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5 febbraio 2013 - 25 Shevat 5773
l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
 
alef/tav
linea

Roberto
Della Rocca,
rabbino

Le ipotesi esegetiche sui motivi che abbiano spinto Ytrò, il suocero di Moshè, a convertirsi sono molteplici seppur per nulla contraddittorie. “E ascoltò Ytrò...” (Shemòt,18; 1). Ma cosa avrebbe ascoltato Ytrò di così sconvolgente da spingerlo a rivoluzionare la sua vita?  Qualcuno sostiene che avrebbe ascoltato e compreso a fondo la storia dell’esodo dall’Egitto, altri, invece, la guerra contro Amalék, paradigma dell’antigiudaismo, e altri ancora il Dono della Torah. Nell’accettare la legge ebraica, il convertito riceve anche la storia ebraica. È come se gli venisse data una nuova memoria, che sostituisce la sua. A nessuno è lecito rammentare al convertito il suo passato. In effetti, lo status del ghèr, nella Torah, viene talmente esaltato che, secondo il Midrash, Moshè domandò all’Eterno perché i convertiti meritassero così tante attenzioni. L’Eterno presentò l’argomentazione della purezza di cuore del convertito dicendo a Moshè: “...Ti ricordi quanto dovetti fare per persuadere il popolo di Israele ad accettare la Mia legge? Dovetti liberarli dalla schiavitù, nutrirli nel deserto, difenderli dai loro nemici, far loro impressione con continui miracoli, uno più stupefacente dell’altro. Ma il convertito non ha avuto bisogno di nulla di tutto ciò. Non sono stato Io a scegliere lui, ma lui a scegliere Me: io non l’ho neppure chiamato, eppure egli è venuto... In altri termini, il convertito è una persona speciale perché la sua ebraicità non è un fatto di nascita bensì di scelta. Ytrò è colui che ricusa una vita di benessere materiale e spirituale per scegliere un futuro incerto. Ytrò avrebbe ascoltato diversamente da altri. Come a dirci che  non basta ascoltare, ma tutto dipende da come si ascolta.

Dario
 Calimani,
 anglista



I risultati delle recenti elezioni hanno dimostrato che esistono possibilità di cambiamento e opinioni in evoluzione anche in Israele, e possono forse confermare all'ebraismo italiano che i modi di sostenere Israele possono essere diversi, anche molto diversi, e si possono valere a volte di opinioni contrastanti. Esattamente come accade nella società e nella politica della democrazia israeliana.

davar
Otto per Mille - La stagione dei progetti
C'è tempo per tutto questo mese di febbraio per sviluppare i progetti da finanziare con una quota delle risorse provenienti dalla raccolta Otto per mille. Molteplici le iniziative di interesse collettivo realizzate in questi anni con il sostegno dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Dalla formazione alla cultura, dal mondo della scuola alla tutela delle fasce più deboli ed esposte. Senza dimenticare l'aiuto offerto alle popolazioni colpite dal terremoto, la lotta al pregiudizio in ogni sua forma, la salvaguardia del patrimonio artistico. Una stagione di impegno che è possibile rinnovare grazie al contributo di numerosi cittadini che guardano con attenzione e amicizia a questa minoranza e che hanno a cuore principi irrinunciabili quali laicità, dialogo, pluralismo. Tra i progetti finanziati negli ultimi mesi il seminario Una cultura in tante culture, sfida dedicata ai temi dell'incontro e della coesistenza tra diverse identità nelle aule delle scuole proposta per il settimo anno consecutivo dall'Adei Wizo e arrivata lo scorso autunno sui luoghi del sisma in Emilia Romagna. Significativo anche il sostegno all'azione di monitoraggio contro il razzismo portata avanti da realtà consolidate su questo fronte quali Osservatorio Articolo Tre di Mantova e Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano e il contributo all'impegno profuso a Roma dalla Deputazione Ebraica per aiutare gli anziani e chi è indigente. E ancora, oltre a varie partnership culturali con notevole riscontro di pubblico e di consensi (dal festival OyOyOy di Casale Monferrato alla rassegna cinematografica romana Pitigliani Kolno'a Festival), i progetti sociali di recupero per tossicodipendenti dell'associazione Diaconia a Scampia e in tutto il territorio napoletano. Un'iniziativa, quest'ultima, volta a dare una nuova opportunità a chi è finito nel tunnel della droga che vede gli ebrei italiani al fianco della Tavola Valdese.

Per accedere alla documentazione necessaria per richiedere il finanziamento dell'Otto per Mille UCEI clicca qui

Per maggiori informazioni info@ucei.it
Israele - Tappeto rosso per la nuova Knesset
Molti ipotizzano che non durerà a lungo, ma oggi i riflettori sono tutti puntati sulla cerimonia di insediamento della diciannovesima Knesset nella storia dello Stato d’Israele.
Tappeto rosso e fiori per i 120 deputati eletti lo scorso 22 gennaio, suddivisi in 12 partiti. Sono ben 49 i nuovi politici, un numero record, ha fatto notare all’indomani delle elezioni il Jerusalem Post, pari al 41 per cento dei seggi totali. E per assicurarsi che siano ben preparati ai compiti che li aspettano, negli scorsi giorni sono stati chiamati a frequentare un corso accelerato sul funzionamento del Parlamento, come racconta il Times of Israel. A tenerlo sono stati il presidente dell’attuale Knesset Reuven Rivlin e Binyamin Ben-Eliezer, 77 anni, veterano del Parlamento, in cui siede dal 1984. Tra i temi affrontati, le procedure legislative, ma anche le regole etiche che i membri della Knesset devono rispettare (per esempio è proibita la richiesta di farsi spostare in classi più alte sui voli). Record anche per la presenza femminile, il 23 per cento dei parlamentari insediati oggi sono donne, 27 in totale. Circa un terzo i deputati che dichiarano di condurre uno stile di vita religioso, mentre il 10 per cento degli eletti vive oltre la Linea verde, rispetto al 4 per cento del totale della popolazione israeliana. Sette infine gli immigrati: quattro dall’Ex Unione Sovietica, due dall’Etiopia e uno dagli Stati Uniti. 
Nel frattempo proseguono le trattative per la formazione del nuovo governo guidato da Benjamin Netanyahu. La stampa israeliana riferisce che gli sforzi in questo momento sarebbero concentrati sul convincere Tzipi Livni a farne parte. O, quanto meno, a garantire l’appoggio dei sei parlamentari del suo Hatnua.

Rossella Tercatin
twitter @rtercatinmoked

"Haredim, un mondo complesso"
Sono appena tornata da Israele dove sono rimasta tre settimane vedendo numerose persone. Penso che possano interessare i lettori di Moked alcuni dati che riguardano il mondo haredi apparsi in uno studio molto accurato appena pubblicato ed eseguito dal dipartimento di geostrategia dell’università di Haifa dal professor Arnon Soffer, dalla dottoressa Li Kahaner e da Nicola Yuscoff.
Secondo la ricerca il numero dei haredim nel mondo si aggira su 1 milione e 396mila di unità complessive di cui 800mila in Israele (13 per cento del totale della popolazione ebraica), 468mila negli Stati Uniti (8 per cento), 53mila in Gran Bretagna (20 per cento), 20mila in Belgio (60 per cento) e 25mila in Francia (5 per cento). Sono praticamente spariti i centri dei haredim in Russia a causa della politica del regime comunista, mentre l’88 per cento dei haredim nei numerosi nuclei che esistevano prima della seconda guerra mondiale in Polonia sono periti nella Shoah. La percentuale dei haredim che vivono in Israele è da anni tendenzialmente in aumento a causa dell’emigrazione e soprattutto per l’incidenza delle nascite che nell'ultimo decennio si è aggirata su 7.7-5.6 bimbi per donna in età fertile. I haredim israeliani si dividono fra hassidim (33 per cento), lituani (29 per cento), ortodossi sefarditi (21 per cento) per lo più influenzati dalla rigida scuola dei lituani. La maggioranza di loro abita a Gerusalemme e a Bnei Brak ma negli ultimi anni si è delineata una chiara tendenza, specie fra le giovani coppie, di stabilirsi altrove - anche in alcuni insediamenti - ma comunque preferibilmente dove sono in assoluta prevalenza numerica. La maggioranza dei haredim ashkenaziti è politicamente rappresentata dal piccolo partito Deghel Hatorah che ha sempre avuto i suoi membri nella Knesset mentre i sefarditi votano per lo più per Shas che rappresenta molti sefaradim ortodossi e non è numericamente assai più importante. I sefaradim ortodossi tendenzialmente non si chiudono in quartieri particolari. La numerosità della famiglia media e il fatto che una parte cospicua non lavora oppure per propria scelta lavora solo part time fa sì che il livello di vita medio dei haredim sia sotto la fascia di povertà anche se è presente un aiuto da parte dello Stato e in molti casi anche di sussidi privati. Non sono facili i rapporti fra i haredim, in minoranza, e la maggioranza dei “tradizionalisti” e soprattutto dei non praticanti perché i primi tendono a chiudersi nelle loro comunità seguendo le regole della halakhah mentre cercano di influenzare le leggi comunali e dello Stato ad esempio per quanto riguarda il servizio militare (dal quale per lo più sono liberi), l’imposizione della halakhah, l’osservanza dello shabbat, i programmi scolastici, la separazione uomini-donne, la kasherut. Il resto della popolazione in un modo o nell'altro insiste sullo Stato laico e sull’importanza decisiva della magistratura e sul diritto sostanziale di scegliere il proprio stile di vita. Questa è senza dubbio una delle fondamentali problematiche che i haredim e il resto della popolazione ebraica devono urgentemente affrontare per evitare il crescente divario fra gli uni e gli altri. La ricerca degli studiosi di Haifa parla di certe reciproche influenze fra le varie parti in cui si divide la popolazione ebraica israeliana che tuttavia, almeno fino ad oggi, si sono rivelate tutto sommato insufficienti.

Hulda Liberanome

Dibattito aperto sui diritti civili alle coppie di fatto
Superare i difetti di comunicazione per parlare alla società 
Matrimonio omosessuale, omoparentalità, adozioni. Temi di grande attualità cui il numero di febbraio di Pagine Ebraiche in circolazione dedica quattro pagine speciali. A confronto le voci di un rabbino e di tre intellettuali. “Per quanto riguarda l'informazione, fuori dall'ambito strettamente comunitario – scrive Stefano Jesurum, giornalista – il punto di vista ebraico è pressoché muto. Un silenzio che ci interroga con severità”.

Nel commentare l'articolo di Ernesto Galli della Loggia su religioni, conformismo e matrimoni gay (Corriere della Sera, 30 dicembre 2012), Guido Vitale mi pare aver delimitato il campo della discussione a tre punti secondo me essenziali (l'Unione informa, 9 gennaio 2013). Scusandomi fin d'ora con il direttore di Pagine ebraiche per l'approssimazione della sintesi, dirò che il succo del suo argomentare mi trova assolutamente concorde: 1) non credo sia vero che l'ebraismo italiano e i suoi rabbini tacciano sui grandi temi civili; 2) non mi risulta che gli ebrei cosiddetti laici e con un profilo in qualche modo socialmente pubblico abbiano gettato alle ortiche la religione dei padri; 3) la società italiana non sembra essere – diciamo così – informata di quanto, appunto, in seno al pensiero ebraico nostrano, si discuta di grandi temi civili, etico-ideologico-politici. Senza annoiare il lettore con un riassuntino delle teorie di Galli della Loggia riguardo al nesso tra le prese di posizione di papa Benedetto XVI e quelle del gran rabbino di Francia Gilles Bernheim, vorrei invece soffermarmi sul terzo punto, cioè sulla “ignoranza” che accomuna numerosissimi – e spesso validissimi – intellettuali commentatori. Una questione cruciale poiché se il fior fiore dell'intellighenzia nulla o quasi sa delle riflessioni, delle prese di posizione, e talvolta delle diatribe che circolano nelle nostre kehillot in merito a questioni riguardanti l'esistenza nella modernità odierna – dall'omosessualità, appunto, all'omoparentalità, dal fine vita alla fecondazione assistita eccetera – questo è un problema che mi riguarda direttamente. Mi riguarda come ebreo, mi riguarda come cittadino, mi riguarda come giornalista/comunicatore. E naturalmente mi riguarda come cittadino giornalista ebreo. Le risposte, o se si preferisce le spiegazioni, all'interrogativo del perché il mondo che ci circonda sia così “ignorante” sono – io credo – molteplici ma non troppo complesse. Intanto è indubbio che gli ebrei italiani siano pochi, pochissimi se paragonati a realtà diasporiche come la Francia, il Regno Unito o l'America. Ergo non fanno notizia se non per lo più intorno al 27 gennaio, in occasione di atti di razzismo o in periodi di ebollizione mediorientale. Da questo dato discende la consapevolezza che, forse, più che raccontarci quanto la società sia disinformata, dovremmo serenamente iniziare a meditare sull'ipotesi che alla società italiana proprio non interessi ciò che pensiamo noi cittadini-ebrei e a maggior ragione che cosa pensano i rabbanìm. Insomma, manca la volontà di ascoltare o manca “l'interesse” a farlo? In periodi non certo lontani della storia contemporanea italica il Paese però interrogava, avvicinava, chiedeva un'opinione illuminante a figure come rav Elio Toaff. E soprattutto, dopo averlo ascoltato, lo capiva con il cervello, con il cuore, con la pancia. Si dirà: certo, rav Toaff era una tipica personalità del dopoguerra, era stato partigiano, parlava il linguaggio della giustizia e della libertà, la lingua della Resistenza, arricchendola di sapienza halachica. Vero. Ma in più quando si rivolgeva alle donne e agli uomini – agli italiani – che sentiva nell'intimo suoi fratelli, usava espressioni e concetti profondamente ebraici tanto quanto universali. Esattamente come faceva, per portare un altro esempio, il nostro amato preside di liceo (al Berchet di Milano), Joseph Colombo, in anni in cui essere guida rispettata di una gioventù alla scoperta del cambiamento e della ribellione non era una passeggiata. Ecco, io ho l'impressione che rav Toaff e il professor Colombo parlassero agli ebrei e ai non ebrei con la medesima forza e apertura, con uguale chiarezza, con la stessa universalità morale di rav Gilles Bernheim quando parla ai francesi, a tutti i francesi, o di rav Jonathan Sacks quando si rivolge agli inglesi, a tutti gli inglesi. Si domanda, e ci domanda, Guido Vitale: “Come mai, se è vero come è vero che il rabbinato e il mondo ebraico italiano pensano e discutono, la società percepisce allora così debolmente questo segnale?”. Temo che la risposta vera – la dobbiamo innanzittutto a noi stessi – stia in una sorta di autocritica generale. Noi ebrei italiani siamo divisi, e questo a volte non è un male, ci salva dal rischio del pensiero unico, tuttavia nella nostra differenziazione (di fede, di ortoprassi, di rito, di ideologia, di orientamento politico) non troviamo mai momenti di intensa unità, non ci sforziamo affinché prevalga ed emerga la nostra jewry. Il rabbinato svolge il proprio lavoro di guida e giudice halachico però, con le eccezioni del caso, è a mio parere autoreferenziale, chiuso, ondivago, attento a non scatenare nuovi conflitti di cui certo non si sente il bisogno e quindi – come dire? – un po' timido e discorde. Insomma – non si offendano i miei rabbanìm – un pochino vago, inafferrabile. In conclusione, l'autocritica per essere tale deve essere a 360 gradi, no? Allora diciamolo: per quanto riguarda l'informazione, fuori dall'ambito strettamente comunitario (non per piaggeria, voglio ripetere che Pagine ebraiche è stato ed è un eccellente passo verso la rivoluzione culturale di cui abbiamo bisogno), il punto di vista ebraico è pressoché muto. Un silenzio che ci interroga con severità.

Stefano Jesurum, Pagine Ebraiche, febbraio 2013

pilpul
Il Presidente e il suo lascito spirituale
In occasione dell'ultima edizione del Giorno della Memoria celebrato da Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ha ribadito in un bellissimo discorso che l'antisionismo é una forma mascherata di antisemitismo. Lo aveva già affermato alcuni anni fa, ma questa ultima sottolineatura ha valore, in tema, di lascito spirituale. Vale la pena ragionare su questa tesi e non farne un assioma, considerandone le implicazioni teoriche. Si puó essere antisionisti (cioé contro l'esistenza dello Stato d'Israele) e non antisemiti? In linea puramente astratta, sì. Ma all'atto pratico, no, sostanzialmente per tre ragioni: dichiararsi contro lo Stato d'Israele in quanto tale significa disinteressarsi alla sorte dei quasi sei milioni di ebrei israeliani, la più grande comunità del mondo, di cui non si spiega quale dovrebbe essere il destino (dispersi? deportati?); in secondo luogo l'antisionismo é contro gli ebrei perché assolutizza il conflitto israelo-palestinese, occupandosi solo di quello, mentre un diverso metro di giudizio viene applicato a tutti gli altri casi di ingiustizia e sofferenza nel mondo, a cominciare dalla vicina Siria; infine, sul piano statistico, chi si definisce antisionista avalla quell'insopportabile rovesciamento per cui gli israeliani di oggi sarebbero i nazisti di ieri, con i palestinesi calati nel ruolo delle vittime sacrificali della barbarie sionista. Un imbroglio vergognoso che fa perno su due equivoci: un confronto ovviamente improponibile, cioé quello tra le sofferenze dei palestinesi e quelle degli ebrei sterminati nella Shoah, e un'idea sbagliata per cui chi ha subito un'ingiustizia in passato deve essere più giusto oggi. Esattamente il contrario di quanto accade nella psicologia umana. Stabilito dunque, sulla scia del Presidente, che l'antisionismo va quindi combattuto con durezza, si puó e si deve dire tutto il resto: che le leadership israeliane si sono rivelate inadeguate e poco lungimiranti, e che i governi recenti non si sono impegnati sufficientemente in una soluzione del conflitto con i palestinesi. Che la pace va ricercata a ogni costo con gli interlocutori effettivamente disponibili, non i partner ideali che vorremmo. Tutto questo é vero. Ma non va confuso con posizioni ormai bandite dal dibattito democratico.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas  twitter @tobiazevi

Storie - Il cattivo tedesco e il bravo italiano
Il nostro Paese fatica a liberarsi dal mito del fascismo buono e del “bravo italiano”. Al di là delle esternazioni dell’ex premier Silvio Berlusconi (convinto peraltro di interpretare il pensiero della maggioranza), quel macigno del passato, che fu analizzato da David Bidussa già nel 1994, continua ad essere il punto di vista di milioni di italiani, dando linfa vitale tra l’altro ai movimenti che si richiamano a quei valori. L’idea che il fascismo sia stata una dittatura da operetta, i cui unici errori furono le leggi razziali e la partecipazione alla guerra, commessi peraltro solo per compiacere l’alleato Hitler, è molto più diffusa di quanto si pensi. Lo ha ribadito lo storico Fililppo Focardi in un saggio uscito lo scorso mese e intitolato “Il cattivo tedesco e il bravo italiano”, Filippo Focardi (Editori Laterza). La narrazione nazionale della memoria, osserva Focardi, contrappone il “cattivo tedesco”, violento, antisemita, brutale, al “bravo italiano”, generoso, pronto a prodigarsi nel salvataggio degli ebrei e nel soccorso dei civili. Tacendo, minimizzando o negando il coinvolgimento del popolo italiano nel fascismo e nella persecuzione razziale e le responsabilità del paese nelle guerre fasciste e nei suoi numerosi crimini. Negli ultimi anni la storiografia ha alzato il velo su diversi aspetti taciuti e rimossi, dalle responsabilità autonome dell’Italia nelle leggi razziali fino all’uso dei gas chimici in Etiopia e alle violenze dei militari italiani in Russia e nei Balcani. Ma i risultati di queste ricerche hanno prodotto, come rileva Focardi, “solo flebili effetti sull’opinione pubblica, toccata alla superficie”. E gli stessi manuali scolastici di storia ignorano il tema o lo trattano con sufficienza. Manca ancora una riflessione collettiva nazionale sul fascismo e sulle responsabilità e le colpe italiane. Il 17 novembre di quest’anno ricorre il 75° anniversario delle leggi razziste. Può essere l’occasione giusta?

Mario Avagliano
twitter @Marioavagliano

notizie flash   rassegna stampa
La storia di Giuliana Tedeschi
in un film di Daniele Segre
  Leggi la rassegna

Prosegue l'impegno di Memoria delle Comunità ebraiche del Piemonte. Ieri due importanti eventi: l'inaugurazione, all'archivio di Stato di Vercelli, della mostra visitabile fino al prossimo 14 febbraio 'Per non dimenticare: Storie di famiglia e persone al tempo delle leggi razziali italiane' che arriva al culmine di un periodo molto intenso e ricco di appuntamenti come l'inaugurazione della piazza in ricordo dei deportati a Trino Vercellese, gli incontri in Sala Foa e le iniziative in collaborazione con la Prefettura. E la proiezione a Torino, nel centro sociale comunitario, del film 76847 Giuliana Tedeschi con regia di Daniele Segre. Molto significativa la presenza di pubblico (nella foto).



 

Sulla Stampa, il corrispondente a New York Maurizio Molinari dedica un ampio approfondimento(che parte dalla prima pagina) agli “ebrei in fuga da Parigi a Manhattan”. Docenti, imprenditori, famiglie: il numero di coloro che lasciano la Francia cresce di giorno in giorno, di pari passo con gli episodi di intolleranza, principalmente di matrice islamica, che dall’inizio della Seconda Intifada ha conosciuto una allarmante escalation.















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