Grande protagonista di tanti eventi cruciali dell’ultimo secolo, a cominciare dalla lotta al Nazismo, Ed Koch, leggendario sindaco di New York tra il 1978 e il 1989, è scomparso all’età di 88 anni. A
raccontare la sua personalità meglio di ogni altro scritto è
l’epitaffio che lui stesso compose dopo aver superato un infarto nel
1987: “Fu fieramente orgoglioso della sua fede ebraica. Fieramente
difese la città di New York e amò i suoi cittadini. Più di ogni altra
cosa, amò il suo paese, gli Stati Uniti d’America, nel cui esercito
servì durante la seconda guerra mondiale”.
Edward Irving Koch era nato nel 1924 nel Bronx da genitori ebrei
immigrati negli USA dalla Galizia. Nel 1943, ansioso di andare in
Europa a combattere Hitler, nascose una grave ferita alla mano pur di
essere arruolato. Nell’esercito era pronto a fare a pugni con chiunque
indirizzasse commenti antisemiti a lui o ai suoi commilitoni ebrei
(cosa che accadeva piuttosto di frequente). Ferito durante i
combattimenti in Germania, fu rimandato negli Stati Uniti per tornare
in Europa al termine della guerra chiamato a portare avanti un’opera di
denazificazione di una cittadina bavarese: fu la sua prima esperienza
da amministratore.
Nel 1946, pur non avendo terminato la laurea di primo livello, convinse
la prestigiosa New York University ad accettarlo alla facoltà di legge,
mantenendosi nel frattempo attivo in campo ebraico (frequentava la
sinagoga conservative Flatbush Jewish Center e l’organizzazione
giovanile Young’s People’s League).
Cominciò a occuparsi attivamente di politica all’inizio degli anni
Cinquanta, e nel 1969 fu eletto al Congresso nelle file del Partito
democratico. I suoi otto anni da deputato furono caratterizzati da
votazioni di stampo progressista, ma con uno stile volto alla
mediazione, nonché da una forte passione per i temi legati allo Stato
d’Israele, che visitò più volte incontrando i principali esponenti del
mondo politico.
Nel frattempo la città di New York viveva uno dei suoi periodi più bui,
tormentata dallo spettro dell’altissimo tasso di criminalità e da
quello della bancarotta. Koch si candidò a sindaco e fu protagonista di
una campagna elettorale all’attacco, mettendo in luce le sue
competenze, auto-definendosi “un liberal dotato di sanità mentale”,
enfatizzando il suo supporto alla pena di morte, salendo alla ribalta
nazionale per le sue critiche alla politica mediorientale del
presidente democratico Jimmy Carter. Eletto, fu capace di ottenere
successi fulminanti. Nel suo primo giorno bandì le discriminazioni
implementate dalla città in base all’orientamento sessuale (un tema che
gli rimase sempre particolarmente a cuore: pur rifiutando di discutere
la propria sessualità in pubblico, Koch fu spesso attaccato in questo
versante, come avvenne nel 1977 quando manifesti elettorali apparvero
con la scritta “Vote for Cuomo, Not the Homo” in sostegno del suo
avversario, e futuro governatore dello Stato di New York, Mario Cuomo).
Koch Migliorò la gestione, abolì la politicizzazione delle nomine dei
dirigenti, istituendo una commissione di esperti indipendenti per il
vaglio dei candidati. Persuase il Congresso a mettere in atto
un’operazione di salvataggio finanziario per New York, e riuscì ad
arrivare al pareggio di bilancio in un tempo minore di quello previsto.
Nel 1981 fu trionfalmente rieletto con sostegno bipartisan. Solo i suoi
rapporti con le comunità povere afro-americane si mantennero difficili,
in particolare dopo la sua decisione, nel 1980, di chiudere l’ospedale
Sydenham, che ne costituiva un punto di riferimento.
Fu Koch a varare un piano di riqualificazione edilizia che nei decenni
successivi ha portato a ridisegnare il volto di New York (nel 2001 la
maggior parte delle aree degradate della città erano state
ristrutturate).
Ma nonostante gli innegabili successi, il suo terzo mandato da sindaco
fu caratterizzato dall’emergere di episodi di corruzione nel suo
entourage (nonostante la personale integrità del sindaco non fu mai
messa in discussione), da un aumento vertiginoso dei decessi per Aids e
del numero dei senzatetto. Dopo una campagna elettorale burrascosa, fu
sconfitto alle primarie democratiche da David Dinkins (il primo e
finora unico afro-americano a ricoprire la carica di sindaco di New
York).
In un’intervista al New York Times nel 2009, Koch, ottantaquattrenne,
aveva raccontato con mordace ironia al giornalista Sam Roberts tutti i
dettagli del suo funerale, già pianificato allora, a partire da
quell’epitaffio. Funerale che si svolgerà nella giornata di lunedì, al
Temple Emanuel, proprio come Koch aveva deciso cinque anni fa (tra i
vari oratori, prevista anche la presenza dell’ex presidente degli Stati
Uniti Bill Clinton).
“Spero che mi ricorderanno come qualcuno che ha amato la città di New
York e i suoi cittadini, e che ha fatto tutto ciò che era in suo potere
per rendere la loro vita migliore” aveva dichiarato Koch nella sua
ultima intervista televisiva, solo qualche settimana fa.
Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked
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Israele – A Netanyahu l’incarico di
formare il governo |
Un governo di unità nazionale dalla
base più ampia possibile”. È questo ciò che ha promesso Benjamin
Natanyahu, leader del blocco Likud-Beytenu che ha ottenuto la
maggioranza relativa alle elezioni del 22 gennaio (31 seggi su 120),
nell’atto di ricevere dal presidente israeliano Shimon Peres il mandato
a formare il nuovo governo. Negli scorsi giorni, a indicare il nome di
Netanyahu durante le consultazioni sono stati i rappresentanti di
Likud-Beyteinu, Yesh Atid, Habayit Hayehudi, Shas, United Torah Judaism
e Kadima (per un totale di 82 deputati). Nel corso della cerimonia
ufficiale di conferimento del mandato al termine dello Shabbat,
Netanyahu ha rivolto un appello ai leader dei partiti che hanno
espresso l’intenzione di non entrare nel governo a ripensarci per
superare le divisioni interne.
Netanyahu ha indicato come la prima priorità del suo governo quella di
ostacolare gli sforzi iraniani per ottenere le armi atoniche, e ha
definito ogni giorno passato senza negoziati di pace con i palestinesi
come un giorno sprecato, invitando Abu Mazen a riprendere le
trattative. Ha spiegato che le questioni interne saranno affrontate con
decisione dalla sua amministrazione, ma la sicurezza nazionale resta la
priorità. Sul piano economico e sociale ha promesso misure per creare
nuovi posti di lavoro e “per condividere il fardello in modo più equo
ma senza creare divisioni profonde nella nazione”, apparentemente
riferendosi alla questione dell’arruolamento dei giovani haredim.
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Il futuro della ricerca passa per il cervello umano
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Riprodurre
il cervello umano su computer, con tutti i suoi 100 miliardi di
neuroni (cifra peraltro controversa) e un numero di sinapsi che si
stima in milioni di miliardi.
Sembra una utopia visionaria, è invece così reale l’Unione Europea ha
deciso di investire un miliardo di euro in dieci anni sul
Progetto Human Brain (HBP), al quale ha assegnato il FET (Future
and Emerging Technologies) Flagship, un superfinanziamento
dedicato a progetto scientifico ritenuto prioritario per le
potenzialità di innovazione tecnologica e di sfruttamento economico,
che nasce all’interno di Horizon 20-20, il programma quadro per
riportare l’Europa al centro dello sviluppo.
Pochi sanno che Human Brain è un progetto che è nato in Israele, da una
idea di di Henry Markram (nell'immagine in alto), anatomo-fisiologo che
lavorava all’Istituto Weizman (oggi è all’ EPFL di Losanna, dove dirige
dell’immenso laboratorio che raccoglie ed elabora i dati
provenienti da tutti i centri associati) e Idan Segev (in
basso), neuroscienziato computazionale (così si definisce chi
crea modelli matematici dei vari processi mentali e li replica su
computer), che ha fondato la prima struttura interdisciplinare dedicata
al cervello all’Università ebraica di Gerusalemme.
Segev è ancora uno dei più stretti collaboratori di HBP, che oggi
coinvolge 87 centri di ricerca in 23 Paesi, e Israele si è aggiudicato
il 2 per cento del budget totale, cioè 20 milioni di Euro in dieci anni.
La motivazione del Flagship, istituito nel 2010 (i vincitori sono stati
annunciati il 28 gennaio, dopo un iter di due anni), nasce dalla
constatazione che nessun Paese europeo da solo può permettersi di
competere con le grandi potenze economiche a livello di ricerca, ed è
quindi necessario, se non si vuole che l’Europa perda il treno
dell’innovazione, assicurare attraverso l’Unione europea dei fondi,
garantiti nell’arco di diversi anni, per mobilitare i migliori
ricercatori su un obiettivo comune, che sia in grado di innovare e far
progredire la scienza, ma anche di garantire un importante ricaduta
industriale ed economica.
Viviana Kasam
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Melamed – Libri vincenti e confronto
aperto |
Pagine Ebraiche e DafDaf, il giornale
ebraico dei bambini, riportano abitualmente anticipazioni di testi in
uscita o appena pubblicati, e a volte le scelte della redazione si
rivelano vincenti, nel senso più vero del termine: negli scorsi giorni
sono stati resi noti i vincitori del National Jewish Book Award, il
premio che il prestigioso Jewish Book Council dal 1950 assegna
annualmente ad autori di libri di interesse ebraico e in due categorie
il primo premio va a testi segnalati sulle pagine dei due mensili.
Fra i vincitori degli anni passati si trovano nomi come Deborah
Lipstadt, Bernard Malamud, Michael Oren, Chaim Potok, Philip Roth, and
Elie Wiesel e quest’ultima edizione nella categoria Scholarship ha
premiato “The Chosen Few: How Education Shaped Jewish History, 70–1492”
di Maristella Botticini e Zvi Eckstein.
In Italia il libro, che sta suscitando grande interesse e un vivace
dibattito fra voci come vuole la tradizione ebraica apertamente
discordanti, è stato pubblicato da Egea, la casa editrice
dell’Università Bocconi, con il titolo “I pochi eletti. Il ruolo
dell’istruzione nella storia degli ebrei, 70-1492” e su di esso a metà
dicembre l’Università Bocconi insieme a Pagine Ebraiche ha organizzato
una tavola rotonda, dal titolo “L’istruzione come leva dello sviluppo
economico. Spunti dalla storia ebraica”. La serata,
è stata moderata dal giornalista Guido Vitale, coordinatore
Informazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e
direttore della redazione di Pagine Ebraiche, e vi hanno partecipato,
oltre all’autrice, l’economista Alberto Alesina (Harvard University),
il rabbino Roberto Della Rocca (direttore del dipartimento Educazione e
Cultura dell’UCEI) e lo storico Giacomo Todeschini (Università di
Trieste). Il dibattito è poi continuato su Pagine Ebraiche, con
interventi di David Bidussa, Antonella Castelnuovo e Giacomo
Todeschini. Altri seguiranno.
Oltreoceano sono già uscite varie recensioni del libro, e fra queste
quella di David Warsh, su Economic Principals, riporta i dibattiti nati
già nel 2003 quando era stato presentato il working paper che conteneva
la prima idea su cui si sarebbe poi strutturato il libro, e che
proseguono fino, ad esempio, al 2010 quando a Tel Aviv un gruppo di
esperti dell’argomento ha avuto la possibilità di analizzare i
contenuti del manoscritto. Warsh sostiene che I pochi eletti cambierà
la storia del Medio Oriente, e parere simile esprime anche Carmel
Chiswick, del Department of Economics della George Washington
University che nella recensione pubblicata sul sito della Economic
History Association dedicato al confronto fra gli studiosi del settore
sostiene che la nuova prospettiva proposta dai due autori “cambierà per
sempre il modo in cui interpretiamo la storia economica degli ebrei”.
Sul libro vincitore nella categoria Children’s and Young Adult
Literature, che per il 2012 è Meet at the Ark at Eight, di Ulrich Hub e
Jörg Mühle, la redazione del giornale ebraico dei bambini aveva puntato
già all’inizio del 2011, quando nelle pagine di DafDaf numero 5aveva
raccontato di “L'arca parte alle otto. L’esistenza di Dio spiegata da
tre pinguini” (Rizzoli editore), un piccolo e divertente racconto che
con estrema semplicità, attraverso le buffe litigate di tre pinguini
affronta domande difficili. La conversazione tra di loro,
apparentemente surreale, è in realtà molto precisa e lucida, fatta di
domande che tutti si pongono e di risposte che molti si danno e viene
interrotta dalla colomba, che annuncia l’arrivo imminente del diluvio
universale e consegna loro due biglietti per salire sull’arca. Che
parte alle otto. In punto.
Ada Treves
twitter@atrevesmoked
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Il pieno della Memoria e il vuoto della Storia
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Ho
dunque finito, anche se qualche ulteriore ricaduta la misurerò ancora
nelle settimane a venire, il mio abituale giro per il Giorno della
Memoria. Anzi, dovrei dire della settimana se non, forse, del mese. Non
me ne dolgo né me ne compiaccio. Fa parte del lavoro che svolgo e,
tutto sommato, posso affermare che quest’anno si è rivelato, nel suo
complesso, un’esperienza per nulla stanca, come invece temevo.
Centinaia di studenti incontrati, argomenti impegnativi affrontati
(anche riguardo ad Israele, ma guarda un po’), ritorni positivi dal
pubblico, grande interesse per qualcosa che, a torto o a ragione,
spesso si ritiene invece inflazionato. Certo, gli aspetti confortanti
nulla tolgono alla necessità di una riflessione ad ampio raggio sul
"buon uso pubblico della Shoah", ovvero su come si debba comunicare al
pubblico, quasi tutto composto di non ebrei, il senso condiviso di
questa tragedia. Lo sterminio non parla da sé, non ha nulla di
auto-evidente. Al di là di certi marketing commerciali. Richiede invece
la nostra mediazione, soprattutto da quando i testimoni diretti sono
venuti a mancare. Sempre di più ci si affiderà, infatti, a quelli che
Raffaella Di Castro chiama i "testimoni del non provato": le seconde,
le terze, le quarte generazioni, che si stanno succedendo oramai da ben
dopo che il crimine è venuto consumandosi e concludendosi. Per lavorare
con gli studenti, ad esempio, mi è sempre più di aiuto Maus, il
capolavoro di Art Spiegelman. Peraltro non è paradossale riscontrare
come mentre la fisicità di Auschwitz si allontana nel tempo la sua
inquietante ombra paia invece stagliarsi sempre più su di noi. Si
tratta di una sfida, e come tale va accolta. Ho già avuto modo di
richiamare le mie perplessità su quella che considero una retorica, in
sé non certo deprecabile ma senz’altro discutibile, quella che fa della
memoria un dovere. Se tale precetto mi pare assolutamente fondato sul
piano privato - ma allora parliamo di famiglie, del loro interno, dei
legami spezzati e di come essi siano stati solo parzialmente ricomposti
– qualora invece si voglia dotarsi di una pedagogia civile (a ciò in
qualche modo siamo chiamati) allora i termini del problema mutano e
anche radicalmente. Poiché abbiamo a che fare con platee molto diverse,
spesso accomunate da un solo elemento, quello di non riuscire a
cogliere la complessità della trama storica, a partire da quella dello
sterminio. A tale incoscienza si supplisce, il più delle volte, con il
richiamo all’identificazione emotiva. Le vittime piacciono perché sono
idealizzate come buone e giuste, sospese in una sorta di vuoto
atemporale e acritico, quindi quasi angelicate. Aggiungo che in ciò
conta anche il fatto che viviamo in un paese dove la cultura prevalente
ha solidi ancoramenti nel cattolicesimo. Se non si comportano più
secondo le aspettative che qualsiasi spettatore di storia un po’
sprovveduto nutre, partendo da una visione dicotomica della realtà
(tutti quelli di una parte cattivi, gli altri buoni, sempre a
prescindere), tra l’altro molto “televisiva”, ecco che ad esse, e alla
loro progenie, viene immancabilmente imputata la colpa di essere dalla
parte del torto. Su questo complesso effetto di proiezione, traslazione
e capovolgimento ci sarebbe di che discutere molto, a partire dalla
vicenda dell’implacabile (pre)giudizio verso Israele. Ma è dentro tale
logica anche chi, cercando di giustificare l’ingiustificabile, porta a
riscontro della sua buona fede l’amicizia con lo Stato ebraico. Come se
tutto si risolvesse in una sorta di plebiscito, a favore o contro, in
merito a questo soggetto storico. Anche qui a prescindere da tutto il
resto. A prescindere dalla nostra storia d’italiani, in altre parole.
Che viene bellamente rimossa, sostituendo ad essa non un atto di
fiducia e di vicinanza ad una nazione ma una sua immagine molto
ideologica, dove tutto viene ingoiato e digerito, per così dire. Le
polemiche innescatesi dopo le inopportune dichiarazioni dell’ex
Presidente del Consiglio, all’uscita dalla cerimonia, molto toccante,
di inaugurazione del memoriale Binario 21, raccolgono il disagio che
scaturisce dal confronto con il modo di pensare di cui tale figura
politica sembra essere portatrice. Lo sterminio degli ebrei viene
infatti rescisso dai regimi che lo realizzarono. Diventa un fatto a sé,
che si ricompone e viene superato con un solo atto, dichiarandosi
"amico" di qualcosa o qualcuno. Di passata vada detto che questo
atteggiamento è per più aspetti speculare, quanto meno su un piano
mentale, a quello assunto da chi, nel nome del fatto che Israele è lo
Stato degli ebrei, ritiene che nessuna solidarietà debba essere
espressa nei confronti di chi subì le persecuzioni del passato
comminandole ora, nei "medesimi termini”, ai palestinesi. Da questo
gioco delle parti non si esce se non si ha la determinazione di
spezzarne la circolarità. In discussione, infatti, non è il tasso di
simpatia o di condiscendenza verso terzi, ancorché questi siano a noi
molto prossimi, ma l’atteggiamento che si intende nutrire verso di sé,
ovvero nei riguardi della storia del proprio paese e, di rimando, sugli
effetti che essa ha esercitato fino all’oggi, sulle condotte politiche,
sui comportamenti collettivi, sulla cultura diffusa e sul tasso di
coesione sociale. I nodi irrisolti del fascismo, dei condizionamenti di
lunghissimo periodo che ha lasciato nel nostro paese, non si risolvono
con il richiamo, invero assai ritualistico, al "cattivo tedesco" così
come al "male assoluto". Si tratta, nell’uno come nell’altro caso, di
un esercizio di esorcizzazione e di rimozione. Men che meno si
assolvono con un’asfissiante par condicio, quella che mette sui due
piatti della bilancia le tragedie del Novecento stabilendo immediate
equivalenze e, quindi, neutralizzando le responsabilità che ogni
carnefice, nella specificità del suo operato, porta con sé. Come diceva
il filosofo, "nella notte in cui tutte le vacche sono nere" si rischia
di non distinguere più nulla, facendo di tutte le parti un indigeribile
minestrone. Se si deve parlare di revisionismo, nel senso peggiore del
termine, in quanto banalizzazione e trivializzazione, lo si trova
proprio in questo modo di fare, molto diffuso tra chi evidentemente ha
più di una colpa da farsi condonare. Se non altro di riflesso, per
inconfessabile identificazione con qualcosa che è stato. Ora, qualsiasi
pedagogia civile deve confrontarsi con questi relativismi, che usano la
tragedia delle comunità ebraiche europee come uno strumento non per
capire quello che è avvenuto e, quindi, comprendere quel che oggi è o
potrebbe essere, ma per coprire o per enfatizzare aspetti trascorsi a
beneficio della polemica strumentale. La storia non si pone al di sopra
delle contingenze del dibattito civile ma cerca di non cadere nei
luoghi comuni. Non è un tribunale, come certuni invece pensano, dove
trascinare a propria discrezione questo piuttosto che quello, e non è
neanche torre eburnea. Piuttosto è esercizio auto-critico. È un
esercizio, nel nostro caso, sull’anatomia del nostro paese, tanto più
necessario dal momento che oggi si trova in uno stato di grande
sofferenza, che rischia di trasformarsi in pericolosa insofferenza. Ne
difetta molto chi, invece, nel nome delle vittime, la cui memoria
attribuisce esclusivamente a sé, trasforma il tutto in un perenne
vittimismo. Dipingendo gli orrori come degli errori, ancorché gravi,
completamente slegati dall’humus ideologico in cui maturarono,
concatenandosi e infine generando lo sterminio. Il vecchio teorema
deresponsabilizzante del "non è colpa nostra, sono le cattive amicizie
ad averci indotto in errore", non regge un unico secondo davanti non
solo ad un qualsiasi giudice ma anche all’inflessibile e tuttavia
onesta valutazione di un genitore che, scoperto il proprio figlio avere
commesso una violazione delle norme, ne intenda sanzionare, per
educarlo, la condotta. E poi, gli amici bisogna saperseli scegliere,
allora come oggi.
Claudio
Vercelli
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Nugae - Les Misérables
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Attenzione:
si avvisa che questo è l’appassionato elogio di un’entusiasta dei
musical ancora sotto gli effetti dell’esaltazione da post-spettacolo.
Si consiglia pertanto a tutti coloro che soffrono di problemi
d’insofferenza nei confronti di chi non può fare a meno di iniziare
cantare improvvisamente in qualsiasi riflessione o conversazione, e
anche condizione è il caso di aggiungere, di interrompere la lettura.
Perché nel musical Les Misérables, e ovviamente anche nel suo
adattamento cinematografico ora nelle sale, non c’è nemmeno una parte
recitata, tutto è cantato, come in un’opera. Più di due ore e mezza di
gorgheggi, esatto. Ma niente paura, volano. Perchè Les Misérables, il
romanzo s’intende, si presta meravigliosamente a essere cantato: una
storia romantica, in senso letterario, fino all’osso, in cui Hugo
descrive oltre che un momento storico e la condizione di una parte di
popolazione, una montagna gigantesca di sentimenti che franano e
travolgono. Si cantano ora l’amore che trionfa sempre, ora la paura per
la propria vita, ora il fervore per i propri ideali. E poi c’è la
tristezza, forse la vera protagonista. A differenza di tutte le altre
emozioni, la tristezza non si rovescia sullo spettatore manifestamente
e con violenza, ma s’insinua in modo allo stesso tempo dolce e crudele.
È nella voce rotta di Anne Hathaway che canta i sogni infranti di
Fantine, è negli occhi scuri e profondi (e bellissimi) dell’intenso (e
bellissimo) Hugh Jackman che interpreta i tormenti del protagonista
Jean Valjean, un uomo perseguitato dal suo passato ma soprattutto un
padre costretto ad allontanarsi dalla sua amata figlia adottiva, la sua
unica ragione di vita, pur di proteggerla. La tristezza è persino nella
comicità popolare e grottesca di Sacha Baron Cohen, che grazie al cielo
ogni tanto allenta la tensione, ma che lascia comunque un po’ di
amarezza per quei locandieri che vivono delle loro truffe perché
in realtà non conoscono nient’altro che quelle. Les Misérables d’altra
parte è un titolo dal doppio significato: miserabile, per la sua
etimologia, significa per prima cosa proprio triste, disgraziato. E il
risultato non può essere che uno, anche per i cuori più di pietra:
lacrimoni.
Francesca
Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF
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rassegna
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Qui Roma
- Pedalando per la Memoria |
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Leggi la rassegna |
Settimia Spizzichino, unica donna sopravvissuta alla
retata del 16 ottobre nel quartiere ebraico di Roma, e' stata oggi
ricordata con la tradizionale passeggiata sulle due ruote Pedalando per
la memoria. L'iniziativa, promossa dall'assessorato alla cultura del xi
municipio e giunta quest'anno alla nona edizione, ha portato molti
cittadini ad attraversare sui pedali alcuni luoghi simbolo della
memoria capitolina. (Nell'immagine di Carla Di Veroli alcuni ciclisti
mentre attraversano il ponte dedicato a Settimia Spizzichino)
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“Buio pesto sulle leggi razziali, ma nel fascismo ci sono state molte
luci, solo qualche comunista nostalgico di Stalin e del muro di Berlino
continua a considerarla un'eresia. Fino al 1938 lo dicevano i capi
democratici di tutta l'Europa”. Lo ha detto l’ex ministro della Difesa
Ignazio La Russa commentando le affermazioni del leader del Pdl Silvio
Berlusconi al Memoriale della Shoah (ne riferisce il Tempo).
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
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