, era diventata un vero personaggio. Aveva una influenza enorme, ai suoi sondaggi riceveva centinaia di migliaia di risposte ed era diventata un personaggio, citata in film, serie televisive, canzoni e addirittura in un episodio dei Muppets, in cui viene chiesto a Fozzie che giornali compra, e l’orso risponde: “Leggo quelli in cui c’è la rubrica Dear Abby”. Spesso le sue risposte erano assolutamente caustiche, ma del tutto irresistibili. Lo scrittore Chuck Palahniuk, in Fight club, allude a Abigail van Buren, che è citata anche in The Chanuka Song scritta da Adam Sandler per un episodio del Saturday Night Live. Nella canzone – poi diventata parte di uno spettacolo di grande successo - si scherza sull’invidia del Natale che possono provare i bambini ebrei e nell’elenco di cose, personaggi e tradizioni ebraiche di cui possono essere fieri cita anche "We got Ann Landers, and her sister Dear Abby". Nel 2001, poi le era stata dedicata una stella nella Walk of Fame, a Hollywood.
La rubrica Dear Abby da qualche anno era scritta a quattro mani con sua figlia, cosa che non ha interrotto né ridimensionato il flusso incessante di lettere e mail a lei destinate, circa 10mila alla settimana, chiedendo consigli e soluzioni. E le sue risposte sono state usate nei contesti più disparati, apprezzate come spunto di discussioni a scuola, o come strumento per i corsi di apprendimento dell’inglese agli stranieri (per questo scopo è stato pubblicato nel 2005 Dear Abby ESL). Allora è bello salutarla con una delle sue frasi più citate:
“Se volete che i bambini tengano i piedi per terra, caricate sulle loro spalle qualche responsabilità” – Abigail Van Buren
 
Ada Treves twitter@atrevesmoked 

Qui Washington - Verso l'Inauguration Day
“Così ho lavorato per la vittoria di Obama”
Sgombriamo subito il campo da ogni dubbio: vengo da una lunga esperienza nell’attività di advocacy per Israele, prima all’università (UC Berkeley) e, più di recente, alla Jewish Community Relations Council of Greater Pittsburgh. A Berkeley sono stato tra i primi architetti della sconfitta del progetto di regolamento universitario per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele (BDS), che era stato proposto durante il mio ultimo anno di università. Sono anche un supporter di Obama sin da quando era ancora senatore. Probabilmente avrei lavorato per lui già nella campagna del 2008 se fossi stato laureato. Quando venni a sapere che cercava giovani per la sua campagna, inviai il mio curriculum. Mi sentivo quasi obbligato ad aiutarlo se volevo che il mio paese e il mondo intero rimanessero posti rispettabili. Molto è stato detto della precisione e dell’instancabilità della campagna di Obama. In realtà ho scoperto ben presto che l’organizzazione era di tipo quasi militare, con tutte la rigidità e la gerarchia che questo implica. Come stagista, rappresentavo una via di mezzo fra i volontari ordinari e gli organizzatori sul campo (la più bassa posizione retribuita), responsabili della squadra di un quartiere. Io tenevo in ordine l’ufficio e dovevo assicurarmi che tutti i volontari fossero impegnati secondo i turni stabiliti in visite porta a porta, telefonate, registrazione degli elettori, le tre attività che costituivano il pane quotidiano della campagna elettorale, e anche il mio. Da un punto di vista demografico, noi stagisti eravamo quasi tutti tra i 20 e i 25 anni. I volontari invece erano tipicamente di mezza età, a volte oltre. Molti avevano qualche precedente esperienza da attivisti ma non tutti. Mentre era senz’altro efficace e gestita in modo rigoroso, con obiettivi e punti di riferimento chiari, la campagna aveva uno stupefacente punto debole: l’inflessibilità. Ho visto molti stagisti e responsabili di quartiere lamentarsene in privato. Un buon esempio di questa inflessibilità è stato il fatto che, dopo la mia insistenza durante i colloqui, hanno accettato di assegnarmi a un quartiere con una presenza ebraica significativa, un’area che poteva essere adatta alla mia esperienza. Il mio background nella advocacy per Israele tuttavia apparentemente non valeva abbastanza per essere utilizzato nel principale quartiere ebraico di Pittsburgh, Squirrel Hill, dove invece sono stati inviati stagisti che non avevano alcuna esperienza nei rapporti con la comunità ebraica. A proposito del presunto passo indietro nel sostegno a Israele in seno alla sinistra americana, pensando alla campagna appena conclusa, mi viene in mente un episodio che vale la pena di menzionare. Durante il training autunnale degli stagisti, ci divisero in piccoli gruppi e ci invitarono a condividere le nostre precedenti esperienze nell’attivismo politico. Il silenzio e gli sguardi di disagio quando finii di raccontare la mia storia furono eloquenti. Una ragazza che sovrintendeva all’attività suggerì, piena di buona volontà, che il mio background avrebbe potuto essere utile per convincere qualche elettore repubblicano. Con educazione, le ho ricordato che Obama (a dispetto di ciò che sostiene la destra) è lui stesso, nelle parole e nei fatti, favorevole a Israele tanto quanto lo è qualsiasi repubblicano, e che se lei non condivideva questi sentimenti, si trovava in forte contrasto con l’uomo nel nome e per conto del quale stava lavorando. Tuttavia, ciò che ho osservato in un lustro con un piede nell’attività di advocacy per Israele e un altro nell’ambiente del partito democratico, è che lo sconforto che alcuni democratici, principalmente i più giovani, hanno verso la politica americana su Israele, non è semplicemente sintomo di un problema pervasivo nell’ambito della sinistra americana, ma di sottaciuta guerra all’interno del partito. C’è una crescente incrinatura tra la sinistra americana tradizionale e una piccola ma rumorosa e apparentemente crescente fazione che vota e si autoidentifica con i democratici, ma è ideologicamente più vicina alla sinistra radicale, con un orecchio rivolto alla narrativa palestinese in Medio Oriente. Che il partito democratico continui in futuro a nominare moderati come Obama alla presidenza non è una certezza. Io prego che lo faccia. La notte della vittoria, quando arrivò, fu un momento euforico, che non dimenticherò facilmente, fu qualcosa come assistere di persona alla vittoria della propria squadra del cuore al Super Bowl… Sono cresciuto come persona anche solo essendo lì, vedendo persone di ogni provenienza riunirsi con emozione e orgoglio. Credo che questo sia simbolico di ciò che Obama rappresenta davvero. La speranza. L’Inauguration Day (previsto per il 21 gennaio ndt), tra l’altro, è un momento per cui sono estremamente emozionato. A differenza di quattro anni fa, quando dormii tutto il giorno, distrutto com’ero dalle lunghe nottate di studio, stavolta ho intenzione di fare il tifo per il presidente in televisione. Ho in programma di organizzare qualcosa con i miei colleghi, un Inauguration Party. È un altro punto a favore del lavorare per una campagna: la nascita di nuove amicizie. L’Inauguration Day è centrale nella politica americana perché è il modo in cui simbolicamente e orgogliosamente incoroniamo un re. Una cerimonia insomma, in cui il popolo americano offre con amore il suo sostegno a un leader di cui si fida. Arrivare a questo momento dopo aver lavorato per far eleggere Obama è ancora più potente. Mi aspetto che i prossimi quattro anni sotto la guida di Obama renderanno gli americani orgogliosi. Io ho servito il mio paese lavorando per la sua campagna e, nel farlo, so di avergli assicurato un futuro migliore. La devozione del partito repubblicano all’arcaico concetto dell’austerity economica e il suo desiderio di ostacolare un presidente in carica a costo del benessere del popolo degli Stati Uniti è l’unica cosa che temo davvero nei prossimi quattro anni a Washington.

Ariel Kaplan, Obama Campaign - Pagine Ebraiche, gennaio 2013


pilpul
Un continente nero che diventa verde
Cosa sta succedendo nel Mali? Più propriamente, cosa sta avvenendo nell’Africa sahariana e del Sahel? Nulla di troppo sorprendente, purtroppo, per gli analisti che da tempo seguono, con preoccupazione, l’evolversi della situazione di quelle aree che mettono in comunicazione il Mediterraneo con l’«Africa nera». La caduta dei regimi dispotici in Libia, Tunisia ed Egitto ha sprigionato forze ma anche aperto falle che faticheremo a contenere. Agli esiti, più o meno imprevedibili, della «primavera araba», tradottisi in una rottura degli equilibri interregionali e dell’area Memo (Mediterrano-Medio Oriente), si accompagnano peraltro fenomeni di più lungo periodo, che precedono gli stessi sommovimenti popolari avviatisi nel 2011. In estrema sintesi, il modello dello Stato-nazionale, importato nel continente negli anni della decolonizzazione, si sta contorcendo su di sé e quindi disfacendo. Recitare una prece non è il caso. Piuttosto bisogna prendere atto che le vecchie fedeltà di gruppo, ossia claniche, precedenti alla riorganizzazione amministrativa e politica della sovranità avvenuta dopo la fine della Seconda guerra mondiale, hanno a tutt’oggi la meglio su qualsiasi altra proposta, a partire dall’idea stessa di Stato laico, così come lo concepiamo nell’Europa occidentale, ed in particolare in quelle che sono state le due grandi potenze coloniali, la Gran Bretagna e la Francia. Un’idea, quest’ultima, che vi era stata importata e che sta quindi consumandosi, dando campo libero al movimentismo militante dei gruppi del radicalismo religioso che producono quella “identità” collettiva che altrimenti mancherebbe. Si tratta di un processo di lungo periodo, che ha tutta una serie di ricadute e di addentellati ma che va tenuto in considerazione se si vuole meglio capire il senso degli eventi che stiamo vivendo nelle singole aree di crisi. Un fatto rilevante, in tutto ciò, è l’azione di scardinamento che i percorsi della globalizzazione economica hanno esercitato sui già precari, e quindi sempre mutevoli, equilibri dell’area africana. Anche in questo caso ci troviamo a che fare con una tendenza di lungo periodo, i cui effetti non sono prevedibili aprioristicamente. L’unico dato certo è che i recenti fermenti popolari si sono tradotti in un percorso a senso unico, ossia la delegittimazione dei già pencolanti poteri costituiti. Il caso della Libia è emblematico: la decomposizione e la disintegrazione dell’alleanza pantribale di cui Gheddafi era il garante non ha portato alla sostituzione del vecchio potere con uno nuovo, e men che meno ad un ricambio di classe dirigente, bensì alla segmentazione in aree di influenza disegnate su ciò che preesisteva alla fondazione, tra il 1969 e il 1977, della Jamāhīriyya (la cosiddetta «Repubblica delle masse»). Non è il vecchio che ritorna ma è un nuovo che si ridisegna con i colori e le fisionomie di ciò che fu. Un fatto, quest’ultimo, comunque non definitivo, destinato probabilmente a conoscere ulteriori evoluzioni. Anche i paesi che sono rimasti ai margini delle proteste stanno ora misurandosi con gli effetti di amplificazione ritardata che queste hanno generato, un po’ come nel caso dei cerchi concentrici causati dai sassi gettati nello stagno o dello sciame sismico. L’Algeria è al centro dei mutamenti, ovvero è una delle poste del gioco. Da essa è nato il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, costituitosi negli anni Novanta, durante la sanguinosa guerra civile, di fatto poi sostituitosi al Gia, il Gruppo islamico armato, originariamente il maggiore protagonista delle violenze nei due decenni trascorsi. I salafiti si sono quindi integrati, nel 2005, in al-Qaeda, dando origine ad al-Qeada nel Maghreb islamico (AQIM), che oggi opera non solo nella stessa Algeria ma in Mauritania, nel Mali, in Niger, nel Ciad e nelle regioni settentrionali della Nigeria. Il controllo della regione del Sahel è capitale per il destino del continente, concentrando non poche risorse, essendo una ampia porzione di territorio sul quale i cinesi vanno facendo grossi investimenti e contando su comunità cristiane di grossa consistenza. Inutile richiamare il fatto, già evocato alcune settimane fa sulle pagine di questa newsletter, che ad est c’è ciò che resta della Somalia e, in prospettiva, il ponte strategico con lo Yemen, base operativa degli Shaabab. In competizione nell’intera area Memo ci sono tre “modelli”, se così li si vuole considerare, di organizzazione politica: quello autoritario dei Fratelli musulmani, che tuttavia fatica a trovare conferme, malgrado l’eccellente ramificazione in Egitto; l’esperienza turca, non facilmente proponibile tuttavia in Africa; infine, quello movimentista della Salafiyya. Quest’ultimo è il meno strutturato ma è anche quello che ha, sul breve periodo, più chance, potendo giocare sulla massima mobilità e su una capacità di proselitismo e reclutamento non indifferenti. Si tratta, comunque, di tre modi diversi di essere dell’Islam politico oggi. Il fatto che vi sia una comune radice sunnita non ci dice più di tanto (o non dice tutto), poiché nel mondo musulmano odierno la spaccatura sempre più forte è tra istituzioni e movimenti, fatto che è trasversale alle grandi famiglie identitarie e alle antiche scuole di osservanza. Le istituzioni dei fragili Stati nazionali raccolgono quel che resta dell’esperienza dello Stato laico, di derivazione novecentesca. È il caso della Siria di Bashir al-Assad, per fare un esempio, tale finché riuscirà a resistere alla pressione delle opposizioni armate. I movimenti, invece, capitalizzano l’ansia di trasformazione incanalandola verso nuove forme di partecipazione e coinvolgimento. L’islamismo radicale gioca qui la sua partita più fortunata. Su questi cambiamenti al momento vigilano, con occhio attento, le petrolcrazie della penisola arabica, che da sempre si impegnano nel medesimo tempo su piani diversi, aiutando gli uni e gli altri, affinché ciò gli garantisca spazio di contrattazione e respiro strategico. Allo stato attuale dei fatti dobbiamo riconoscere che è tutta l’Africa compresa tra il Mediterraneo e la fascia sahelo-sahariana ad essere interessata all’espansione del radicalismo. È come se una parte del continente fosse stata assorbita dentro le dinamiche del mondo arabo-islamico. Il tributo che le comunità cristiane sono chiamate a pagare, con il ricorso contro di loro ad una vera e propria politica del terrore, che ha ad obiettivo la distruzione dei secolari insediamenti, è inscritta in questa dinamica. Si tratta non solo di espellere scomodi antagonisti ma anche di “normalizzare” le comunità musulmane nel nome della Sharia, intesa come strumento di egemonia morale e culturale, sotto il cui ombrello si può poi tranquillamente procedere ai peggiori commerci e a traffici clandestini, come già è avvenuto in Afghanistan. Un pensiero particolare va alla Nigeria, una federazione di trentasei Stati, con 158 milioni di abitanti, la cui popolazione, secondo le proiezioni demografiche, potrebbe triplicare di qui alla fine del secolo. Le violenze interetniche e la divisione tra un nord musulmano e un sud cristiano è parte del quadro di cui si va dicendo. L’intervento francese nel Mali, così come la disastrosa gestione dell’ultimo rapimento di ostaggi ad Amenas in Algeria, stanno quindi in questa configurazione del mutamento. Le milizie jihadiste di Aqim hanno i loro santuari nella parte settentrionale del primo paese, che è divenuta in questi mesi l’anello più debole di tutta la fascia sub sahariana. Le possibilità di attraversare, con le carovane dei nomadi, i confini desertici – laddove il Sahara non è un vuoto ma un pieno di rapporti e transiti – e di praticare una prassi a doppia faccia, il contrabbando e il proselitismo, è al momento una chiave vincente per i gruppi radicali. È lì che Mokthar Belmoktar, il capo salafita emerso recentemente agli onori della cronaca, trova il suo terreno naturale. Il fatto stesso che sia nato quarant’anni fa nell’Algeria centrale e che nel 1991 abbia abbracciato la causa del Jihad, andando a combattere in Afghanistan, ne ha fatto un leader “naturale” della galassia di gruppuscoli alla perenne ricerca di una causa sotto la quale motivare la loro attività predatoria. Belmoktar si è infatti fatto le ossa combattendo anche nel Sahara e rivestendo, dopo l’esperienza afghana, un ruolo crescente nella guerriglia islamista del Gia contro l’esercito algerino e la popolazione della Cabila. Da lì ha guidato la successiva penetrazione nel Sahel, usando un mix di violenza sistematica e alleanza politica con i gruppi separatisti della regione (nel nord del Mali si è legato al movimento per la liberazione dell’Azawad, un’ampia porzione di territorio di 850mila chilometri quadrati con 1.200mila abitanti, popolata dai tuareg, che ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza dal Mali il 6 aprile 2012, dopo violenti combattimenti contro l’esercito maliano). Una delle fonti più importanti di finanziamento sono i rapimenti, soprattutto di occidentali, a scopo di estorsione. Attraverso i riscatti si pagano le armi, si distribuisce denaro ai propri sodali e si reclutano nuove combattenti, soprattutto tra i più giovani. Il rapporto con le comunità tuareg è di reciproco interesse, essendo quest’ultime tra quanti meglio conoscono il Sahara . Aqim fornisce loro il supporto operativo per le scorribande che fanno tra le aree rurali e per il contrabbando. Dove in queste pratiche finisca la criminalità politica e inizi quella comune è pressoché impossibile dirlo, alimentandosi vicendevolmente l’una dell’altra. Il terrorismo non avrebbe futuro, infatti, se non costituisse anche una ricca impresa economica. Dopo il ridimensionamento dello scenario afghano, che per al-Qaeda ha comportato una perdita di ruolo, la scelta che il network terrorista ha fatto è stata quella di creare nuove scenari di scontro dentro i quali attirare gli occidentali. L’intervento francese in Mali fa quindi da involontaria sponda per le attività di Belmokthar. Ma cerca anche di porre un freno alla deriva libica. Dopo la caduta di Gheddafi gli abbondanti arsenali sono stati saccheggiati e “privatizzati”, in una sorta di mercato a cielo aperto. Si sono così costituite nuove rotte del contrabbando tra le quali quella che da Bengasi arriva a Gaza, direttamente nelle mani di Hamas. Quel che è certo è che i predoni islamisti hanno ben poco a che fare con certe visioni romantiche dei “guerriglieri del deserto”. Non solo predicano e praticano l’intolleranza, usando la foglia di fico della versione più oltranzista della religione per imporre un regime di ferro e di fuoco, ma lo fanno ricorrendo alle strumentazioni più moderne. La mobilità è il loro punto di forza, di contro ai tempi molto più lunghi ai quali sono abituati gli eserciti tradizionali. Ancora una volta dovremo quindi misurarci con un’ampia area di instabilità permanente, alla quale l’intervento di Parigi, sostenuto per il momento obtorto collo dai paesi occidentali e con il ricorso alle risoluzioni 2071 del 12 ottobre 2012 e 2085 del 20 dicembre 2012 delle Nazioni Unite, potrà dare solo risposte parziali.

Claudio Vercelli

Nugae - Litigare
Visto che le bambine scorbutiche di oggi sono le donne scorbutiche di domani, dichiara solennemente Lucy dei Peanuts, e io non posso deludere una delle mie più grandi maestre di vita (chissà se Schulz si sarebbe mai immaginato che un giorno avrebbe avuto tanta influenza sugli animi filosofeggianti delle ventenni degli anni duemila), non posso fingere di ignorare la provocazione che la mia collega columnist Rachel Silvera mi lanciava circa una settimana fa fra le righe di questo portale. Non importa se in realtà lei non era seria, leggere il proprio nome nero su bianco fa bene al proprio ego e fa emergere la bambina scorbutica che è in ognuno. Perché inutile negarlo, litigare un pochino ogni tanto è divertente. Avevo già schierato la mia squadra per la battaglia fra antichi e moderni, che non so per quale ragione mi sono immaginata come una rissa fra gang del Bronx, con il trio corpulento di Ovidio, Tibullo e Properzio in prima linea e Omero come boss. Ma effettivamente questo dibattito è davvero un po’ démodé, ormai. Peccato. E allora la pagina bianca ha sfidato anche me con le sue infinite possibilità, che contenuti dare alla nostra diatriba? Discutere di libri sarebbe stato meraviglioso, la letteratura è l’argomento più affascinante che esista, perché le parole scritte sono così solide e concrete, riproducibili sempre uguali sulla carta e nella memoria, ma totalmente diverse quando è qualcun altro a ripeterle. Così il nostro dibattito sarebbe diventato infinito e infinitamente profondo, magari un’altra volta, quando saremo due grandi erudite. Rimanevano i sentimenti, la solita ultima spiaggia dalla sabbia zuccherina, ma probabilmente ci saremmo trasformate in inquiline della casa del Grande fratello e avremmo finito con l’urlarci contro quanto siamo false. Per carità, meglio non correre il rischio. E dunque sono giunta alla conclusione che litigare sarà anche divertente, ma farlo in modo costruttivo è davvero difficile. A questo punto meglio andare d’accordo. E poi ecco l’illuminazione, la saggia Lucy è di nuovo venuta in mio soccorso. “È davvero una bella cosa che la gente sia diversa, non sarebbe terribile se tutti fossimo d’accordo su tutto?”, le dice Charlie Brown. “Perché?”, risponde lei. “Se tutti fossero d’accordo con me, andrebbe benissimo!”

Francesca Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF

           

notizieflash   rassegna stampa
Qui Roma - Testimoni della Memoria:
dopo la Shoah il ritorno alla vita
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Giovedì mattina la Comunità ebraica di Roma celebrerà il Giorno della Memoria al Tempio Maggiore con la cerimonia dal titolo "I Testimoni della Memoria: dopo la Shoah... il ritorno alla vita". Sarà presente il capo rabbino di Tel Aviv e presidente dello Yad Vashem Council, Rav Ysrael Meir Lau, sopravvissuto al campo di sterminio nazista di Buchenwald. Rav Lau fu deportato con la sua famiglia quando aveva appena 6 anni, tutta la sua famiglia è stata sterminata ad eccezione sua e di un suo fratello, Naphtali Lau-Lavie. Nel 1945 partì per Israele dove iniziò i suoi studi rabbinici.




 

Nell'avvicinarsi del Giorno della Memoria si moltiplicano sulla stampa italiana gli articoli che riguardano la Shoah ed i vari eventi organizzati per ricordare.









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