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5 febbraio 2013 - 25 Shevat 5773 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
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Otto per Mille - La stagione dei progetti | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
C'è tempo per tutto questo
mese di febbraio per sviluppare i progetti da finanziare con una quota
delle risorse provenienti dalla raccolta Otto per mille. Molteplici le
iniziative di interesse collettivo realizzate in questi anni con il
sostegno dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Dalla formazione
alla cultura, dal mondo della scuola alla tutela delle fasce più deboli
ed esposte. Senza dimenticare l'aiuto offerto alle popolazioni colpite
dal terremoto, la lotta al pregiudizio in ogni sua forma, la
salvaguardia del patrimonio artistico. Una stagione di impegno che è
possibile rinnovare grazie al contributo di numerosi cittadini che
guardano con attenzione e amicizia a questa minoranza e che hanno a
cuore principi irrinunciabili quali laicità, dialogo, pluralismo. Tra i
progetti finanziati negli ultimi mesi il seminario Una cultura in tante
culture, sfida dedicata ai temi dell'incontro e della coesistenza tra
diverse identità nelle aule delle scuole proposta per il settimo anno
consecutivo dall'Adei Wizo e arrivata lo scorso autunno sui luoghi del
sisma in Emilia Romagna. Significativo anche il sostegno all'azione di
monitoraggio contro il razzismo portata avanti da realtà consolidate su
questo fronte quali Osservatorio Articolo Tre di Mantova e Fondazione
Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano e il
contributo all'impegno profuso a Roma dalla Deputazione Ebraica per
aiutare gli anziani e chi è indigente. E ancora, oltre a varie
partnership culturali con notevole riscontro di pubblico e di consensi
(dal festival OyOyOy di Casale Monferrato alla rassegna cinematografica
romana Pitigliani Kolno'a Festival), i progetti sociali di recupero per
tossicodipendenti dell'associazione Diaconia a Scampia e in tutto il
territorio napoletano. Un'iniziativa, quest'ultima, volta a dare una
nuova opportunità a chi è finito nel tunnel della droga che vede gli
ebrei italiani al fianco della Tavola Valdese. Per accedere alla documentazione necessaria per richiedere il finanziamento dell'Otto per Mille UCEI clicca qui Per maggiori informazioni info@ucei.it |
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Israele - Tappeto rosso per la nuova Knesset |
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Molti ipotizzano che non
durerà a lungo, ma oggi i riflettori sono tutti puntati sulla cerimonia
di insediamento della diciannovesima Knesset nella storia
dello Stato
d’Israele. Tappeto rosso e fiori per i 120 deputati eletti lo scorso 22 gennaio, suddivisi in 12 partiti. Sono ben 49 i nuovi politici, un numero record, ha fatto notare all’indomani delle elezioni il Jerusalem Post, pari al 41 per cento dei seggi totali. E per assicurarsi che siano ben preparati ai compiti che li aspettano, negli scorsi giorni sono stati chiamati a frequentare un corso accelerato sul funzionamento del Parlamento, come racconta il Times of Israel. A tenerlo sono stati il presidente dell’attuale Knesset Reuven Rivlin e Binyamin Ben-Eliezer, 77 anni, veterano del Parlamento, in cui siede dal 1984. Tra i temi affrontati, le procedure legislative, ma anche le regole etiche che i membri della Knesset devono rispettare (per esempio è proibita la richiesta di farsi spostare in classi più alte sui voli). Record anche per la presenza femminile, il 23 per cento dei parlamentari insediati oggi sono donne, 27 in totale. Circa un terzo i deputati che dichiarano di condurre uno stile di vita religioso, mentre il 10 per cento degli eletti vive oltre la Linea verde, rispetto al 4 per cento del totale della popolazione israeliana. Sette infine gli immigrati: quattro dall’Ex Unione Sovietica, due dall’Etiopia e uno dagli Stati Uniti. Nel frattempo proseguono le trattative per la formazione del nuovo governo guidato da Benjamin Netanyahu. La stampa israeliana riferisce che gli sforzi in questo momento sarebbero concentrati sul convincere Tzipi Livni a farne parte. O, quanto meno, a garantire l’appoggio dei sei parlamentari del suo Hatnua. Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked |
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"Haredim, un mondo complesso" | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Sono
appena tornata da Israele dove sono rimasta tre settimane vedendo
numerose persone. Penso che possano interessare i lettori di Moked
alcuni dati che riguardano il mondo haredi apparsi in uno studio molto
accurato appena pubblicato ed eseguito dal dipartimento di geostrategia
dell’università di Haifa dal professor Arnon Soffer, dalla dottoressa
Li Kahaner e da Nicola Yuscoff. Secondo la ricerca il numero dei haredim nel mondo si aggira su 1 milione e 396mila di unità complessive di cui 800mila in Israele (13 per cento del totale della popolazione ebraica), 468mila negli Stati Uniti (8 per cento), 53mila in Gran Bretagna (20 per cento), 20mila in Belgio (60 per cento) e 25mila in Francia (5 per cento). Sono praticamente spariti i centri dei haredim in Russia a causa della politica del regime comunista, mentre l’88 per cento dei haredim nei numerosi nuclei che esistevano prima della seconda guerra mondiale in Polonia sono periti nella Shoah. La percentuale dei haredim che vivono in Israele è da anni tendenzialmente in aumento a causa dell’emigrazione e soprattutto per l’incidenza delle nascite che nell'ultimo decennio si è aggirata su 7.7-5.6 bimbi per donna in età fertile. I haredim israeliani si dividono fra hassidim (33 per cento), lituani (29 per cento), ortodossi sefarditi (21 per cento) per lo più influenzati dalla rigida scuola dei lituani. La maggioranza di loro abita a Gerusalemme e a Bnei Brak ma negli ultimi anni si è delineata una chiara tendenza, specie fra le giovani coppie, di stabilirsi altrove - anche in alcuni insediamenti - ma comunque preferibilmente dove sono in assoluta prevalenza numerica. La maggioranza dei haredim ashkenaziti è politicamente rappresentata dal piccolo partito Deghel Hatorah che ha sempre avuto i suoi membri nella Knesset mentre i sefarditi votano per lo più per Shas che rappresenta molti sefaradim ortodossi e non è numericamente assai più importante. I sefaradim ortodossi tendenzialmente non si chiudono in quartieri particolari. La numerosità della famiglia media e il fatto che una parte cospicua non lavora oppure per propria scelta lavora solo part time fa sì che il livello di vita medio dei haredim sia sotto la fascia di povertà anche se è presente un aiuto da parte dello Stato e in molti casi anche di sussidi privati. Non sono facili i rapporti fra i haredim, in minoranza, e la maggioranza dei “tradizionalisti” e soprattutto dei non praticanti perché i primi tendono a chiudersi nelle loro comunità seguendo le regole della halakhah mentre cercano di influenzare le leggi comunali e dello Stato ad esempio per quanto riguarda il servizio militare (dal quale per lo più sono liberi), l’imposizione della halakhah, l’osservanza dello shabbat, i programmi scolastici, la separazione uomini-donne, la kasherut. Il resto della popolazione in un modo o nell'altro insiste sullo Stato laico e sull’importanza decisiva della magistratura e sul diritto sostanziale di scegliere il proprio stile di vita. Questa è senza dubbio una delle fondamentali problematiche che i haredim e il resto della popolazione ebraica devono urgentemente affrontare per evitare il crescente divario fra gli uni e gli altri. La ricerca degli studiosi di Haifa parla di certe reciproche influenze fra le varie parti in cui si divide la popolazione ebraica israeliana che tuttavia, almeno fino ad oggi, si sono rivelate tutto sommato insufficienti. Hulda Liberanome |
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Dibattito aperto sui diritti civili alle coppie di fatto Superare i difetti di comunicazione per parlare alla società |
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Matrimonio
omosessuale, omoparentalità, adozioni. Temi di grande attualità cui il
numero di febbraio di Pagine Ebraiche in circolazione dedica quattro
pagine speciali. A confronto le voci di un rabbino e di tre
intellettuali. “Per quanto riguarda l'informazione, fuori dall'ambito
strettamente comunitario – scrive Stefano Jesurum, giornalista – il
punto di vista ebraico è pressoché muto. Un silenzio che ci interroga
con severità”. Nel commentare l'articolo di Ernesto Galli della Loggia su religioni, conformismo e matrimoni gay (Corriere della Sera, 30 dicembre 2012), Guido Vitale mi pare aver delimitato il campo della discussione a tre punti secondo me essenziali (l'Unione informa, 9 gennaio 2013). Scusandomi fin d'ora con il direttore di Pagine ebraiche per l'approssimazione della sintesi, dirò che il succo del suo argomentare mi trova assolutamente concorde: 1) non credo sia vero che l'ebraismo italiano e i suoi rabbini tacciano sui grandi temi civili; 2) non mi risulta che gli ebrei cosiddetti laici e con un profilo in qualche modo socialmente pubblico abbiano gettato alle ortiche la religione dei padri; 3) la società italiana non sembra essere – diciamo così – informata di quanto, appunto, in seno al pensiero ebraico nostrano, si discuta di grandi temi civili, etico-ideologico-politici. Senza annoiare il lettore con un riassuntino delle teorie di Galli della Loggia riguardo al nesso tra le prese di posizione di papa Benedetto XVI e quelle del gran rabbino di Francia Gilles Bernheim, vorrei invece soffermarmi sul terzo punto, cioè sulla “ignoranza” che accomuna numerosissimi – e spesso validissimi – intellettuali commentatori. Una questione cruciale poiché se il fior fiore dell'intellighenzia nulla o quasi sa delle riflessioni, delle prese di posizione, e talvolta delle diatribe che circolano nelle nostre kehillot in merito a questioni riguardanti l'esistenza nella modernità odierna – dall'omosessualità, appunto, all'omoparentalità, dal fine vita alla fecondazione assistita eccetera – questo è un problema che mi riguarda direttamente. Mi riguarda come ebreo, mi riguarda come cittadino, mi riguarda come giornalista/comunicatore. E naturalmente mi riguarda come cittadino giornalista ebreo. Le risposte, o se si preferisce le spiegazioni, all'interrogativo del perché il mondo che ci circonda sia così “ignorante” sono – io credo – molteplici ma non troppo complesse. Intanto è indubbio che gli ebrei italiani siano pochi, pochissimi se paragonati a realtà diasporiche come la Francia, il Regno Unito o l'America. Ergo non fanno notizia se non per lo più intorno al 27 gennaio, in occasione di atti di razzismo o in periodi di ebollizione mediorientale. Da questo dato discende la consapevolezza che, forse, più che raccontarci quanto la società sia disinformata, dovremmo serenamente iniziare a meditare sull'ipotesi che alla società italiana proprio non interessi ciò che pensiamo noi cittadini-ebrei e a maggior ragione che cosa pensano i rabbanìm. Insomma, manca la volontà di ascoltare o manca “l'interesse” a farlo? In periodi non certo lontani della storia contemporanea italica il Paese però interrogava, avvicinava, chiedeva un'opinione illuminante a figure come rav Elio Toaff. E soprattutto, dopo averlo ascoltato, lo capiva con il cervello, con il cuore, con la pancia. Si dirà: certo, rav Toaff era una tipica personalità del dopoguerra, era stato partigiano, parlava il linguaggio della giustizia e della libertà, la lingua della Resistenza, arricchendola di sapienza halachica. Vero. Ma in più quando si rivolgeva alle donne e agli uomini – agli italiani – che sentiva nell'intimo suoi fratelli, usava espressioni e concetti profondamente ebraici tanto quanto universali. Esattamente come faceva, per portare un altro esempio, il nostro amato preside di liceo (al Berchet di Milano), Joseph Colombo, in anni in cui essere guida rispettata di una gioventù alla scoperta del cambiamento e della ribellione non era una passeggiata. Ecco, io ho l'impressione che rav Toaff e il professor Colombo parlassero agli ebrei e ai non ebrei con la medesima forza e apertura, con uguale chiarezza, con la stessa universalità morale di rav Gilles Bernheim quando parla ai francesi, a tutti i francesi, o di rav Jonathan Sacks quando si rivolge agli inglesi, a tutti gli inglesi. Si domanda, e ci domanda, Guido Vitale: “Come mai, se è vero come è vero che il rabbinato e il mondo ebraico italiano pensano e discutono, la società percepisce allora così debolmente questo segnale?”. Temo che la risposta vera – la dobbiamo innanzittutto a noi stessi – stia in una sorta di autocritica generale. Noi ebrei italiani siamo divisi, e questo a volte non è un male, ci salva dal rischio del pensiero unico, tuttavia nella nostra differenziazione (di fede, di ortoprassi, di rito, di ideologia, di orientamento politico) non troviamo mai momenti di intensa unità, non ci sforziamo affinché prevalga ed emerga la nostra jewry. Il rabbinato svolge il proprio lavoro di guida e giudice halachico però, con le eccezioni del caso, è a mio parere autoreferenziale, chiuso, ondivago, attento a non scatenare nuovi conflitti di cui certo non si sente il bisogno e quindi – come dire? – un po' timido e discorde. Insomma – non si offendano i miei rabbanìm – un pochino vago, inafferrabile. In conclusione, l'autocritica per essere tale deve essere a 360 gradi, no? Allora diciamolo: per quanto riguarda l'informazione, fuori dall'ambito strettamente comunitario (non per piaggeria, voglio ripetere che Pagine ebraiche è stato ed è un eccellente passo verso la rivoluzione culturale di cui abbiamo bisogno), il punto di vista ebraico è pressoché muto. Un silenzio che ci interroga con severità. Stefano Jesurum, Pagine Ebraiche, febbraio 2013 |
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