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  3 febbraio 2013 - 23 Shevat 5773
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moked è il portale dell'ebraismo italiano
alef/tav

Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino


Che la vocazione alla dissonanza, alla differenza ed alla dissidenza debba essere segno di estremismo ebraico, come suggeriscono il titolo e l'occhiello dell'elzeviro di oggi di Sergio Luzzatto su Il Sole 24 ore, è tutto da dimostrare. Così come la successiva svolta dogmatica e conservatrice dell'ebraismo, che avrebbe a che fare - secondo Luzzatto che si riferisce ad un libro di Enzo Traverso - con la fondazione dello stato di Israele. L'ebraismo moderno, tanto in prospettiva sincronica che diacronica, mi sembra un fenomeno assai più articolato di quanto non appaia dall'articolo. Le semplificazioni, anche quando pretendono di rispondere ad altre semplificazioni, non servono mai; men che meno in tempi complessi come quelli che stiamo vivendo.

David Bidussa, storico sociale
delle idee
   

Ha ragione Gadi Luzzatto Voghera a sottolineare che forse gli studenti, o almeno una parte del mondo della scuola, ha più curiosità e meno retorica intorno alla storia e alla riflessione sulla questione della memoria. Il “giorno della memoria” ha una chance di vita solo se quella fascia di nati negli anni ’80 avrà uno spazio suo. Sono giovani che si sentono investiti di una funzione civile, che avvertono la crisi del patto costituente e che si misurano con il problema di contribuire a costruire, oltreché se stessi, anche una generazione che abbia il senso del passato. E’ una generazione che da noi, intendo da quelli della mia generazione, ha avuto in abbondanza la precarietà.
Il “giorno della memoria” avrà ancora un domani, qualunque fisionomia assumerà domani, se questa fascia di minoranza avrà spazi culturali, operativi, anche dando gambe alla propria sensibilità. Ovvero se riuscirà a farsi largo tra una fila sempre più esigua di sopravvissuti, una generazione di miei coetanei che pensano di essere gli eredi di quella storia e che spesso rivendicano un ruolo di protagonisti o di voci testimoniali per conto terzi e una massa di “spettatori tiepidi” pronta a dire “mai più” per abitudine. Di fronte c’è una massa di adolescenti, spesso i figli della mia generazione, a cui noi non sappiamo parlare, e a cui non siamo in grado di raccontare. Da cui ci separa un gap tecnologico, e di cui spesso ignoriamo i codici di sensibilità, di linguaggio, di emozione.

davar
Ed Koch (1924-2013)
Grande protagonista di tanti eventi cruciali dell’ultimo secolo, a cominciare dalla lotta al Nazismo, Ed Koch, leggendario sindaco di New York tra il 1978 e il 1989, è scomparso all’età di 88 anni. A raccontare la sua personalità meglio di ogni altro scritto è l’epitaffio che lui stesso compose dopo aver superato un infarto nel 1987: “Fu fieramente orgoglioso della sua fede ebraica. Fieramente difese la città di New York e amò i suoi cittadini. Più di ogni altra cosa, amò il suo paese, gli Stati Uniti d’America, nel cui esercito servì durante la seconda guerra mondiale”. 
Edward Irving Koch era nato nel 1924 nel Bronx da genitori ebrei immigrati negli USA dalla Galizia. Nel 1943, ansioso di andare in Europa a combattere Hitler, nascose una grave ferita alla mano pur di essere arruolato. Nell’esercito era pronto a fare a pugni con chiunque indirizzasse commenti antisemiti a lui o ai suoi commilitoni ebrei (cosa che accadeva piuttosto di frequente). Ferito durante i combattimenti in Germania, fu rimandato negli Stati Uniti per tornare in Europa al termine della guerra chiamato a portare avanti un’opera di denazificazione di una cittadina bavarese: fu la sua prima esperienza da amministratore.
Nel 1946, pur non avendo terminato la laurea di primo livello, convinse la prestigiosa New York University ad accettarlo alla facoltà di legge, mantenendosi nel frattempo attivo in campo ebraico (frequentava la sinagoga conservative Flatbush Jewish Center e l’organizzazione giovanile Young’s People’s League).
Cominciò a occuparsi attivamente di politica all’inizio degli anni Cinquanta, e nel 1969 fu eletto al Congresso nelle file del Partito democratico. I suoi otto anni da deputato furono caratterizzati da votazioni di stampo progressista, ma con uno stile volto alla mediazione, nonché da una forte passione per i temi legati allo Stato d’Israele, che visitò più volte incontrando i principali esponenti del mondo politico.
Nel frattempo la città di New York viveva uno dei suoi periodi più bui, tormentata dallo spettro dell’altissimo tasso di criminalità e da quello della bancarotta. Koch si candidò a sindaco e fu protagonista di una campagna elettorale all’attacco, mettendo in luce le sue competenze, auto-definendosi “un liberal dotato di sanità mentale”, enfatizzando il suo supporto alla pena di morte, salendo alla ribalta nazionale per le sue critiche alla politica mediorientale del presidente democratico Jimmy Carter. Eletto, fu capace di ottenere successi fulminanti. Nel suo primo giorno bandì le discriminazioni implementate dalla città in base all’orientamento sessuale (un tema che gli rimase sempre particolarmente a cuore: pur rifiutando di discutere la propria sessualità in pubblico, Koch fu spesso attaccato in questo versante, come avvenne nel 1977 quando manifesti elettorali apparvero con la scritta “Vote for Cuomo, Not the Homo” in sostegno del suo avversario, e futuro governatore dello Stato di New York, Mario Cuomo). Koch Migliorò la gestione, abolì la politicizzazione delle nomine dei dirigenti, istituendo una commissione di esperti indipendenti per il vaglio dei candidati. Persuase il Congresso a mettere in atto un’operazione di salvataggio finanziario per New York, e riuscì ad arrivare al pareggio di bilancio in un tempo minore di quello previsto. Nel 1981 fu trionfalmente rieletto con sostegno bipartisan. Solo i suoi rapporti con le comunità povere afro-americane si mantennero difficili, in particolare dopo la sua decisione, nel 1980, di chiudere l’ospedale Sydenham, che ne costituiva un punto di riferimento.
Fu Koch a varare un piano di riqualificazione edilizia che nei decenni successivi ha portato a ridisegnare il volto di New York (nel 2001 la maggior parte delle aree degradate della città erano state ristrutturate).
Ma nonostante gli innegabili successi, il suo terzo mandato da sindaco fu caratterizzato dall’emergere di episodi di corruzione nel suo entourage (nonostante la personale integrità del sindaco non fu mai messa in discussione), da un aumento vertiginoso dei decessi per Aids e del numero dei senzatetto. Dopo una campagna elettorale burrascosa, fu sconfitto alle primarie democratiche da David Dinkins (il primo e finora unico afro-americano a ricoprire la carica di sindaco di New York).
In un’intervista al New York Times nel 2009, Koch, ottantaquattrenne, aveva raccontato con mordace ironia al giornalista Sam Roberts tutti i dettagli del suo funerale, già pianificato allora, a partire da quell’epitaffio. Funerale che si svolgerà nella giornata di lunedì, al Temple Emanuel, proprio come Koch aveva deciso cinque anni fa (tra i vari oratori, prevista anche la presenza dell’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton).
“Spero che mi ricorderanno come qualcuno che ha amato la città di New York e i suoi cittadini, e che ha fatto tutto ciò che era in suo potere per rendere la loro vita migliore” aveva dichiarato Koch nella sua ultima intervista televisiva, solo qualche settimana fa.

Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked

 
Israele – A Netanyahu l’incarico di formare il governo
Un governo di unità nazionale dalla base più ampia possibile”. È questo ciò che ha promesso Benjamin Natanyahu, leader del blocco Likud-Beytenu che ha ottenuto la maggioranza relativa alle elezioni del 22 gennaio (31 seggi su 120), nell’atto di ricevere dal presidente israeliano Shimon Peres il mandato a formare il nuovo governo. Negli scorsi giorni, a indicare il nome di Netanyahu durante le consultazioni sono stati i rappresentanti di Likud-Beyteinu, Yesh Atid, Habayit Hayehudi, Shas, United Torah Judaism e Kadima (per un totale di 82 deputati). Nel corso della cerimonia ufficiale di conferimento del mandato al termine dello Shabbat, Netanyahu ha rivolto un appello ai leader dei partiti che hanno espresso l’intenzione di non entrare nel governo a ripensarci per superare le divisioni interne.
Netanyahu ha indicato come la prima priorità del suo governo quella di ostacolare gli sforzi iraniani per ottenere le armi atoniche, e ha definito ogni giorno passato senza negoziati di pace con i palestinesi come un giorno sprecato, invitando Abu Mazen a riprendere le trattative. Ha spiegato che le questioni interne saranno affrontate con decisione dalla sua amministrazione, ma la sicurezza nazionale resta la priorità. Sul piano economico e sociale ha promesso misure per creare nuovi posti di lavoro e “per condividere il fardello in modo più equo ma senza creare divisioni profonde nella nazione”, apparentemente riferendosi alla questione dell’arruolamento dei giovani haredim.

Il futuro della ricerca passa per il cervello umano
Riprodurre il cervello umano su computer, con tutti i suoi 100 miliardi  di neuroni (cifra peraltro controversa) e un numero di sinapsi che si stima in milioni di miliardi.
Sembra una utopia visionaria, è invece così reale l’Unione Europea ha deciso di investire un miliardo di euro  in dieci anni sul Progetto Human Brain (HBP),  al quale ha assegnato il FET (Future and Emerging Technologies)  Flagship, un superfinanziamento dedicato a progetto scientifico ritenuto prioritario per le potenzialità di innovazione tecnologica e di sfruttamento economico, che nasce all’interno di Horizon 20-20, il programma quadro per riportare l’Europa al centro dello sviluppo.
Pochi sanno che Human Brain è un progetto che è nato in Israele, da una idea di di Henry Markram (nell'immagine in alto), anatomo-fisiologo che lavorava all’Istituto Weizman (oggi è all’ EPFL di Losanna, dove dirige dell’immenso laboratorio che raccoglie ed elabora i dati provenienti  da tutti i centri associati)  e Idan Segev (in basso), neuroscienziato computazionale (così si definisce chi crea  modelli matematici dei vari processi mentali e li replica su computer), che ha fondato la prima struttura interdisciplinare dedicata al cervello all’Università ebraica di Gerusalemme.
Segev è ancora uno dei più stretti collaboratori di HBP, che oggi coinvolge 87 centri di ricerca in 23 Paesi, e Israele si è aggiudicato il 2 per cento del budget totale, cioè 20 milioni di Euro in dieci anni.
La motivazione del Flagship, istituito nel 2010 (i vincitori sono stati annunciati il 28 gennaio, dopo un iter di due anni), nasce dalla constatazione che nessun Paese europeo da solo può permettersi di competere con le grandi potenze economiche a livello di ricerca, ed è quindi necessario, se non si vuole che l’Europa perda il treno dell’innovazione, assicurare attraverso l’Unione europea dei fondi, garantiti nell’arco di diversi anni, per mobilitare i migliori ricercatori su un obiettivo comune, che sia in grado di innovare e far progredire la scienza, ma anche di garantire un importante ricaduta industriale ed economica.

Viviana Kasam


Melamed – Libri vincenti e confronto aperto
Pagine Ebraiche e DafDaf, il giornale ebraico dei bambini, riportano abitualmente anticipazioni di testi in uscita o appena pubblicati, e a volte le scelte della redazione si rivelano vincenti, nel senso più vero del termine: negli scorsi giorni sono stati resi noti i vincitori del National Jewish Book Award, il premio che il prestigioso Jewish Book Council dal 1950 assegna annualmente ad autori di libri di interesse ebraico e in due categorie il primo premio va a testi segnalati sulle pagine dei due mensili.
Fra i vincitori degli anni passati si trovano nomi come Deborah Lipstadt, Bernard Malamud, Michael Oren, Chaim Potok, Philip Roth, and Elie Wiesel e quest’ultima edizione nella categoria Scholarship ha premiato “The Chosen Few: How Education Shaped Jewish History, 70–1492” di Maristella Botticini e Zvi Eckstein.
In Italia il libro, che sta suscitando grande interesse e un vivace dibattito fra voci come vuole la tradizione ebraica apertamente discordanti, è stato pubblicato da Egea, la casa editrice dell’Università Bocconi, con il titolo “I pochi eletti. Il ruolo dell’istruzione nella storia degli ebrei, 70-1492” e su di esso a metà dicembre l’Università Bocconi insieme a Pagine Ebraiche ha organizzato una tavola rotonda, dal titolo “L’istruzione come leva dello sviluppo economico. Spunti dalla storia ebraica”. La serata, è stata moderata dal giornalista Guido Vitale, coordinatore Informazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e direttore della redazione di Pagine Ebraiche, e vi hanno partecipato, oltre all’autrice, l’economista Alberto Alesina (Harvard University), il rabbino Roberto Della Rocca (direttore del dipartimento Educazione e Cultura dell’UCEI) e lo storico Giacomo Todeschini (Università di Trieste). Il dibattito è poi continuato su Pagine Ebraiche, con interventi di David Bidussa, Antonella Castelnuovo e Giacomo Todeschini. Altri seguiranno.
Oltreoceano sono già uscite varie recensioni del libro, e fra queste quella di David Warsh, su Economic Principals, riporta i dibattiti nati già nel 2003 quando era stato presentato il working paper che conteneva la prima idea su cui si sarebbe poi strutturato il libro, e che proseguono fino, ad esempio, al 2010 quando a Tel Aviv un gruppo di esperti dell’argomento ha avuto la possibilità di analizzare i contenuti del manoscritto. Warsh sostiene che I pochi eletti cambierà la storia del Medio Oriente, e parere simile esprime anche Carmel Chiswick, del Department of Economics della George Washington University che nella recensione pubblicata sul sito della Economic History Association dedicato al confronto fra gli studiosi del settore sostiene che la nuova prospettiva proposta dai due autori “cambierà per sempre il modo in cui interpretiamo la storia economica degli ebrei”.
Sul libro vincitore nella categoria Children’s and Young Adult Literature, che per il 2012 è Meet at the Ark at Eight, di Ulrich Hub e Jörg Mühle, la redazione del giornale ebraico dei bambini aveva puntato già all’inizio del 2011, quando nelle pagine di DafDaf numero 5aveva raccontato di “L'arca parte alle otto. L’esistenza di Dio spiegata da tre pinguini” (Rizzoli editore), un piccolo e divertente racconto che con estrema semplicità, attraverso le buffe litigate di tre pinguini affronta domande difficili. La conversazione tra di loro, apparentemente surreale, è in realtà molto precisa e lucida, fatta di domande che tutti si pongono e di risposte che molti si danno e viene interrotta dalla colomba, che annuncia l’arrivo imminente del diluvio universale e consegna loro due biglietti per salire sull’arca. Che parte alle otto. In punto.

Ada Treves twitter@atrevesmoked


pilpul
Il pieno della Memoria e il vuoto della Storia
Ho dunque finito, anche se qualche ulteriore ricaduta la misurerò ancora nelle settimane a venire, il mio abituale giro per il Giorno della Memoria. Anzi, dovrei dire della settimana se non, forse, del mese. Non me ne dolgo né me ne compiaccio. Fa parte del lavoro che svolgo e, tutto sommato, posso affermare che quest’anno si è rivelato, nel suo complesso, un’esperienza per nulla stanca, come invece temevo. Centinaia di studenti incontrati, argomenti impegnativi affrontati (anche riguardo ad Israele, ma guarda un po’), ritorni positivi dal pubblico, grande interesse per qualcosa che, a torto o a ragione, spesso si ritiene invece inflazionato. Certo, gli aspetti confortanti nulla tolgono alla necessità di una riflessione ad ampio raggio sul "buon uso pubblico della Shoah", ovvero su come si debba comunicare al pubblico, quasi tutto composto di non ebrei, il senso condiviso di questa tragedia. Lo sterminio non parla da sé, non ha nulla di auto-evidente. Al di là di certi marketing commerciali. Richiede invece la nostra mediazione, soprattutto da quando i testimoni diretti sono venuti a mancare. Sempre di più ci si affiderà, infatti, a quelli che Raffaella Di Castro chiama i "testimoni del non provato": le seconde, le terze, le quarte generazioni, che si stanno succedendo oramai da ben dopo che il crimine è venuto consumandosi e concludendosi. Per lavorare con gli studenti, ad esempio, mi è sempre più di aiuto Maus, il capolavoro di Art Spiegelman. Peraltro non è paradossale riscontrare come mentre la fisicità di Auschwitz si allontana nel tempo la sua inquietante ombra paia invece stagliarsi sempre più su di noi. Si tratta di una sfida, e come tale va accolta. Ho già avuto modo di richiamare le mie perplessità su quella che considero una retorica, in sé non certo deprecabile ma senz’altro discutibile, quella che fa della memoria un dovere. Se tale precetto mi pare assolutamente fondato sul piano privato - ma allora parliamo di famiglie, del loro interno, dei legami spezzati e di come essi siano stati solo parzialmente ricomposti – qualora invece si voglia dotarsi di una pedagogia civile (a ciò in qualche modo siamo chiamati) allora i termini del problema mutano e anche radicalmente. Poiché abbiamo a che fare con platee molto diverse, spesso accomunate da un solo elemento, quello di non riuscire a cogliere la complessità della trama storica, a partire da quella dello sterminio. A tale incoscienza si supplisce, il più delle volte, con il richiamo all’identificazione emotiva. Le vittime piacciono perché sono idealizzate come buone e giuste, sospese in una sorta di vuoto atemporale e acritico, quindi quasi angelicate. Aggiungo che in ciò conta anche il fatto che viviamo in un paese dove la cultura prevalente ha solidi ancoramenti nel cattolicesimo. Se non si comportano più secondo le aspettative che qualsiasi spettatore di storia un po’ sprovveduto nutre, partendo da una visione dicotomica della realtà (tutti quelli di una parte cattivi, gli altri buoni, sempre a prescindere), tra l’altro molto “televisiva”, ecco che ad esse, e alla loro progenie, viene immancabilmente imputata la colpa di essere dalla parte del torto. Su questo complesso effetto di proiezione, traslazione e capovolgimento ci sarebbe di che discutere molto, a partire dalla vicenda dell’implacabile (pre)giudizio verso Israele. Ma è dentro tale logica anche chi, cercando di giustificare l’ingiustificabile, porta a riscontro della sua buona fede l’amicizia con lo Stato ebraico. Come se tutto si risolvesse in una sorta di plebiscito, a favore o contro, in merito a questo soggetto storico. Anche qui a prescindere da tutto il resto. A prescindere dalla nostra storia d’italiani, in altre parole. Che viene bellamente rimossa, sostituendo ad essa non un atto di fiducia e di vicinanza ad una nazione ma una sua immagine molto ideologica, dove tutto viene ingoiato e digerito, per così dire. Le polemiche innescatesi dopo le inopportune dichiarazioni dell’ex Presidente del Consiglio, all’uscita dalla cerimonia, molto toccante, di inaugurazione del memoriale Binario 21, raccolgono il disagio che scaturisce dal confronto con il modo di pensare di cui tale figura politica sembra essere portatrice. Lo sterminio degli ebrei viene infatti rescisso dai regimi che lo realizzarono. Diventa un fatto a sé, che si ricompone e viene superato con un solo atto, dichiarandosi "amico" di qualcosa o qualcuno. Di passata vada detto che questo atteggiamento è per più aspetti speculare, quanto meno su un piano mentale, a quello assunto da chi, nel nome del fatto che Israele è lo Stato degli ebrei, ritiene che nessuna solidarietà debba essere espressa nei confronti di chi subì le persecuzioni del passato comminandole ora, nei "medesimi termini”, ai palestinesi. Da questo gioco delle parti non si esce se non si ha la determinazione di spezzarne la circolarità. In discussione, infatti, non è il tasso di simpatia o di condiscendenza verso terzi, ancorché questi siano a noi molto prossimi, ma l’atteggiamento che si intende nutrire verso di sé, ovvero nei riguardi della storia del proprio paese e, di rimando, sugli effetti che essa ha esercitato fino all’oggi, sulle condotte politiche, sui comportamenti collettivi, sulla cultura diffusa e sul tasso di coesione sociale. I nodi irrisolti del fascismo, dei condizionamenti di lunghissimo periodo che ha lasciato nel nostro paese, non si risolvono con il richiamo, invero assai ritualistico, al "cattivo tedesco" così come al "male assoluto". Si tratta, nell’uno come nell’altro caso, di un esercizio di esorcizzazione e di rimozione. Men che meno si assolvono con un’asfissiante par condicio, quella che mette sui due piatti della bilancia le tragedie del Novecento stabilendo immediate equivalenze e, quindi, neutralizzando le responsabilità che ogni carnefice, nella specificità del suo operato, porta con sé. Come diceva il filosofo, "nella notte in cui tutte le vacche sono nere" si rischia di non distinguere più nulla, facendo di tutte le parti un indigeribile minestrone. Se si deve parlare di revisionismo, nel senso peggiore del termine, in quanto banalizzazione e trivializzazione, lo si trova proprio in questo modo di fare, molto diffuso tra chi evidentemente ha più di una colpa da farsi condonare. Se non altro di riflesso, per inconfessabile identificazione con qualcosa che è stato. Ora, qualsiasi pedagogia civile deve confrontarsi con questi relativismi, che usano la tragedia delle comunità ebraiche europee come uno strumento non per capire quello che è avvenuto e, quindi, comprendere quel che oggi è o potrebbe essere, ma per coprire o per enfatizzare aspetti trascorsi a beneficio della polemica strumentale. La storia non si pone al di sopra delle contingenze del dibattito civile ma cerca di non cadere nei luoghi comuni. Non è un tribunale, come certuni invece pensano, dove trascinare a propria discrezione questo piuttosto che quello, e non è neanche torre eburnea. Piuttosto è esercizio auto-critico. È un esercizio, nel nostro caso, sull’anatomia del nostro paese, tanto più necessario dal momento che oggi si trova in uno stato di grande sofferenza, che rischia di trasformarsi in pericolosa insofferenza. Ne difetta molto chi, invece, nel nome delle vittime, la cui memoria attribuisce esclusivamente a sé, trasforma il tutto in un perenne vittimismo. Dipingendo gli orrori come degli errori, ancorché gravi, completamente slegati dall’humus ideologico in cui maturarono, concatenandosi e infine generando lo sterminio. Il vecchio teorema deresponsabilizzante del "non è colpa nostra, sono le cattive amicizie ad averci indotto in errore", non regge un unico secondo davanti non solo ad un qualsiasi giudice ma anche all’inflessibile e tuttavia onesta valutazione di un genitore che, scoperto il proprio figlio avere commesso una violazione delle norme, ne intenda sanzionare, per educarlo, la condotta. E poi, gli amici bisogna saperseli scegliere, allora come oggi.

Claudio Vercelli

Nugae - Les Misérables
Attenzione: si avvisa che questo è l’appassionato elogio di un’entusiasta dei musical ancora sotto gli effetti dell’esaltazione da post-spettacolo. Si consiglia pertanto a tutti coloro che soffrono di problemi d’insofferenza nei confronti di chi non può fare a meno di iniziare cantare improvvisamente in qualsiasi riflessione o conversazione, e anche condizione è il caso di aggiungere, di interrompere la lettura. Perché nel musical Les Misérables, e ovviamente anche nel suo adattamento cinematografico ora nelle sale, non c’è nemmeno una parte recitata, tutto è cantato, come in un’opera. Più di due ore e mezza di gorgheggi, esatto. Ma niente paura, volano. Perchè Les Misérables, il romanzo s’intende, si presta meravigliosamente a essere cantato: una storia romantica, in senso letterario, fino all’osso, in cui Hugo descrive oltre che un momento storico e la condizione di una parte di popolazione, una montagna gigantesca di sentimenti che franano e travolgono. Si cantano ora l’amore che trionfa sempre, ora la paura per la propria vita, ora il fervore per i propri ideali. E poi c’è la tristezza, forse la vera protagonista. A differenza di tutte le altre emozioni, la tristezza non si rovescia sullo spettatore manifestamente e con violenza, ma s’insinua in modo allo stesso tempo dolce e crudele. È nella voce rotta di Anne Hathaway che canta i sogni infranti di Fantine, è negli occhi scuri e profondi (e bellissimi) dell’intenso (e bellissimo) Hugh Jackman che interpreta i tormenti del protagonista Jean Valjean, un uomo perseguitato dal suo passato ma soprattutto un padre costretto ad allontanarsi dalla sua amata figlia adottiva, la sua unica ragione di vita, pur di proteggerla. La tristezza è persino nella comicità popolare e grottesca di Sacha Baron Cohen, che grazie al cielo ogni tanto allenta la tensione, ma che lascia comunque un po’ di amarezza per quei locandieri che vivono delle loro truffe  perché in realtà non conoscono nient’altro che quelle. Les Misérables d’altra parte è un titolo dal doppio significato:  miserabile, per la sua etimologia, significa per prima cosa proprio triste, disgraziato. E il risultato non può essere che uno, anche per i cuori più di pietra: lacrimoni.    

Francesca Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF

           

notizieflash   rassegna stampa
Qui Roma - Pedalando per la Memoria   Leggi la rassegna

Settimia   Spizzichino,  unica donna sopravvissuta alla retata del 16 ottobre nel quartiere ebraico di Roma, e' stata oggi ricordata con la tradizionale passeggiata sulle due ruote Pedalando per la memoria. L'iniziativa, promossa dall'assessorato alla cultura del xi municipio e giunta quest'anno alla nona edizione, ha portato molti cittadini ad attraversare sui pedali alcuni luoghi simbolo della memoria capitolina. (Nell'immagine di Carla Di Veroli alcuni ciclisti mentre attraversano il ponte dedicato a Settimia Spizzichino)


 

“Buio pesto sulle leggi razziali, ma nel fascismo ci sono state molte luci, solo qualche comunista nostalgico di Stalin e del muro di Berlino continua a considerarla un'eresia. Fino al 1938 lo dicevano i capi democratici di tutta l'Europa”. Lo ha detto l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa commentando le affermazioni del leader del Pdl Silvio Berlusconi al Memoriale della Shoah (ne riferisce il Tempo).









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