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 30  gennaio 2013 - 19 Shevat 5773
l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
alef/tav
david sciunnach
David
Sciunnach,
rabbino 


“E senti Yitrò, sacerdote di Midian, suocero di Moshè …” (Shemòt 18, 1). Ha detto il grande Rebbè di Kotzk: “Yitrò sentì ciò che udirono anche moltissime altre persone, ma fu l’unico a giungere alle giuste conclusioni; alcuni sentirono, ma non ascoltarono, poiché ciò di cui vengono a conoscenza si ferma alle loro orecchie, senza raggiungere il cuore e l’anima.” Yitrò invece senti e comprese ciò che era stato detto.

 Davide 
Assael,
ricercatore



Davide Assael
Ho trovato molto bella l’intervista a Claudio Magris di Guido Vitale pubblicata sull’ultimo numero di Pagine Ebraiche. In particolare, mi è molto piaciuta la diagnosi, assai controcorrente, per cui la crisi europea dipenda dalla perdita di “un sano senso di ipocrisia”. Mi pare una brillante definizione del tentativo di civiltà europeo, che, aprendo ad un’ottica universalista, si incammina nel difficile tentativo di contenere pulsioni territoriali e identitarie legittimate, invece, in altri progetti sociali. È pur vero che, spesso, l’Europa si dimentica che l’origine di questo percorso è ebraica e che nessuno come l’ebraismo ha affrontato il tema della sublimazione delle pulsioni profonde dell’animo umano. Ed è anche vero che serve a poco “ricordare” se poi, in Paesi membri dell’Unione, si rimuove la matrice ebraica con progetti di legge per l’abolizione della kasherut o con sentenze giuridiche che paragonano la brìt milà a una mutilazione. Meglio restare sanamente “ipocriti”, facendo finta che alterità e differenze di ogni tipo non diano fastidio. Abbiamo tutti provato, in questi giorni, quale brutta sensazione provochi la perdita di ipocrisia nelle classi politiche.

davar
Il genocidio, le responsabilità
27 gennaio, Giorno della memoria: gli italiani comuni e il genocidio 1943-45 Che cos’è e come si produce un genocidio? Possiamo e forse dobbiamo chiedercelo domandandoci anche se è sufficiente quello che ricordiamo e come lo ricordiamo e anche che cosa sia questo senso di saturazione che la ricorrenza istituzionale talora già provoca. Proviamo allora ad introdurre qualche interrogativo nuovo sul piano storico. Può essere utile la categoria di genocidio per interpretare la Shoah in Italia, la partecipazione italiana alla deportazione e allo sterminio degli ebrei nel 1943-45, settant’anni dopo l’avvio delle deportazioni? Da alcuni anni la migliore storiografia sull’Olocausto è in crescente rapporto con quella sui genocidi (dagli Armeni alla Cambogia; dal Ruanda alla ex Jugoslavia): ciò ha consentito di comparare e allo stesso tempo di meglio contestualizzare e definire più precisamente la "singolarità storica di Auschwitz". E anche di gettare nuova luce sui diversi contesti e le particolari dinamiche nazionali in cui la “Soluzione finale” si consumò: comparare significa non assimilare ma mettere in luce le specificità. Circa venticinque anni fa, sulle pagine del Corriere della Sera, lo storico del fascismo Renzo De Felice dichiarava l’Italia, con formula divenuta notoria, al fuori del "cono d’ombra dell’Olocausto". Questa posizione, pure ancora largamente accreditata anche presso gli storici e certamente nel senso comune, è difficilmente sostenibile oggi, nel discorso storico e persino in quello pubblico --- se il Giorno della memoria, istituito con legge dello Stato italiano nell’anno 2000, ha un senso. La prima e più pesante smentita di quella frase di De Felice – che per la precisione escludeva responsabilità non solo italiane, ma persino dello stesso fascismo in quegli eventi (“Il fascismo italiano è al riparo dall’accusa di genocidio”, diceva) – venne già pochi anni con la pubblicazione, nel 1991, del monumentale Libro della Memoria, curato da Liliana Picciotto per la Fondazione CDEC, cioè l’elenco e le notizie sulla sorte individuale dei quasi 8 mila ebrei vittime italiane della Shoah. Quel libro conteneva, inoltre, il computo preciso degli arresti di ebrei compiuti da italiani nel 1943-45. Gli stessi dati furono valorizzati, nel 1995, dal piccolo e influente libro di David Bidussa, dedicato precisamente a decostruire sul piano storico il mito del bravo italiano, anche a partire dalla mera contabilità numerica (ma è più difficile mettere in discussione i numeri) di una storia italiana che aveva prodotto, nella sua fase più cupa - quella del fascismo estremo e del collaborazionismo di Salò -, non solo persecuzione dei diritti, ma diretta partecipazione italiana allo sterminio. Fin dal 1988, le ricerche di Michele Sarfatti sul razzismo mussoliniano e poi quelle su fascismo ed ebrei fino alla Shoah, assieme a tutta la stagione di studi avviata allora (e che ancora prosegue) sulla via italiana all’antisemitismo, si erano nel frattempo incaricati di riscrivere una vicenda che certamente non nacque in Italia solo nel 1938, su istigazione tedesca, come qualcuno ancora sostiene, né può essere ridotta a quella che anche di recente è stata chiamata (in modo riduttivo) "nazificazione" del fascismo italiano. E basterebbe in proposito rivolgere la propria attenzione, come da tempo gli storici vanno facendo, alla storia del colonialismo italiano – anche prima del fascismo - per capire subito che noi italiani non abbiamo alcun bisogno di maestri o modelli quando vogliamo usare la violenza. Che cosa aggiunge, tuttavia, contestualizzare oggi le deportazioni degli ebrei italiani nel 1943-45, l’arresto e l’imprigionamento di migliaia di giovani, donne, vecchi, bambini, nella storiografia internazionale sui genocidi? Innanzitutto gli storici concordano oggi che i genocidi non avvengono esclusivamente in contesti coloniali o ex - coloniali, o comunque in territori di conquista; né possiamo immaginarli solo in luoghi lontani, per diversi motivi, da quelli a noi più familiari (Cambogia o Ruanda; o anche il confine armeno-turco o il regime titino in disfacimento e il nascente conflitto inter-etnico della Jugoslavia nel post-89). Esiste infatti un rapporto intrinseco tra intimità e genocidio: il genocidio colpisce, infatti, i vicini della porta accanto - quindi può riguardare, riguarda tutti noi - come ha mostrato tra gli altri Jan T. Gross, nel suo libro I carnefici della porta accanto (2001), dedicato al massacro degli ebrei di Jedwabne da parte dei propri concittadini polacchi nel 1941, prima dell’arrivo dell’occupante nazista (ancora più icastico il titolo originale: Neighbours, vicini). Ma in Italia, si dirà, non è avvenuto nessun massacro, almeno per mano italiana. È generalmente vero per quanto riguarda l’eliminazione fisica di massa per fucilazione – come nella prima fase della Shoah in Europa Orientale (raccontata ad esempio da Christopher Browning in Uomini comuni, 1996) – o per lo sterminio industriale nelle camere a gas, nel cuore e comunque per mano della civilissima Europa (giudaico)-cristiana. Tuttavia gli storici dei genocidi – ad esempio, tra gli altri, Donald Bloxham, oppure Jacques Semelin - ci hanno anche spiegato che, specie in un contesto bellico, già l’identificazione, l’arresto, la separazione di un gruppo su base etnica, religiosa, sociale o di qualsiasi altro criterio (non trascuriamo le condizioni fisiche e mentali, uno dei primi criteri della politica eliminazionista che diede avvio alla Shoah in Europa), per non parlare della loro detenzione in campi di prigionia e la consegna nelle mani di “volenterosi carnefici” o anche di “boia da scrivania” (stile Eichmann), costituiscono di per sé atti genocidari. Questi atti riguardarono chiaramente decine, centinaia, forse migliaia di italiani, che parteciparono all’ideazione, all’organizzazione e alla realizzazione, su base politica, burocratica o di polizia, della “Soluzione finale del problema ebraico” in Italia nel 1943-45, dopo che la RSI aveva dichiarati gli italiani ebrei “stranieri” e “nemici”. A decine, gli italiani comuni, nella polizia, nelle forze armate, tra i volontari del rinato partito fascista e anche tra cittadini comuni, semplici collaborazionisti e delatori (come ha raccontato Mimmo Franzinelli nell’opera di più autori, La Shoah in Italia, 2011), si alzarono una mattina qualsiasi dell’autunno 1943, o dell’inverno, o dell’estate 1944, si fecero la barba, o si rifecero il trucco (non mancarono le donne carnefici direttamente coinvolte), bevvero il proprio caffè, salutarono la famiglia, e uscirono a dare la caccia agli ebrei – cioè i proprio vicini “della porta accanto”, i propri compagni di banco, i propri colleghi (i propri amici?) – a sequestrarne le proprietà, ad incarcerarli, a trasferirli in un campo di transito, a consegnarli, infine, in mano tedesca. Avviandoli così non verso “ignota destinazione” ma, consapevolmente, a morte certa (cioè che ha iniziato a mostrare, di nuovo, Liliana Picciotto nel suo L’alba ci colse come un tradimento, 2011). Sebbene sia doveroso ricordare le migliaia di italiani che salvarono i propri concittadini ebrei, le storie individuali degli italiani comuni che parteciparono al genocidio – un processo che per molti versi prese avvio almeno dall’autunno 1938, sebbene i suoi sviluppi non fossero già inscritti nelle “leggi razziali”, e quindi riguardò migliaia di “carnefici” italiani – la storia dell’Italia dentro il cono d’ombra dell’Olocausto deve ancora essere scritta. Per questo ricordiamo il Giorno della Memoria e – lo scrivo da storico innanzitutto ai miei colleghi storici – non è stato ancora sufficiente, settant’anni dopo quegli eventi, o anche solo dodici anni dopo quella legge di memoria, per mostrarci l’urgenza e la necessità di scrivere quella storia. La storia degli italiani “comuni” e il genocidio: la nostra storia.  

Simon Levis Sullam, storico  

Simon Levis Sullam insegna Storia contemporanea all’Università Ca’ Foscari, Venezia. E’ autore, tra l’altro, de L’archivio antiebraico (Laterza 2009) e tra i curatori della Storia della Shoah (UTET 2006-2010).

Israele - Il governatore della Banca d'Israele lascia l'incarico
Il Governatore della Banca centrale, la Bank of Israel, Stanley Fisher si è dimesso improvvisamente martedì sera senza spiegare al pubblico i motivi che lo hanno spinto alle dimissioni. Egli rimarrà al suo posto fino al prossimo mese di giugno. Il momento da lui scelto, non poteva essere peggiore. Il governo ha scoperto qualche settimana fa di avere un deficit di bilancio importante, circa 40 miliardi di shekel. Proprio adesso Israele aveva bisogno di una persona onesta e competente che gode della fiducia di tutti i tecnici della finanza pubblica, alla guida della Banca centrale. Qualcuno sussurra che il momento scelto alla vigilia della formazione del nuovo governo indica che Fisher potrebbe aspirare a diverntare il ministro degli Esteri di Israele, ma l`interessato non ha confermasto questa supposizione. Nell`incertezza causata dalle recenti elezioni legislative, Fisher era un`isola di sobria stabilità, logica, giudizio equilibrato e rinomanza internazionale, scrive il quotidiano “The Marker” stamane. Fisher gode della stima dei professionista della finanza e del pubblico ed è un personaggio raro nella politica israeliana. Permane un grande punto interrogativo sulle ragioni che lo hanno spinto a questo passo. È certo che tali ragioni non sono un complimento per la classe dirigente israeliana ma piuttosto un ammonimento e un invito alla serietà.

Sergio Minerbi

Milano - Poca partecipazione e vivace dibattito in assemblea
L’assemblea della Comunità ebraica di Milano ha approvato il bilancio preventivo 2013, ma un dato emerge chiaramente dalla riunione appositamente convocata dal presidente Walker Meghnagi: sono stati pochissimi gli iscritti a partecipare (in sala circa la metà dei presenti era costituita dai consiglieri comunitari, cui si sono aggiunti la maggior parte dei consiglieri milanesi dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: il vicepresidente Roberto Jarach, l’assessore alle scuole Raffaele Turiel, Milo Hasbani, Sara Modena, Giorgio Mortara, Guido Osimo, Giorgio Sacerdoti). Raffaele Besso, assessore al Bilancio, ha aperto il confronto con la sua relazione. I numeri presentati fotografano una situazione economica difficile per la Comunità del capoluogo lombardo, che già da anni si trova in uno stato di grave deficit strutturale, cui si aggiunge un disavanzo da gestione ordinaria previsto in oltre due milioni e 150 mila euro, parzialmente compensato dal risultato pronosticato per la gestione straordinaria, che riduce il passivo del risultato d’esercizio a poco meno di un milione di euro. Besso ha offerto una panoramica complessiva delle cifre dietro alla vita comunitaria, dai servizi religiosi alla protezione civile, dalla scuola, alla comunicazione e ai servizi sociali. In generale ha sottolineato come il bilancio preventivo 2013 sia stato redatto rigorosamente partendo da quello consuntivo 2012 (che verrà presentato nelle prossime settimane) in cui sono stati registrati alcuni aumenti inattesi dei costi. Di qui l’impegno, nei prossimi mesi, a portare avanti azioni trasversali finalizzate all’ottimizzazione della struttura organizzativa, con la creazione di un impianto per il controllo della gestione e di una centrale di acquisto. Tra i vari interventi dei consiglieri, l’assessore alla Casa di Riposo Claudio Gabbai ha fatto notare come non a caso quello di cui si occupa è l’unico settore in cui opera la Comunità davvero in attivo, in quanto istituzione che rappresenta un punto di riferimento davvero per tutti, al di là delle differenti appartenenze geografiche o ideologiche, e ha suggerito che sia questa la direzione da percorrere per risolvere i problemi, economici e non solo, che si trova ad affrontare l’ebraismo milanese. Grande attenzione da parte dei presenti, che hanno avanzato varie richieste di chiarimenti. Tra le altre cose è stato spiegato come l’aumento complessivo dei costi del personale rispetto all’anno 2011 sia dovuto all’entrata a regime di cinque risorse inserite in organico negli anni passati, puntualizzato che la Comunità di Milano è in contatto costante con l’UCEI e con il ministero per capire come gli immobili della Comunità, e in particolare scuola e Casa di riposo, si pongono rispetto alla questione Imu, e messo inevidenza l’impegno per migliorare la qualità di insegnamento della scuola attraverso un progetto per valutare gli insegnanti che è allo studio in collaborazione con l’Università di Milano Bicocca. A prendere la parola è stato anche il vicepresidente UCEI Jarach. In un intervento piuttosto duro, ha fatto notare che, poiché il bilancio presentato prevede che parte significativa delle entrate sia reperita attraverso bandi e progetti di fund raising, esso appare non rispettare nella sostanza il criterio di pareggio necessario per l’approvazione da parte dell’UCEI (in mancanza di elementi concreti che supportino la possibilità di raggiungere effettivamente quelle somme). Ha inoltre sottolineato come il disavanzo sia aumentato moltissimo rispetto a quelle che erano state le sue previsioni da presidente della Comunità (incarico che haricoperto fino a giugno) e che la scarsa partecipazione abbia reso poco significativa l’approvazione del bilancio da parte dell’assemblea (che è avvenuta con il suo voto contrario e l’astensione di circa un quarto dei presenti). Rassicurazioni sono arrivate da Besso, che ha spiegato di essere in contatto costante con l’assessore UCEI al Bilancio Noemi Di Segni, e dal presidente della Comunità Meghnagi che ha garantito “Questo Consiglio sta lavorando con grandissimo impegno per risolvere tutti i problemi, compresi quelli legati al bilancio. Ci troviamo nel mezzo di una difficile trattativa con gli uffici fiscali per cifre ben superiori a quelle di cui stiamo parlando oggi. Abbiamo fiducia che tutto andrà per il meglio”. Su un punto si sono trovati tutti d’accordo: al di là delle cifre, sarà necessario un grande impegno volto ad aumentare la coesione e la partecipazione alla vita comunitaria, perché da lì passa il futuro della kehillah milanese.

Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked


Melamed - #questannoalMIUR
Non si lascia sviare Marco Rossi-Doria, sottosegretario all’Istruzione ed ex maestro elementare, che aveva recentemente denunciato – con un intervento pubblicato sulle pagine de La Stampa – come la politica sembri aver abbandonato la scuola. A pochi giorni di distanza ecco che la sua segreteria inizia un capillare lavoro di diffusione tramite web e social network di un bilancio di mandato intitolato Quest’anno al MIUR, che diventa immediatamente anche un hashtag su twitter. Si tratta di una sorta di riassunto delle attività istituzionali realizzate dal novembre 2011 ad oggi, e nell’introduzione il sottosegretario ribadisce quali sono stati i principi che hanno guidato il suo lavoro: “Per quanto riguarda il lavoro che ho più seguito direttamente - in base alle deleghe affidatemi dal Ministro Profumo - ho cercato di sviluppare un’idea di scuola frutto di tutti questi anni di esperienza e confronto con le migliori pratiche. La scuola deve cambiare, lo ripetiamo da tempo. Deve saper essere contemporanea, innovarsi in base ai cambiamenti della società. Deve essere personalizzata, per rispondere ai bisogni educativi di ciascuno. Deve essere inclusiva e non perdere nessuno per strada. E infine deve essere una vera e propria comunità educante, in grado di trasmettere principi e valori fondanti della società democratica e di sviluppare pienamente la persona in crescita. È su questa idea di fondo che ho lavorato, dalle indicazioni nazionali all’integrazione, dal contrasto alla dispersione scolastica allo sviluppo dell’autonomia.” Per ognuna delle parole chiave scelte per sintetizzare i suoi obiettivi, ossia puntare a una scuola che sia “contemporanea”, “personalizzata”, “inclusiva” ed “educante” viene fatto, nel corso dello slide show, un resoconto dei risultati ottenuti e vengono forniti dati concreti ed elementi di approfondimento.
Nell’introduzione Marco Rossi-Doria ammette che il bilancio ovviamente non può essere soltanto positivo: “il tempo è stato tiranno, pochi mesi di gestione del sistema più complesso e articolato del Paese bastano soltanto per poche e selezionate scelte. La durissima condizione dei conti pubblici ha inoltre frenato molto la capacità di azione, costringendoci a guardare soprattutto alle emergenze e ad astenerci da quelle riforme in profondità di cui la scuola ha davvero bisogno.” Ma, prosegue poco oltre, “Nella scuola italiana c’è professionalità, impegno, innovazione. È su queste forze che si potrà contare, e sono queste forze che andranno finalmente valorizzate, mano a mano che l’Italia uscirà dalle difficoltà. Teniamolo presente. E non smettiamo mai di discutere e confrontarci su come costruire una nuova stagione per la scuola italiana.”
E le parole “Non c’è futuro senza scuola”, pronunciate praticamente tutte le volte che nelle comunità ebraiche italiane si affronta l’argomento istituzioni scolastiche, non devono diventare solo uno slogan ripetuto molte e molte volte. Non guasta ricordarlo in questo periodo di campagna elettorale, perché non sia solo il sottosegretario uscente all’Istruzione Marco Rossi-Doria a cercare di tenere viva l’attenzione su un dibattito che deve restare centrale nei programmi di chiunque voglia guidare una Comunità ebraica o, non dimentichiamolo, un Paese.

Ada Treves twitter@atrevesmoked

“Educazione migliore risposta all'odio”
È arrivato ieri a Birkenau il Treno della Memoria organizzato dalla Regione Toscana su impulso di Ugo Caffaz e con l'appoggio delle principali realtà istituzionali e associative locali. Davanti al monumento internazionale del campo di sterminio, assieme ai Testimoni Andra e Tatiana Bucci e a Marcello Martini, giovane staffetta partigiana che sopravvisse a Mauthausen, sono state recitate alcune preghiere per onorare la memoria di tutte le vittime della Shoah. Prima del momento di raccoglimento un corteo aperto dagli striscioni contro l'odio e contro il negazionismo portati dai ragazzi delle scuole toscane, con le chiarine di Firenze e i gonfaloni della Regione, dell’Associazione deportati e di alcuni Comuni e Province. “È stata una cerimonia davvero emozionante – afferma Sara Cividalli, presidente della Comunità ebraica di Firenze – e mi fa molto piacere che tanti ragazzi abbiano provato un’esperienza così significativa e toccante sulla loro pelle. Educare le nuove generazioni al ricordo ci aiuterà a contrastare il razzismo e le discriminazioni”.
In tutta Toscana proseguono intanto le attività per la Memoria. A Livorno riunione solenne del Consiglio regionale con omaggio a Isacco Bayona, ultimo Testimone livornese da poco scomparso. La Comunità ebraica, tra le varie iniziative, ha voluto poi sottolineare il coraggio dei Giusti tra le nazioni piantando, in onore degli ultimi riconosciuti tali in città (Mario Canessa, i coniugi Lidia e Giovanni Gelati), tre ulivi davanti al Tempio di piazza Benamozegh. E contro il revisionismo storico degli ultimi giorni hanno ottenuto riscontro sulla principale testata giornalistica locale, Il Tirreno, alcuni documenti inediti sulla macchina persecutoria del fascismo portati alla luce da Comunitando, blog di “cose ebraiche” curato dall'ex consigliere UCEI Gadi Polacco. A Grosseto inaugurata nel fine settimana una mostra dedicata alla figura di Anna Frank tra fotografie, immagini, citazioni e riproduzioni documentarie.


Qui Roma - La casa di tutti gli ebrei italiani
“Dobbiamo lavorare per essere sempre più un'unica famiglia che lavora per il bene dell'ebraismo italiano e di tutte le Comunità”. Questo, nelle parole del vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Giulio Disegni, assessore con delega al personale, lo spirito che ha animato la riunione dei dipendenti UCEI svoltasi ieri pomeriggio nella sede di Lungotevere Sanzio. Presenti all'incontro, volto ad approfondire l'impegno, le sfide, le specifiche aspettative dei direttori di dipartimento e del personale, anche il presidente dell'Unione Renzo Gattegna e l'assessore al bilancio Noemi Di Segni. 

pilpul
Ticketless - Il cono d’ombra
Calato il sipario sul 27 gennaio, ogni anno sono inseguito da un incubo. Mi sveglio d’improvviso, gli occhi sbarrati. Sogno di essere prigioniero dentro un cono. L’ombra del professor De Felice mi rincorre urlando: “Fuori, e vedi di sparire anche dalla mia ombra”. I luoghi comuni storiografici turbano i miei sonni, perché in Italia tendono a ripetersi come un disco rotto: fra l’altro ho un ricordo molto gradevole di un pranzo a Roma con il Professore, che non aveva il fascino di un attore di Cinecittà, ma non era Dracula. Il suo libro mi capita di riaprirlo spesso, vi imparo sempre qualcosa, anche se nel frattempo la ricerca è andata avanti. Questo ritornello del cono proprio non mi persuade. Le cifre parlano chiaro: di tutti i paesi che hanno subito l’occupazione tedesca, l’Italia si situa dopo la Danimarca e la Finlandia. È il terzo paese con la più bassa percentuale di vittime dello sterminio. Se si considera che la maggior parte degli ebrei erano residenti nella parte della penisola dove più a lungo durò l’occupazione nazista, su quel 17.3 % bisognerebbe ragionare con più serenità, lasciando da parte gli accanimenti postumi contro il Professore. La percentuale è comunque spaventosa, ma come insegna Mario Pirani nella sua autobiografia, lecito dire che, forse, poteva andare anche peggio. Fuori del cono d’ombra del nazismo s’è visto di tutto, un arcobaleno di atteggiamenti, dal nero delle delazioni, alla pietas di un fascista di Salò. Fuori del cono d’ombra s’è visto innanzitutto un viluppo di odio e di amore. Giacomo Debenedetti, come  gli odierni detrattori del Professore, non vedeva altro che lacrime e sangue. Faticava a spiegargli che cosa fosse quel viluppo di odio e di amore il dolcissimo Umberto Saba delle Scorciatoie, che vado subito a rileggermi appena mi riprendo dall’incubo annuale di fine gennaio.

Alberto Cavaglion

La Memoria e i rapporti con la Chiesa
Francesco LucreziAnche quest’anno, come sempre negli ultimi tempi, sono stato invitato a partecipare a un paio di incontri commemorativi in occasione del Giorno della Memoria. A entrambe le manifestazioni, tra i vari relatori, è stato invitato anche un ecclesiastico. Due persone serie e preparate, che hanno espresso parole di sincera esecrazione per quanto accaduto e di sentita vicinanza al popolo ebraico. In entrambe le occasioni, però, il dibattito si è inceppato quando è stata sfiorata la questione del ruolo svolto dal Vaticano durante quegli anni, perché i due ecclesiastici, a differenza di alcuni degli altri presenti, non solo rifiutavano di riconoscere la benché minima ombra nell’operato di Pio XII, ma ne rappresentavano l’azione in termini di totale eroismo e abnegazione, mostrandosi decisamente offesi che qualcuno, per puro pregiudizio e malevolenza, osasse mettere in discussione un dato di fatto tanto evidente e incontestabile.
Tale situazione su ripete immancabilmente, come un copione fisso, e mette decisamente a disagio. Altre volte, ci si trova a litigare tra relatori che hanno idee diverse – a volte anche radicalmente contrapposte – sull’oggetto della discussione (per esempio, sulla questione mediorientale). Il dibattito può svolgersi civilmente o può anche degenerare, ma ognuno si sente libero, in genere, di dire la propria. In queste situazioni, invece, è diverso, giacché tutti i relatori, per lo più, vorrebbero esprimere una comunanza di intenti, un sentimento di unità e di comune impegno civile. Se il dibattito non tocca un determinato argomento, questo sentimento appare integro, e si ha l’idea che gli uomini di oggi siano davvero schierati, in modo unitario, a difesa dei valori di umanità e tolleranza. Se, invece, l’argomento tabù viene toccato, sia pure in modo marginale, l’incantesimo si spezza.
Che fare, quindi? Parlarne o non parlarne? Meglio forse non toccare il punto spinoso, per cementare questa unità di intenti, per sentirsi, o apparire, uniti? O piuttosto affrontarlo in modo aperto, per cercare di fugare ombre, equivoci, retropensieri? Nel primo caso, ci si sente ipocriti, pavidi, falsi. Facciamo finta di andare d’accordo, ma sappiamo che non è davvero così. Nel secondo, si appare indelicati, divisivi, dal momento che si urta la sensibilità di persone che vorrebbero esserti amiche, e che tu sembri invece volere respingere, o mettere in difficoltà (oltre tutto, in modo gratuito e inutile, poiché c’è l’assoluta certezza che, da quella parte, non verrà mai la benché minima correzione di giudizio).
Che fare? Non so rispondere. So solo porgere un’altra domanda: la Chiesa è un’istituzione umana (sia pure, per chi ci crede, ispirata da Dio), fatta da uomini, calata nella storia? E quindi soggetta anch’essa, come tutto ciò che è umano e storico, a errore, debolezza, contraddizione? O è sempre, in ogni suo atto, a qualsiasi livello, divina, perfetta, infallibile? E’ nel tempo, o fuori dal tempo? Se è fuori dal tempo, fuori dalla storia, allora analizzarne i comportamenti storici in un pubblico dibattito è del tutto fuorviante e inopportuno, come lo sarebbe dibattere su una verità di fede, con un credente che la difende e un non credente che cerchi di smascherarne la falsità: sgradevole, intollerante, offensivo. Se è nel tempo, nella storia, perché dovrebbe essere al di sopra di qualsiasi umano giudizio? Può esistere, nella storia, qualcosa di perfetto, assoluto, sovrumano, metastorico?

Francesco Lucrezi, storico

Storie - Salvare dal macero “Il nazismo e i lager” 
Salvare dal macero un libro può essere un'operazione intelligente di Memoria. Tanto più se quel volume è "Il nazismo e i Lager" di Vittorio Emanuele Giuntella, l'opera di un grande storico che conobbe l’esperienza concentrazionaria come internato militare (la legge istitutiva del Giorno della Memoria, com’è noto, riguarda non solo la Shoah, ma anche i deportati politici e gli internati militari). Tra le tante iniziative del Giorno della Memoria in tutta Italia, voglio quindi segnalare per la sua originalità quella promossa dal Museo Storico della Liberazione di via Tasso e dal suo battagliero presidente Antonio Parisella. Quello stesso Museo sulle cui mura, il 27 gennaio scorso, alcuni neofascisti hanno scritto ignobili frasi negazioniste, del tipo “Shoah, solo falsità e menzogne” e “Israele boia” (detto per inciso, al solito, nessuna traccia è stata finora trovata dei responsabili). L’obiettivo è quello di salvare le ultime 1000 copie del libro di Giuntella, "condannate" alla distruzione dal distributore. Un saggio che, secondo Parisella, “costituisce uno dei classici della letteratura concentrazionaria, come ‘I sommersi e i salvati’ di Primo Levi. La prima e fondamentale messa a fuoco di tutte le implicazioni politiche e sociali - dentro e fuori i Lager - dell'organizzazione della persecuzione e dello sterminio. Come per Primo Levi, il Lager emerge pienamente come il luogo dove - con maggiore efferatezza e concentrazione di violenza - il nazismo realizzava il suo modello di organizzazione sociale che intendeva costruire fuori dei Lager ovunque in Europa”.
Quest'anno ricorre il centenario della nascita di Vittorio Emanuele Giuntella e il Museo, non essendo abilitato ad operazioni commerciali, grazie al contributo di alcuni amici ha deciso di fare omaggio di copie del volume a coloro che faranno - nella sede di via Tasso - una sottoscrizione minima di 15 € (prezzo di copertina 24 €).
L’iniziativa ha avuto un grande successo e il 26 e il 27 gennaio le copie a disposizione del Museo sono andate esaurite. Presto ne arriveranno altre. Intanto Parisella rivolge “un appello a biblioteche, istituti, musei, scuole, associazioni perché - nei prossimi mesi - promuovano analoghe iniziative per far conoscere il libro e diffonderlo”.
 
Mario Avagliano
twitter @Marioavagliano

notizie flash   rassegna stampa
Un minuto di silenzio
per non dimenticare
  Leggi la rassegna

Un minuto di silenzio su tutti i campi del torneo Csi in cui militano formazioni del Maccabi. È accaduto domenica scorsa, Giorno della Memoria, su impulso del presidente del Maccabi Italia e consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Vittorio Pavoncello.
 

L’emozione del presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna nella cerimonia di celebrazione del Giorno della Memoria al Quirinale insieme a Giorgio Napolitano per l’ultima volta è raccontata dal Corriere della Sera, che riporta anche il retroscena della reazione del Colle alle parole di Berlusconi su Mussolini, a firma di Marzio Breda.




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