In
partenza alla volta di Cracovia l'aereo del Viaggio della Memoria
organizzato dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della
Ricerca in collaborazione con l'Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane. Assieme a 130 studenti da tutto il paese e ai Testimoni Sami
Modiano, Andra e Tatiana Bucci, i ministri Paola Severino e Francesco
Profumo, il presidente della Rai Annamaria Tarantola, l'ambasciatore
d'Italia in Israele Francesco Talò, il presidente UCEI Renzo Gattegna
accompagnato dai due vicepresidenti Roberto Jarach e Giulio Disegni e
dai consiglieri Elvira Di Cave e Mauro Tabor. Con loro anche lo storico
e direttore scientifico del Museo della Shoah di Roma Marcello
Pezzetti. In programma, nella giornata odierna, la visita al vecchio
ghetto di Cracovia e l'incontro con le autorità ebraiche alla sinagoga
cittadina. Domani invece visita al campo di sterminio di
Auschwitz-Birkenau. Diretta twitter del Viaggio della Memoria su
@paginebraiche, hashtag #Zakhor. Ci potete seguire cliccando qui oppure sulla finestra live di moked.it
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L’ambasciatore Gilon racconta Israele su Facebook |
Lo
sviluppo in campo agricolo e medico scientifico. Israele nell’Unione
Europea. I procedimenti necessari per il riconoscimento delle lauree
italiane. Ma anche la cattiva qualità dell’informazione sullo Stato
ebraico, le prossime elezioni, le prospettive dei negoziati di pace con
i palestinesi. Sono tante le domande che il popolo di Facebook ha posto
all’ambasciatore israeliano a Roma Naor Gilon attraverso la postazione
dell’ambasciata sul social network creato da Mark Zuckerberg “Israele
in Italia”. Per oltre un’ora Gilon ha raccolto e cercato di soddisfare
le decine di curiosità espresse dagli utenti con le sue risposte.
“Israele attribuisce un'enorme importanza alla ricerca e allo sviluppo:
investe in R&D il 4.5 per cento del PIL. L'indice più alto
nell'Ocse, e tra i più alti al mondo”, “Israele vede una vicinanza e
identificazione di valori con l'Ue, molti dei cittadini d'Israele hanno
origini da paesi europei, e inoltre l'Europa è la principale partner
commerciale di Israele, assieme agli Usa”, “Auspichiamo sinceramente
che il nuovo Egitto continui a favorire e a lavorare per il
mantenimento della pace e a mantenere con Israele rapporti improntati
al segno dell'amicizia e del reciproco rispetto”, alcune delle
risposte. Se molti di coloro che hanno seguito e partecipato alla
diretta Facebook hanno espresso vicinanza o desiderio di capire meglio
la realtà israeliana, non sono mancati anche utenti che hanno postato
domande o commenti dal sapore provocatorio, riguardanti in particolare
la questione israelo-palestinese. L’ambasciatore non si è comunque
sottratto al confronto, e alla fine si è detto soddisfatto
dell’esperimento, promettendo di ripeterlo presto “Carissimi amici,
grazie della vostra numerosa partecipazione! Mi impegno a rispondere
nei prossimi giorni al maggior numero possibile delle domande che mi
avete posto. Dato il successo dell'iniziativa, credo proprio che non
potrò fare a meno di individuare presto un'altra data in cui ritrovarci
di nuovo su Facebook e continuare a parlare di Israele. Todah rabbah”.
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Melamed - Cara Abby, …
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Dear
Abby, probabilmente la columnist più letta al mondo, che ha avuto per
oltre trent’anni una rubrica pubblicata su 1.400 (mille e
quattrocento!) giornali americani e un numero di lettori quotidiani
superiore ai 100 milioni, era il nome scelto da Pauline Esther
Friedman. Aveva scelto di firmarsi con lo pseudonimo di Abigail Van
Buren: Abigail perché le piaceva la saggezza del personaggio biblico, e
Van Buren perché l’ottavo presidente degli Stati Uniti d’America era
uno dei suoi personaggi preferiti. È morta a 94 anni, la scorsa
settimana, qualche anno dopo la sua gemella, che a sua volta aveva una
rubrica regolare, seguitissima, che firmava col nome di Ann Landers. Dear
Abby, che negli anni ha risposto a domande sugli argomenti più
svariati, a volte chiedendo pareri di esperti, a volte con durezza, ma
sempre con il suo noto e molto amato buonsenso, era diventata un vero
personaggio. Aveva una influenza enorme, ai suoi sondaggi riceveva
centinaia di migliaia di risposte ed era diventata un personaggio,
citata in film, serie televisive, canzoni e addirittura in un episodio
dei Muppets, in cui viene chiesto a Fozzie che giornali compra, e
l’orso risponde: “Leggo quelli in cui c’è la rubrica Dear Abby”. Spesso
le sue risposte erano assolutamente caustiche, ma del tutto
irresistibili. Lo scrittore Chuck Palahniuk, in Fight club, allude a
Abigail van Buren, che è citata anche in The Chanuka Song scritta da
Adam Sandler per un episodio del Saturday Night Live. Nella canzone –
poi diventata parte di uno spettacolo di grande successo - si scherza
sull’invidia del Natale che possono provare i bambini ebrei e
nell’elenco di cose, personaggi e tradizioni ebraiche di cui possono
essere fieri cita anche "We got Ann Landers, and her sister Dear Abby".
Nel 2001, poi le era stata dedicata una stella nella Walk of Fame, a
Hollywood. La rubrica Dear Abby da qualche anno era scritta a
quattro mani con sua figlia, cosa che non ha interrotto né
ridimensionato il flusso incessante di lettere e mail a lei destinate,
circa 10mila alla settimana, chiedendo consigli e soluzioni. E le sue
risposte sono state usate nei contesti più disparati, apprezzate come
spunto di discussioni a scuola, o come strumento per i corsi di
apprendimento dell’inglese agli stranieri (per questo scopo è stato
pubblicato nel 2005 Dear Abby ESL). Allora è bello salutarla con una
delle sue frasi più citate: “Se volete che i bambini tengano i piedi per terra, caricate sulle loro spalle qualche responsabilità” – Abigail Van Buren Ada Treves twitter@atrevesmoked
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Qui Washington - Verso l'Inauguration Day “Così ho lavorato per la vittoria di Obama”
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Sgombriamo
subito il campo da ogni dubbio: vengo da una lunga esperienza
nell’attività di advocacy per Israele, prima all’università (UC
Berkeley) e, più di recente, alla Jewish Community Relations Council of
Greater Pittsburgh. A Berkeley sono stato tra i primi architetti della
sconfitta del progetto di regolamento universitario per il
boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele (BDS), che era
stato proposto durante il mio ultimo anno di università. Sono anche un
supporter di Obama sin da quando era ancora senatore. Probabilmente
avrei lavorato per lui già nella campagna del 2008 se fossi stato
laureato. Quando venni a sapere che cercava giovani per la sua
campagna, inviai il mio curriculum. Mi sentivo quasi obbligato ad
aiutarlo se volevo che il mio paese e il mondo intero rimanessero posti
rispettabili. Molto è stato detto della precisione e
dell’instancabilità della campagna di Obama. In realtà ho scoperto ben
presto che l’organizzazione era di tipo quasi militare, con tutte la
rigidità e la gerarchia che questo implica. Come stagista,
rappresentavo una via di mezzo fra i volontari ordinari e gli
organizzatori sul campo (la più bassa posizione retribuita),
responsabili della squadra di un quartiere. Io tenevo in ordine
l’ufficio e dovevo assicurarmi che tutti i volontari fossero impegnati
secondo i turni stabiliti in visite porta a porta, telefonate,
registrazione degli elettori, le tre attività che costituivano il pane
quotidiano della campagna elettorale, e anche il mio. Da un punto di
vista demografico, noi stagisti eravamo quasi tutti tra i 20 e i 25
anni. I volontari invece erano tipicamente di mezza età, a volte oltre.
Molti avevano qualche precedente esperienza da attivisti ma non tutti.
Mentre era senz’altro efficace e gestita in modo rigoroso, con
obiettivi e punti di riferimento chiari, la campagna aveva uno
stupefacente punto debole: l’inflessibilità. Ho visto molti stagisti e
responsabili di quartiere lamentarsene in privato. Un buon esempio di
questa inflessibilità è stato il fatto che, dopo la mia insistenza
durante i colloqui, hanno accettato di assegnarmi a un quartiere con
una presenza ebraica significativa, un’area che poteva essere adatta
alla mia esperienza. Il mio background nella advocacy per Israele
tuttavia apparentemente non valeva abbastanza per essere utilizzato nel
principale quartiere ebraico di Pittsburgh, Squirrel Hill, dove invece
sono stati inviati stagisti che non avevano alcuna esperienza nei
rapporti con la comunità ebraica. A proposito del presunto passo
indietro nel sostegno a Israele in seno alla sinistra americana,
pensando alla campagna appena conclusa, mi viene in mente un episodio
che vale la pena di menzionare. Durante il training autunnale degli
stagisti, ci divisero in piccoli gruppi e ci invitarono a condividere
le nostre precedenti esperienze nell’attivismo politico. Il silenzio e
gli sguardi di disagio quando finii di raccontare la mia storia furono
eloquenti. Una ragazza che sovrintendeva all’attività suggerì, piena di
buona volontà, che il mio background avrebbe potuto essere utile per
convincere qualche elettore repubblicano. Con educazione, le ho
ricordato che Obama (a dispetto di ciò che sostiene la destra) è lui
stesso, nelle parole e nei fatti, favorevole a Israele tanto quanto lo
è qualsiasi repubblicano, e che se lei non condivideva questi
sentimenti, si trovava in forte contrasto con l’uomo nel nome e per
conto del quale stava lavorando. Tuttavia, ciò che ho osservato in un
lustro con un piede nell’attività di advocacy per Israele e un altro
nell’ambiente del partito democratico, è che lo sconforto che alcuni
democratici, principalmente i più giovani, hanno verso la politica
americana su Israele, non è semplicemente sintomo di un problema
pervasivo nell’ambito della sinistra americana, ma di sottaciuta guerra
all’interno del partito. C’è una crescente incrinatura tra la sinistra
americana tradizionale e una piccola ma rumorosa e apparentemente
crescente fazione che vota e si autoidentifica con i democratici, ma è
ideologicamente più vicina alla sinistra radicale, con un orecchio
rivolto alla narrativa palestinese in Medio Oriente. Che il partito
democratico continui in futuro a nominare moderati come Obama alla
presidenza non è una certezza. Io prego che lo faccia. La notte della
vittoria, quando arrivò, fu un momento euforico, che non dimenticherò
facilmente, fu qualcosa come assistere di persona alla vittoria della
propria squadra del cuore al Super Bowl… Sono cresciuto come persona
anche solo essendo lì, vedendo persone di ogni provenienza riunirsi con
emozione e orgoglio. Credo che questo sia simbolico di ciò che Obama
rappresenta davvero. La speranza. L’Inauguration Day (previsto per il
21 gennaio ndt), tra l’altro, è un momento per cui sono estremamente
emozionato. A differenza di quattro anni fa, quando dormii tutto il
giorno, distrutto com’ero dalle lunghe nottate di studio, stavolta ho
intenzione di fare il tifo per il presidente in televisione. Ho in
programma di organizzare qualcosa con i miei colleghi, un Inauguration
Party. È un altro punto a favore del lavorare per una campagna: la
nascita di nuove amicizie. L’Inauguration Day è centrale nella politica
americana perché è il modo in cui simbolicamente e orgogliosamente
incoroniamo un re. Una cerimonia insomma, in cui il popolo americano
offre con amore il suo sostegno a un leader di cui si fida. Arrivare a
questo momento dopo aver lavorato per far eleggere Obama è ancora più
potente. Mi aspetto che i prossimi quattro anni sotto la guida di Obama
renderanno gli americani orgogliosi. Io ho servito il mio paese
lavorando per la sua campagna e, nel farlo, so di avergli assicurato un
futuro migliore. La devozione del partito repubblicano all’arcaico
concetto dell’austerity economica e il suo desiderio di ostacolare un
presidente in carica a costo del benessere del popolo degli Stati Uniti
è l’unica cosa che temo davvero nei prossimi quattro anni a Washington.
Ariel Kaplan, Obama Campaign - Pagine Ebraiche, gennaio 2013
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Un continente nero che diventa verde
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Cosa
sta succedendo nel Mali? Più propriamente, cosa sta avvenendo
nell’Africa sahariana e del Sahel? Nulla di troppo sorprendente,
purtroppo, per gli analisti che da tempo seguono, con preoccupazione,
l’evolversi della situazione di quelle aree che mettono in
comunicazione il Mediterraneo con l’«Africa nera». La caduta dei regimi
dispotici in Libia, Tunisia ed Egitto ha sprigionato forze ma anche
aperto falle che faticheremo a contenere. Agli esiti, più o meno
imprevedibili, della «primavera araba», tradottisi in una rottura degli
equilibri interregionali e dell’area Memo (Mediterrano-Medio Oriente),
si accompagnano peraltro fenomeni di più lungo periodo, che precedono
gli stessi sommovimenti popolari avviatisi nel 2011. In estrema
sintesi, il modello dello Stato-nazionale, importato nel continente
negli anni della decolonizzazione, si sta contorcendo su di sé e quindi
disfacendo. Recitare una prece non è il caso. Piuttosto bisogna
prendere atto che le vecchie fedeltà di gruppo, ossia claniche,
precedenti alla riorganizzazione amministrativa e politica della
sovranità avvenuta dopo la fine della Seconda guerra mondiale, hanno a
tutt’oggi la meglio su qualsiasi altra proposta, a partire dall’idea
stessa di Stato laico, così come lo concepiamo nell’Europa occidentale,
ed in particolare in quelle che sono state le due grandi potenze
coloniali, la Gran Bretagna e la Francia. Un’idea, quest’ultima, che vi
era stata importata e che sta quindi consumandosi, dando campo libero
al movimentismo militante dei gruppi del radicalismo religioso che
producono quella “identità” collettiva che altrimenti mancherebbe. Si
tratta di un processo di lungo periodo, che ha tutta una serie di
ricadute e di addentellati ma che va tenuto in considerazione se si
vuole meglio capire il senso degli eventi che stiamo vivendo nelle
singole aree di crisi. Un fatto rilevante, in tutto ciò, è l’azione di
scardinamento che i percorsi della globalizzazione economica hanno
esercitato sui già precari, e quindi sempre mutevoli, equilibri
dell’area africana. Anche in questo caso ci troviamo a che fare con una
tendenza di lungo periodo, i cui effetti non sono prevedibili
aprioristicamente. L’unico dato certo è che i recenti fermenti popolari
si sono tradotti in un percorso a senso unico, ossia la
delegittimazione dei già pencolanti poteri costituiti. Il caso della
Libia è emblematico: la decomposizione e la disintegrazione
dell’alleanza pantribale di cui Gheddafi era il garante non ha portato
alla sostituzione del vecchio potere con uno nuovo, e men che meno ad
un ricambio di classe dirigente, bensì alla segmentazione in aree di
influenza disegnate su ciò che preesisteva alla fondazione, tra il 1969
e il 1977, della Jamāhīriyya (la cosiddetta «Repubblica delle masse»).
Non è il vecchio che ritorna ma è un nuovo che si ridisegna con i
colori e le fisionomie di ciò che fu. Un fatto, quest’ultimo, comunque
non definitivo, destinato probabilmente a conoscere ulteriori
evoluzioni. Anche i paesi che sono rimasti ai margini delle proteste
stanno ora misurandosi con gli effetti di amplificazione ritardata che
queste hanno generato, un po’ come nel caso dei cerchi concentrici
causati dai sassi gettati nello stagno o dello sciame sismico.
L’Algeria è al centro dei mutamenti, ovvero è una delle poste del
gioco. Da essa è nato il Gruppo salafita per la predicazione e il
combattimento, costituitosi negli anni Novanta, durante la sanguinosa
guerra civile, di fatto poi sostituitosi al Gia, il Gruppo islamico
armato, originariamente il maggiore protagonista delle violenze nei due
decenni trascorsi. I salafiti si sono quindi integrati, nel 2005, in
al-Qaeda, dando origine ad al-Qeada nel Maghreb islamico (AQIM), che
oggi opera non solo nella stessa Algeria ma in Mauritania, nel Mali, in
Niger, nel Ciad e nelle regioni settentrionali della Nigeria. Il
controllo della regione del Sahel è capitale per il destino del
continente, concentrando non poche risorse, essendo una ampia porzione
di territorio sul quale i cinesi vanno facendo grossi investimenti e
contando su comunità cristiane di grossa consistenza. Inutile
richiamare il fatto, già evocato alcune settimane fa sulle pagine di
questa newsletter, che ad est c’è ciò che resta della Somalia e, in
prospettiva, il ponte strategico con lo Yemen, base operativa degli
Shaabab. In competizione nell’intera area Memo ci sono tre “modelli”,
se così li si vuole considerare, di organizzazione politica: quello
autoritario dei Fratelli musulmani, che tuttavia fatica a trovare
conferme, malgrado l’eccellente ramificazione in Egitto; l’esperienza
turca, non facilmente proponibile tuttavia in Africa; infine, quello
movimentista della Salafiyya. Quest’ultimo è il meno strutturato ma è
anche quello che ha, sul breve periodo, più chance, potendo giocare
sulla massima mobilità e su una capacità di proselitismo e reclutamento
non indifferenti. Si tratta, comunque, di tre modi diversi di essere
dell’Islam politico oggi. Il fatto che vi sia una comune radice sunnita
non ci dice più di tanto (o non dice tutto), poiché nel mondo musulmano
odierno la spaccatura sempre più forte è tra istituzioni e movimenti,
fatto che è trasversale alle grandi famiglie identitarie e alle antiche
scuole di osservanza. Le istituzioni dei fragili Stati nazionali
raccolgono quel che resta dell’esperienza dello Stato laico, di
derivazione novecentesca. È il caso della Siria di Bashir al-Assad, per
fare un esempio, tale finché riuscirà a resistere alla pressione delle
opposizioni armate. I movimenti, invece, capitalizzano l’ansia di
trasformazione incanalandola verso nuove forme di partecipazione e
coinvolgimento. L’islamismo radicale gioca qui la sua partita più
fortunata. Su questi cambiamenti al momento vigilano, con occhio
attento, le petrolcrazie della penisola arabica, che da sempre si
impegnano nel medesimo tempo su piani diversi, aiutando gli uni e gli
altri, affinché ciò gli garantisca spazio di contrattazione e respiro
strategico. Allo stato attuale dei fatti dobbiamo riconoscere che è
tutta l’Africa compresa tra il Mediterraneo e la fascia
sahelo-sahariana ad essere interessata all’espansione del radicalismo.
È come se una parte del continente fosse stata assorbita dentro le
dinamiche del mondo arabo-islamico. Il tributo che le comunità
cristiane sono chiamate a pagare, con il ricorso contro di loro ad una
vera e propria politica del terrore, che ha ad obiettivo la distruzione
dei secolari insediamenti, è inscritta in questa dinamica. Si tratta
non solo di espellere scomodi antagonisti ma anche di “normalizzare” le
comunità musulmane nel nome della Sharia, intesa come strumento di
egemonia morale e culturale, sotto il cui ombrello si può poi
tranquillamente procedere ai peggiori commerci e a traffici
clandestini, come già è avvenuto in Afghanistan. Un pensiero
particolare va alla Nigeria, una federazione di trentasei Stati, con
158 milioni di abitanti, la cui popolazione, secondo le proiezioni
demografiche, potrebbe triplicare di qui alla fine del secolo. Le
violenze interetniche e la divisione tra un nord musulmano e un sud
cristiano è parte del quadro di cui si va dicendo. L’intervento
francese nel Mali, così come la disastrosa gestione dell’ultimo
rapimento di ostaggi ad Amenas in Algeria, stanno quindi in questa
configurazione del mutamento. Le milizie jihadiste di Aqim hanno i loro
santuari nella parte settentrionale del primo paese, che è divenuta in
questi mesi l’anello più debole di tutta la fascia sub sahariana. Le
possibilità di attraversare, con le carovane dei nomadi, i confini
desertici – laddove il Sahara non è un vuoto ma un pieno di rapporti e
transiti – e di praticare una prassi a doppia faccia, il contrabbando e
il proselitismo, è al momento una chiave vincente per i gruppi
radicali. È lì che Mokthar Belmoktar, il capo salafita emerso
recentemente agli onori della cronaca, trova il suo terreno naturale.
Il fatto stesso che sia nato quarant’anni fa nell’Algeria centrale e
che nel 1991 abbia abbracciato la causa del Jihad, andando a combattere
in Afghanistan, ne ha fatto un leader “naturale” della galassia di
gruppuscoli alla perenne ricerca di una causa sotto la quale motivare
la loro attività predatoria. Belmoktar si è infatti fatto le ossa
combattendo anche nel Sahara e rivestendo, dopo l’esperienza afghana,
un ruolo crescente nella guerriglia islamista del Gia contro l’esercito
algerino e la popolazione della Cabila. Da lì ha guidato la successiva
penetrazione nel Sahel, usando un mix di violenza sistematica e
alleanza politica con i gruppi separatisti della regione (nel nord del
Mali si è legato al movimento per la liberazione dell’Azawad, un’ampia
porzione di territorio di 850mila chilometri quadrati con 1.200mila
abitanti, popolata dai tuareg, che ha dichiarato unilateralmente la
propria indipendenza dal Mali il 6 aprile 2012, dopo violenti
combattimenti contro l’esercito maliano). Una delle fonti più
importanti di finanziamento sono i rapimenti, soprattutto di
occidentali, a scopo di estorsione. Attraverso i riscatti si pagano le
armi, si distribuisce denaro ai propri sodali e si reclutano nuove
combattenti, soprattutto tra i più giovani. Il rapporto con le comunità
tuareg è di reciproco interesse, essendo quest’ultime tra quanti meglio
conoscono il Sahara . Aqim fornisce loro il supporto operativo per le
scorribande che fanno tra le aree rurali e per il contrabbando. Dove in
queste pratiche finisca la criminalità politica e inizi quella comune è
pressoché impossibile dirlo, alimentandosi vicendevolmente l’una
dell’altra. Il terrorismo non avrebbe futuro, infatti, se non
costituisse anche una ricca impresa economica. Dopo il
ridimensionamento dello scenario afghano, che per al-Qaeda ha
comportato una perdita di ruolo, la scelta che il network terrorista ha
fatto è stata quella di creare nuove scenari di scontro dentro i quali
attirare gli occidentali. L’intervento francese in Mali fa quindi da
involontaria sponda per le attività di Belmokthar. Ma cerca anche di
porre un freno alla deriva libica. Dopo la caduta di Gheddafi gli
abbondanti arsenali sono stati saccheggiati e “privatizzati”, in una
sorta di mercato a cielo aperto. Si sono così costituite nuove rotte
del contrabbando tra le quali quella che da Bengasi arriva a Gaza,
direttamente nelle mani di Hamas. Quel che è certo è che i predoni
islamisti hanno ben poco a che fare con certe visioni romantiche dei
“guerriglieri del deserto”. Non solo predicano e praticano
l’intolleranza, usando la foglia di fico della versione più oltranzista
della religione per imporre un regime di ferro e di fuoco, ma lo fanno
ricorrendo alle strumentazioni più moderne. La mobilità è il loro punto
di forza, di contro ai tempi molto più lunghi ai quali sono abituati
gli eserciti tradizionali. Ancora una volta dovremo quindi misurarci
con un’ampia area di instabilità permanente, alla quale l’intervento di
Parigi, sostenuto per il momento obtorto collo dai paesi occidentali e
con il ricorso alle risoluzioni 2071 del 12 ottobre 2012 e 2085 del 20
dicembre 2012 delle Nazioni Unite, potrà dare solo risposte parziali.
Claudio
Vercelli
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Nugae - Litigare
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Visto
che le bambine scorbutiche di oggi sono le donne scorbutiche di domani,
dichiara solennemente Lucy dei Peanuts, e io non posso deludere una
delle mie più grandi maestre di vita (chissà se Schulz si sarebbe mai
immaginato che un giorno avrebbe avuto tanta influenza sugli animi
filosofeggianti delle ventenni degli anni duemila), non posso fingere
di ignorare la provocazione che la mia collega columnist Rachel Silvera
mi lanciava circa una settimana fa fra le righe di questo portale. Non
importa se in realtà lei non era seria, leggere il proprio nome nero su
bianco fa bene al proprio ego e fa emergere la bambina scorbutica che è
in ognuno. Perché inutile negarlo, litigare un pochino ogni tanto è
divertente. Avevo già schierato la mia squadra per la battaglia fra
antichi e moderni, che non so per quale ragione mi sono immaginata come
una rissa fra gang del Bronx, con il trio corpulento di Ovidio, Tibullo
e Properzio in prima linea e Omero come boss. Ma effettivamente questo
dibattito è davvero un po’ démodé, ormai. Peccato. E allora la pagina
bianca ha sfidato anche me con le sue infinite possibilità, che
contenuti dare alla nostra diatriba? Discutere di libri sarebbe stato
meraviglioso, la letteratura è l’argomento più affascinante che esista,
perché le parole scritte sono così solide e concrete, riproducibili
sempre uguali sulla carta e nella memoria, ma totalmente diverse quando
è qualcun altro a ripeterle. Così il nostro dibattito sarebbe diventato
infinito e infinitamente profondo, magari un’altra volta, quando saremo
due grandi erudite. Rimanevano i sentimenti, la solita ultima spiaggia
dalla sabbia zuccherina, ma probabilmente ci saremmo trasformate in
inquiline della casa del Grande fratello e avremmo finito con l’urlarci
contro quanto siamo false. Per carità, meglio non correre il rischio. E
dunque sono giunta alla conclusione che litigare sarà anche divertente,
ma farlo in modo costruttivo è davvero difficile. A questo punto meglio
andare d’accordo. E poi ecco l’illuminazione, la saggia Lucy è di nuovo
venuta in mio soccorso. “È davvero una bella cosa che la gente sia
diversa, non sarebbe terribile se tutti fossimo d’accordo su tutto?”,
le dice Charlie Brown. “Perché?”, risponde lei. “Se tutti fossero
d’accordo con me, andrebbe benissimo!”
Francesca
Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF
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notizieflash |
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rassegna
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Qui Roma - Testimoni della Memoria: dopo la Shoah il ritorno alla vita |
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Leggi la rassegna |
Giovedì
mattina la Comunità ebraica di Roma celebrerà il Giorno della Memoria
al Tempio Maggiore con la cerimonia dal titolo "I Testimoni della
Memoria: dopo la Shoah... il ritorno alla vita". Sarà presente il capo
rabbino di Tel Aviv e presidente dello Yad Vashem Council, Rav Ysrael
Meir Lau, sopravvissuto al campo di sterminio nazista di Buchenwald.
Rav Lau fu deportato con la sua famiglia quando aveva appena 6 anni,
tutta la sua famiglia è stata sterminata ad eccezione sua e di un suo
fratello, Naphtali Lau-Lavie. Nel 1945 partì per Israele dove iniziò i
suoi studi rabbinici.
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Nell'avvicinarsi
del Giorno della Memoria si moltiplicano sulla stampa italiana gli
articoli che riguardano la Shoah ed i vari eventi organizzati per
ricordare.
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
che fossero interessati a offrire un
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