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7 febbraio 2013 - 27
Shevat
5773 |
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Elia
Richetti,
presidente dell'Assemblea rabbinica italiana
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In esecuzione della mitzvah
della Torah di emettere le sentenze a maggioranza dei giudici, la
Halakhah prevede – sempre ricavandone la fonte nella Torah – che in
caso di parità il parere del Presidente del Sinedrio sia quello
prevalente. Dato che il numero dei giudici è sempre dispari, sembra
però impossibile che si venga a determinare una situazione di parità;
non solo, ma anche ammesso che il parere del Presidente sia quel voto
che determina una maggioranza, in alcuni casi (come nelle sentenze
capitali) la maggioranza per un voto solo non è sufficiente per
giungere ad una sentenza. La spiegazione è che si sta parlando del caso
in cui qualcuno dei giudici sia indeciso su quale posizione prendere;
in questo caso, dunque, secondo la Torà, prevale il parere del
Presidente, ossia, una volta che il Presidente ha espresso il suo voto,
non è lecito votare contro la sua posizione. In tal modo la maggioranza
non è più determinata da un solo voto di scarto, bensì da almeno due
voti. Tutto ciò potrebbe far pensare ad un’eccessiva influenza del
Presidente: se vota fra i primi, in pratica monopolizza il consesso,
perché a nessuno è lecito votare diversamente da lui. È questo il
motivo per cui la Halakhah stabilisce che il Presidente voti per ultimo
(ad esclusione di eventuali incerti), in modo da non condizionare il
voto altrui. A ben vedere, questo sistema, che denota un alto livello
di democraticità, garantisce pienamente l’autonomia dei giudici, ma
sembra contraddire alcuni convincimenti fondamentali: l’autorità dei
giudici, che sono i Chakhamim, è basata sull’autorità della Torah, che
ad essi è stata consegnata perché avessero il pieno potere di stabilire
le regole; anzi, ciò che decidono i Chakhamim a maggioranza viene
accettato in Cielo. Il garantire l’autonomia anche del meno esperto di
loro al punto da consentirgli di votare in modo che potrebbe essere in
opposizione a quello ancora non espresso dal Presidente, che è il più
esperto del consesso, sembrerebbe svuotare di autorevolezza qualsiasi
sentenza. La realtà non è questa. La concezione che la Torah ci vuole
trasmettere è che l’uomo ha anche il potere di determinare il
comportamento di Ha-Qadòsh Barùkh Hu, come dimostra quell’episodio
talmudico nel quale, assistendo alla disputa halakhica fra i Maestri,
Ha-Qadòsh Barùkh Hu sorride compiaciuto del fatto che la Torah sia da
loro vissuta come qualcosa di totalmente loro. Questa è la Torah che
abbiamo ricevuto nel lungo periodo di permanenza di Moshè sul monte
Sinai. Siamo ancora in grado di sentirla nostra in questa maniera, di
utilizzarla con modestia e sapienza come essa stessa ci indica?
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Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme
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Due
domande a Sharon Nizza. Il 24-25 febbraio hanno diritto al voto anche
gli Italiani all'estero, e fra questi circa ottomila residenti in
Israele che contribuiscono all'elezione di un senatore e di un deputato
per la circoscrizione Africa-Asia-Oceania-Antartide. La maggioranza di
questi elettori vivono in Australia e infatti i rappresentanti uscenti
sono l'onorevole Fedi e il senatore Randazzo, entrambi residenti in
Australia e entrambi del PD. Ora per la prima volta uno dei candidati
alla camera è un'Italiana residente in Israele: Sharon Nizza, una
giovane politologa laureata all'Università di Gerusalemme, sulla
trentina, attiva nella comunità locale, che negli ultimi anni è stata
assistente parlamentare dell'onorevole Fiamma Nirenstein (Fiamma questa
volta non si ripresenta). La via all'elezione non è semplice. Nella
circoscrizione concorrono solo quattro partiti: PD, PdL, Lista Monti, e
Movimento 5 Stelle. Ogni partito candida due persone, ma una sola può
essere eletta. Dunque, prima il partito deve ottenere il maggior numero
di voti rispetto agli altri, e poi il candidato deve ricevere il
maggior numero di preferenze rispetto al collega di lista. Sharon Nizza
concorre alla camera per il PdL, insieme a una candidata australiana.
La logica dichiarata della candidatura è quella di far udire la voce
degli interessi di Israele in un Parlamento italiano che si preannuncia
più ostile allo Stato ebraico rispetto a quello precedente. Chiarito
questo, vorrei rivolgere a Sharon due domande un po' provocatorie alle
quali spero vorrà presto rispondere su questa pagina. Può una
persona di provata cultura e identificazione ebraica, come Sharon,
concorrere alle elezioni nell'ambito di un'alleanza politica guidata da
un leader che il Giorno della Memoria si è lasciato andare ad
esternazioni confuse e nostalgiche nei confronti del ventennio
mussoliniano, alleanza di cui oggi fanno parte esponenti politici di
ispirazione esplicitamente fascista? Di quale Israele sarà la voce di
Sharon a Montecitorio? Di chi cerca di mantenere un canale
aperto al colloquio politico con il mondo occidentale e a una formula
di normalizzazione con i palestinesi (tenendo ben presenti gli storici
limiti della controparte), o di chi ritiene che una posizione militante
in Giudea e Samaria sia la priorità del paese a cui sono subordinate
tutte le altre?
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Israele - Il calcio, il razzismo e il vento che cambia |
Dopo
le polemiche, argomento di discussione sui media di mezzo mondo,
l'occasione propizia per voltare pagina e rendere gli stadi israeliani
“un posto migliore”. Con un lungo intervento apparso sul sito del
Jerusalem Post il giornalista Allon Sinai, firma principe della
redazione sportiva, interviene in merito agli striscioni razzisti
apparsi nella curva del Beitar, principale squadra cittadina, che nel
corso di un recente incontro di campionato aveva accolto con
l'espressione “il Beitar sarà per sempre puro” il ventilato acquisto di
due giocatori in forza al club ceceno Terek Grozny. Un colpo di
mercato, in quelle ore ancora non ufficialmente concluso, che aveva
suscitato malessere nei supporter più radicali per via del credo
religioso dei calciatori – Dzhabrail Kadiyev e Zaur Sadayev (nella
foto, il giorno della presentazione) – entrambi di fede musulmana. Striscioni
inquietanti, che avevano fatto indignare il presidente della Repubblica
Shimon Peres in persona e che erano stati largamente ripresi – anche se
con alcune gravi distorsioni, come ha scritto rav Roberto Della Rocca
in un suo commento – dalla stampa italiana e internazionale. Da allora,
ed è passata più di una settimana, sono successe molte cose. I fischi
contro il malcapitato Kadiyev da parte dei fan più estremisti del
Beitar, la folle esultanza di alcuni di loro per la sconfitta con il
Ramat HaSharon, pagine di social network imbrattate di parole e
violenza verbale. Un insieme di situazioni che hanno portato nuovamente
la tifoseria giallonera, già in passato protagonista di deprecabili
imprese a sfondo razziale, nell'occhio del ciclone e il pericolosissimo
nesso calcio-curve-politica, una piaga ecumenicamente diffusa nei
cinque continenti, al centro del dibattito. Così, sostiene
Sinai, d'ora in poi non sarà più possibile “chiudere un occhio” e la
campagna di sensibilizzazione contro il pregiudizio della dirigenza del
Beitar e di tutte le persone di buona volontà ripetutamente scontratesi
in questi anni con le frange più oltranziste dovranno diventare
presupposto di una battaglia comune per addetti ai lavori e tifosi. I
primi segnali si sono avuti con l'uscita pubblica di solidarietà dei
compagni di squadra dei due calciatori offesi e con altre
manifestazioni di affetto e solidarietà trasversali nel mondo della
politica e in tutta la società. Il vento, scrive il giornalista, sembra
cambiato. “Magari l'acquisto di Kadiyev e Sadayev avrà avuto
finalità diverse, slegate totalmente da un discorso di identità
religiosa o altro. Resta però il fatto che, grazie all'ultima
figuraccia – conclude – lo sport israeliano ha preso consapevolezza
della strada da percorrere”.
Adam Smulevich - twitter @asmulevichmoked
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Dibattito aperto sui diritti civili alle coppie di fatto L’imbarazzo del silenzio e quelle inauspicabili convergenze |
Matrimonio
omosessuale, omoparentalità, adozioni. Temi di grande attualità cui il
numero di febbraio di Pagine Ebraiche in circolazione dedica quattro
pagine speciali. A confronto le voci di un rabbino e di tre
intellettuali. “Nel caso dei diritti degli omosessuali – scrive Anna
Segre – i rabbini potrebbero essere spinti dalla tradizione a prendere
posizioni che potremmo definire di chiusura, ma esistono anche evidenti
ragioni storiche (pensiamo per esempio alla persecuzione comune da
parte dei nazisti) e ideologiche (abbiamo imparato che la negazione dei
diritti di qualcuno è pericolosa per tutti) che dovrebbero indurre
invece il mondo ebraico a pronunciarsi nella direzione opposta. Da qui
deriva forse l’imbarazzato silenzio dell’ebraismo italiano su questi
temi”.
Ho trovato l’articolo di Ernesto Galli Della Loggia pubblicato
sul Corriere della Sera del 30 dicembre 2012 molto interessante ma
anche profondamente disturbante, anzi, interessante proprio perché
disturbante: non intendo soffermarmi tanto sul tema di fondo (la
rivendicazione orgogliosa del diritto di negare i diritti di qualcun
altro, nel caso specifico delle persone omosessuali), già di per sé
molto discutibile, quanto su un altro aspetto, forse in sé secondario
ma che ci tocca da vicino: l’articolo include infatti un attacco duro e
astioso contro alcuni ebrei e il loro modo di vivere l’ebraismo. Il
processo di emancipazione-secolarizzazione degli ultimi due o tre
secoli sembra caricarsi di una connotazione negativa, come se con esso
gli ebrei avessero smarrito la propria vera identità - che per l’autore
dell’articolo può essere solo religiosa - o ne simulassero astutamente
una fittizia. È un dato di fatto che molti ebrei oggi, come negli
ultimi due o tre secoli, percepiscono il proprio ebraismo non tanto
come religione quanto come cultura, appartenenza, tradizione,
consapevolezza di una storia comune, e molte altre cose. Fatico a
capire perché questo debba dare così fastidio a Galli Della Loggia, ma
chi gli ha dato il diritto di decidere quale sia la “vera” identità
ebraica? Segue poi un attacco diretto contro l’“intellighenzia
d'origine ebraica, più o meno concorde nell'avvalorare implicitamente
l'idea — bizzarrissima ma molto ‘politicamente corretta’ — che in fin
dei conti l'ebraismo non sia neppure una religione. Ovvero lo sia, ma
così diversa da tutte le altre, così diversa, alla fine da non
esserlo!” A ben vedere questa idea bizzarra è comune in qualche modo a
tutte le religioni: ognuna si ritiene unica, non paragonabile alle
altre, logica e ragionevole, libera dal cumulo di superstizioni, regole
assurde, contraddizioni, da cui le altre sono invece gravate; anzi, a
volte ciascuno arriva a proclamare, con le più svariate argomentazioni,
che in fin dei conti la propria religione è la vera laicità (si possono
leggere e sentire discorsi del genere da parte di ebrei, cattolici e
protestanti). Casomai la bizzarria degli ebrei starebbe altrove: per
esempio nel fatto che molti pur dichiarandosi orgogliosamente laici, e
magari anche non credenti o decisamente atei, si ritrovano spesso a
compiere azioni che appaiono specificamente religiose: recitano
benedizioni, digiunano, non mangiano pane per otto giorni, eccetera;
credo di non aver mai conosciuto tra le persone della mia generazione
una coppia di ebrei che abbia celebrato solo il matrimonio civile: la
cerimonia ebraica con tutte le benedizioni del caso sembra a tutti noi
l’unica appropriata anche per chi non è minimamente religioso. Perché
tutto questo? Può essere il senso di appartenenza al popolo ebraico, la
fedeltà a una storia millenaria e la volontà di esserne parte, il
desiderio di tener vive le tradizioni della propria famiglia e della
propria comunità; oppure possono entrare in gioco motivazioni più
“ideologiche”, per esempio la rivendicazione del diritto alla diversità
in sé, cioè l’idea che le specificità culturali siano salutari per la
società nel suo complesso. La difesa di un’identità di minoranza porta
poi inevitabilmente ad opporsi alla pervasività della religione
maggioritaria in ogni ambito della vita pubblica. Galli Della Loggia si
chiede perché in Italia il bersaglio delle critiche sia stato
essenzialmente il cattolicesimo. Forse semplicemente perché in Italia è
essenzialmente il cattolicesimo a voler dettar legge in tutti i campi.
Nel nostro paese la sproporzione numerica tra i cattolici e tutti gli
altri ha portato a ridurre il dibattito alla dicotomia cattolici-laici,
con gli ebrei e gli esponenti di altre minoranze religiose spinti
inevitabilmente al fianco dei laici da numerosi e oggettivi interessi
comuni: basti pensare, tanto per fare un esempio, alle battaglie per la
laicità della scuola pubblica. Veniamo al punto forse più astioso di
tutto l’articolo: Galli Della Loggia rimprovera all’ebraismo (rabbini
compresi) di non aver preso parte al dibattito su temi che in qualche
modo coinvolgono la fede religiosa, come l'ingegneria genetica,
l'eutanasia o appunto il matrimonio tra persone dello stesso sesso: “è
come se l'ebraismo fosse disceso nelle catacombe tanto la sua voce è
tenue o assente”. Mi pare un giudizio ingeneroso: tenendo conto dei
numeri e delle proporzioni non vedo come l’ebraismo potrebbe far
sentire la propria voce più di così; anzi, molte volte siamo fin troppo
visibili. In alcuni casi, però (per esempio sulle cellule staminali) il
punto di vista ebraico è diverso da quello cattolico, a volte opposto.
In altri casi i rabbini e gli ebrei in generale hanno tenuto ben
presente la distinzione (che Galli Della Loggia sembra ignorare) tra
ciò che è vietato per l’ebraismo e ciò che vogliamo sia vietato a tutti
indipendentemente dalle loro idee e appartenenze religiose. Nel caso
dei diritti degli omosessuali, i rabbini potrebbero essere spinti dalla
tradizione a prendere posizioni che potremmo definire di chiusura, ma
esistono anche evidenti ragioni storiche (pensiamo per esempio alla
persecuzione comune da parte dei nazisti) e ideologiche (abbiamo
imparato che la negazione dei diritti di qualcuno è pericolosa per
tutti) che dovrebbero indurre invece il mondo ebraico a pronunciarsi
nella direzione opposta. Da qui deriva forse l’imbarazzato silenzio
dell’ebraismo italiano su questi temi. Non so se e quando ne usciremo,
ma se prendessimo posizione dubito (e personalmente non mi auguro) che
ci esprimeremmo nella direzione auspicata da Galli Della Loggia.
Anna Segre, Pagine Ebraiche, febbraio 2013
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Lamberto Perugia 1927-2013
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“Voglio
esprimere il cordoglio mio personale e quello delle Comunità ebraiche
per la scomparsa di Lamberto Perugia". Con queste parole di dolore il
Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna
ha espresso la partecipazione dell'ebraismo italiano di fronte alla
scomparsa del professor Lamberto Perugia. "Medico ortopedico di fama
internazionale – ha aggiunto Gattegna – ideatore e fondatore della
celebre 'Scuola di chirurgia del ginocchio', Perugia aveva voluto
proiettare le sue capacità anche all'interno del mondo ebraico,
arrivando ad assumere l'incarico di presidente della Fondazione Beni
Culturali Ebraici. Costretto a subire l'infamia delle persecuzioni
razziste, reagiva a qualsiasi sfida con grinta e tenacia. Un modo di
affrontare la vita che gli ha sempre permesso di guardare avanti,
superare gli ostacoli e affermarsi sia professionalmente che
umanamente. Ci legava un sentimento di profondo rispetto e amicizia.
Che il suo ricordo sia di benedizione”. L'illustre ortopedico è
morto ieri all'età di 86 anni a Roma dove era nato nel 1927 da una
delle famiglie ebraiche più note e antiche della Capitale. Aveva
studiato fino al 1938 al liceo Giulio Cesare e poi a causa delle leggi
razziste che lo costrinsero ad abbandonare la scuola proseguì gli studi
nelle scuole israelitiche fino al 7 settembre 1943, quando suo padre,
ebreo e antifascista, con tutta la famiglia cercò di abbandonare Roma
fino a trovare rifugio a Civita D'Antino. E proprio a Civita D'Antino
sognava di tornare per donare una targa in segno di riconoscenza nei
confronti di coloro che avevano aiutato la sua famiglia. Poi al termine
della guerra aveva completato gli studi liceali e si era laureato alla
Sapienza in Medicina e chirurgia. Un mese fa, nel partecipare come
relatore alla presentazione del libro di Mario Pacifici Una cosa da
niente, aveva ricordato il senso di disagio e di rabbia che aveva
provato quando a un esame universitario fu interrogato proprio da quel
Nicola Pende che era fra i firmatari del Manifesto degli scienziati
razzisti e che caduto il fascismo fu prontamente reintegrato
nell'incarico. Per anni titolare della cattedra di Ortopedia e
direttore della Scuola di specializzazione dell’Università La Sapienza,
Perugia ha rappresentato l’Italia nell’Unione europea dei medici
ortopedici, è stato presidente della Società italiana di ortopedia e
traumatologia, presidente della Società italiana di chirurgia della
spalla e del gomito e ha creato una famosa scuola di chirurgia. Era
anche uno sportivo appassionato, in gioventù aveva giocato a
pallacanestro con la Lazio, ma molti lo ricordano anche per il suo
impegno professionale con la As Roma Calcio negli Anni Ottanta. “Spero
che venga ricordato per essere stato il padre della traumatologia dello
sport, ma soprattutto per essere stato maestro di vita e di onestà” ha
detto suo figlio Dario, ortopedico, professore associato dell'ospedale
Sant'Andrea e presidente della sezione romana dell'Associazione Medica
Ebraica. Alla signora Anna, ai figli Dario e Gioia e a tutti i suoi
cari i sentimenti di affetto e di amicizia della redazione.
Lucilla Efrati twitter @lefratimoked
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Renzi e gli amici
scomparsi |
Noti per avere raramente finito
una guerra al fianco dei popoli con cui da alleati l'avevamo iniziata,
noi italiani continuiamo anche nelle “piccole cose”, imperterriti sulla
lineare strada di una lealtà ritagliata a nostra misura. Dopo un
entusiasmo come non si registrava da tempo, i renziani, intesi come
sostenitori del sindaco di Firenze, si sono squagliati. L'ho notato
perché il fenomeno ha in parte riguardato – strano, trattandosi di
attivismo politico – pure il mondo ebraico. Dopo il can can
oggettivamente insolito che ha visto partecipare all'agone delle
primarie del Partito democratico frotte di neo-simpatizzanti (?), è
calato un ingombrante silenzio. Pier Luigi Bersani ha vinto, Matteo
Renzi ha perso con onore. Mentre lo sconfitto dimostra di essere, oltre
che persona per bene, un politico solido con statura da futuro
statista, i suoi molti, moltissimi ex fan letteralmente spariti non
danno di sé una bella immagine.
Stefano Jesurum, giornalista
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Esoneri |
L’esonero di Zdenek Zeman dalla
panchina della Roma ha un significato che va oltre i campi di gioco. Un
po’ Hegel per il suo idealismo e un po’ Kant per il suo rigore morale,
Zeman nel calcio di oggi rappresenta qualcosa di più di un semplice
allenatore. Sarà per le sue battaglie o per la sua filosofia
di gioco, ma in tanti e di generazioni diverse si sono identificate in
questo uomo. La sua lotta contro un sistema arbitrale corrotto, il suo
impegno contro il doping nel calcio sono solo degli esempi del
tentativo di riportare un po’ di etica in una società che sembra averne
persa e in un calcio che non sembra averne mai avuta. Eppure Zeman non
è stato solo questo. Il suo 4-3-3 è ancora il simbolo di uno schema che
diventa filosofia di vita; in cui lo scopo non è la difesa ad oltranza,
ma la ricerca dello spettacolo e del divertimento. La filosofia di chi
crede che nel calcio, come nella vita, il risultato sia casuale, ma la
prestazione no. Ma Zeman ha pagato proprio questo, la mancanza dei
risultati, la cui causa, forse, è proprio il suo idealismo sfrenato che
non scende a compromessi. Se però è vero che l’intelligenza
non fa rima con l’ostinazione, lo è altrettanto il fatto che su alcune
cose non si può fare marcia indietro. Ed è per questo che a noi,
inguaribili sognatori, Zeman mancherà, insieme al suo coraggio e alla
sua voglia di proporre qualcosa di diverso. Certi che prima o poi,
insieme allo spettacolo, arriveranno anche i risultati a testimonianza
che la dura cervice non è quasi mai un difetto.
Daniel Funaro
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notizieflash |
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rassegna
stampa |
Israele - Boom del turismo romano
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Leggi la rassegna |
Molti
gli argomenti all’ordine della conferenza stampa che si è svolta a Tel
Aviv, in occasione della missione istituzionale di Roma Capitale.
L’ambasciatore italiano a Tel Aviv, Francesco Maria Talò, ha aperto le
porte della propria residenza per favorire l’incontro tra Roma Capitale
e i suoi operatori turistici con le istituzioni e il mondo del turismo
israeliano. Antonio Gazzellone, delegato del sindaco Alemanno al
turismo, sarà presente anche alla International Mediterranean Tourism
Market nella convinzione che i forti legami tra Roma e la comunità
ebraica internazionale "siano un elemento importante anche in termini
di sviluppo di nuovi flussi turistici verso la capitale". Il turismo
romano in Israele, secondo gli ultimi dati, continua a crescere.
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Arrestati
a Roma altri tre ultra responsabili delle violenze a Campo de'Fiori. La
Digos, sollecitata dai giornalisti, esclude che nell'assalto “ci fosse
la matrice antisemita ipotizzata a caldo dalla stampa” (Messaggero).
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
che fossero interessati a offrire un
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