“Andartene via di sabato pomeriggio,
proprio all'uscita dello Shabbat in cui noi ebrei leggiamo il testo dei
dieci comandamenti, nonna, è solo l'ultima delle attenzioni che hai
mostrato a noi ed alle cose importanti che guidano la nostra vita. Da
musicista, come dice sempre mio padre, hai saputo, con il tuo senso
dell' armonia e del ritmo, scegliere un momento che ci trovasse tutti
insieme anche per questo. Non te ne sei andata lo scorso anno, mentre
ero in America a perfezionare gli studi, o in Israele. Me lo avevi
promesso e, come sempre, hai mantenuto. Già ieri, chissà se te lo
saresti aspettato, giornali e televisioni hanno ripercorso la tua vita
densa di impegni e successi, dagli anni dell' antifascismo alla
presidenza Ucei, dall'esilio in America alla commissione d' inchiesta
sui crimini commessi dai militari italiani in Somalia. Lo stesso
percorso che tu ed io, di fronte ai pranzi squisiti che cucinavi, tra
risate e qualche volta anche lacrime, abbiamo fatto qualche anno fa per
pubblicare il nostro libro”.
Con queste parole, pubblicate sul Corriere della sera all'indomani
della scomparsa, Nathania Zevi rendeva omaggio alla straordinaria
figura della nonna, Tullia Zevi, protagonista alcuni anni prima del
saggio, vero e proprio passaggio tra generazioni di valori e memorie
familiari, 'Ti racconto la mia storia'. Una storia appassionante,
proiettata nel mondo ebraico e in tutta la società italiana, che viene
ricordata questo pomeriggio alle 19 al centro culturale Pitigliani di
Roma con un concerto di musiche sefardite e con le testimonianze, tra
gli altri, del presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Renzo Gattegna e del presidente del Pitigliani Ugo Limentani.
Il concerto, intitolato Aman Sepharad, ha come interpreti Arianna Lanci
(canto), Sara Mancuso (arpa, clavicytherium, organo portativo) e Marco
Muzzati (salterio, percussioni).
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Qui
Torino - Rabbini a confronto sul futuro delle Comunità
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Sala
gremita al centro sociale della Comunità ebraica di Torino per il
convegno “Quale comunità per gli ebrei italiani del XXI secolo?”
organizzato dal Gruppo di Studi ebraici. Chiamati a discuterne, tra gli
altri, diversi rabbanìm, partendo dai differenti background. Al centro
dei loro interventi, varie sfumature del rapporto tra ebraismo e
modernità e delle sfide con cui si devono confrontare le kehillot del
nuovo millennio.
Ad aprire la sessione mattutina moderata dal presidente del Gruppo
Franco Segre, dopo il saluto del presidente della Comunità Beppe Segre,
è stato l’intervento del rabbino capo della città Eliahu Birnbaum. “Se
un tempo la Comunità costituiva un elemento di protezione per gli ebrei
nei confronti della società pubblica, il loro anello di congiunzione
con lo Stato, oggi il mondo è cambiato, e questo modello è stato
superato - ha spiegato il rav – Oggi, nel chiederci quale tipo Comunità
perseguire, dobbiamo tenere a mente che il nostro futuro non è mai
scontato, ma ciascuno di noi ha il compito di impegnarsi per
garantirlo: a mio parere, questo passa per la sfida di rendere la
Comunità un istituto maggiormente inclusivo, capace di avvicinare
coloro che ne rimangono oggi lontani”. Una delle sfide messe in risalto
dai vari interventi per l’ebraismo italiano è quella di aprirsi al
rapporto con le realtà di altri paesi. Anche in questa prospettiva, rav
Pierpaolo Punturello ha offerto un approfondimento sull’identità modern
orthodox, capace di offrire una sintesi fra tradizione e realtà
contemporanea. E una diretta applicazione della capacità della visione
ebraica di fornire spunti per problematiche moderne è stata spiegata
dal rabbino capo di Modena Beniamino Goldstein, che si è concentrato
sul problema dell’approccio ebraico alle tematiche del diritto del
lavoro e dei lavoratori.
Rav David Sciunnach ha invece affrontato il tema del pluralismo
all’interno delle Comunità ebraiche, spiegando la ricchezza che offre
il confronto fra tradizioni diverse, ma mettendo anche in guardia dal
rischio di perdere o sbiadire la propria identità, come è successo,
sotto molti aspetti, alla tradizione ebraica italiana in parte
assorbita da quelle ashkenazite e sefardite. Un rischio che viene
scongiurato solo costruendo identità forti grazie allo studio e
all’approfondimento. A concludere la mattinata è stato poi il rabbino
capo di Padova Adolfo Locci, che si è concentrato sul rapporto tra il
rav e la kehillah. “Partiamo dal presupposto che molti dei problemi di
cui discutiamo non sono soltanto condivisi da numerose altre realtà
ebraiche nel mondo, ma esistono da molto tempo anche nell’ambito delle
nostre Comunità - ha ricordato il rav – E’ importante capire che il
rabbino e la Comunità sono insieme corresponsabili di portare avanti la
Torah e i suoi precetti. È finito il tempo in cui il rav rappresenta la
figura cui la Comunità delega l’osservanza delle mitzvot”.
Nel pomeriggio previsti gli interventi di rav Michael Ascoli, del
maskil Gadi Piperno e della rabbanit Renana Birnbaum, in un incontro
introdotto da Dario Disegni, presidente della Fondazione
Margulies-Disegni e, a conclusione della giornata, la tavola rotonda
“L’ebraismo italiano e le sfide del nostro tempo: la parola ai
giovani”, coordinata da Sarah Kaminski con la partecipazione tra gli
altri del presidente dell’Unione giovani ebrei d’Italia Susanna
Calimani.
Rossella Tercatin - twitter @rtercatinmoked
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Qui Roma - Borse di studio all'Ufficio stampa
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Due
figure di supporto al portavoce nell’attività di rassegna stampa,
stesura di comunicati, aggiornamento del sito web e dei social media,
monitoraggio delle agenzie, relazioni con gli addetti alla
comunicazione delle testate giornalistiche. È quanto richiede la
Comunità ebraica di Roma con un bando di collaborazione diffuso nelle
scorse ore. Tra i requisti richiesti diploma di scuola media superiore;
iscrizione a una Comunità ebraica riconosciuta dalla Comunità di Roma;
esperienze nel campo delle comunicazioni, preferibilmente in quello
giornalistico; età non inferiore ad anni 18; ottima conoscenza della
lingua italiana; buona conoscenza della lingua inglese o dell'ebraico;
cittadinanza italiana (elemento non richiesto per i cittadini di uno
degli Stati membri dell’Unione Europea); godimento dei diritti politici
e civili. Lo stage avrà durata di sei mesi e si svolgerà
prevalentemente all'interno dell'Ufficio stampa. Allo stagista sarà
riconosciuta una borsa di studio. Termine ultimo per la presentazione
dei curricula lunedì 25 febbraio.
Per maggiori informazioni è possibile inviare una mail a
ufficio.stampa@romaebraica.it
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Sharon Nizza: "Ecco perché mi candido"
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Rispondo alle domande dell’articolo di Sergio Della Pergola.
Francamente non capisco la ragione dello scandalo circa la mia
candidatura: nel programma del Pdl non vi è mai stato alcun atto che
possa essere tacciato di antisemitismo; c’è sempre stata una piena
collaborazione tra le comunità ebraiche e i governi o amministrazioni
guidate da questo grande partito; inoltre le relazioni tra Italia e
Israele, sotto la guida di Berlusconi, sono migliorate sotto ogni
aspetto. Mentre l'ostilità a qualunque governo israeliano caratterizza
una parte consistente del centrosinistra. Un eventuale governo di
sinistra vedrà probabilmente Massimo D'Alema come ministro degli
Esteri, immortalato pochi anni fa a braccetto con esponenti di
Hezbollah. L’unica volta in cui un rappresentante di questa
circoscrizione, il senatore uscente Nino Randazzo (Pd), si è espresso
su Israele era per condannare la reazione israeliana alla flottiglia e
per sminuire il pericolo dei razzi da Gaza.
Ogni schieramento ha le sue pecche. Il pericolo si combatte non
delegittimando una parte politica, bensì cercando di costruire una
destra e una sinistra moderne e liberali in cui convivano ideali
diversi e all’interno dei quali si possano portare avanti battaglie
universali. Il Pdl e il Pd in Italia cercano di andare in questo senso.
Se eletta, come ho avuto modo di dire a Repubblica
condannando le affermazioni di Berlusconi nel Giorno della Memoria, la
mia presenza in Parlamento rappresenterebbe una garanzia in più contro
il riaffiorare di sentimenti nostalgici e dell'antisemitismo oggi,
anche perché non si può più scindere l’attacco demonizzatore verso
Israele dal risorgere dell’antisemitismo in Europa (vedi Tolosa 2012).
Alla prima domanda di Della Pergola rispondo quindi: sì, un ebreo può
far parte dell’alleanza politica radunata attorno al Pdl e fare anche
un ottimo lavoro, come è stato nel caso di Fiamma Nirenstein (sue le
iniziative del Comitato Parlamentare sull’Antisemitismo e la mozione
che ha richiesto il ritiro dell’Italia dalla Conferenza di Durban 2).
Quanto alla seconda domanda (quale Israele rappresenterei in
Parlamento): non sono candidata alla Knesset, ma al Parlamento
italiano, per rappresentare oltre 190,000 italiani residenti nella
circoscrizione, di cui circa 11,000 in Israele (la terza comunità
italiana dell’area). Ho accettato questa grande sfida – che presenta
buone chance, come dimostra il sostegno che sto ricevendo da tutti i
Paesi della circoscrizione – con lo spirito di una persona da sempre
molto militante in diversi settori, dalle battaglie civili
transnazionali del Partito Radicale in cui mi sono sempre riconosciuta,
a quelle per aprire un varco nell’oblio mediatico sul conflitto in
Darfur, dal sostegno alle voci moderate nel mondo dell’Islam politico,
alla difesa delle minoranze e delle libertà fondamentali
dell’individuo, brutalmente calpestate in molte aree di questa vasta
circoscrizione. E’ questa la “logica della mia candidatura” e questi
sono alcuni degli argomenti che intendo promuovere. Spiegare le ragioni
di Israele significa difendere i valori della democrazia e dello stato
di diritto e per questo è una battaglia del tutto allineata a quelle
menzionate. Va tenuto bene a mente che il prossimo Parlamento vedrà una
forte presenza di partiti (Movimento 5 Stelle) molto ostili a queste
ragioni, rendendo il mio impegno necessario, uno dei motivi per cui ho
accolto l’offerta arrivatami dal Pdl, l’unico partito ad aver proposto
per la prima volta un candidato residente in Israele.
Sharon Nizza, Gerusalemme
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Se il popolo non c'è subentra il populismo
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Due
parole si impongono sulla nostra newsletter per un paio di questioni
che anche se non hanno a che fare direttamente con l’ebraismo e gli
ebrei come tali chiamano tuttavia in causa ognuno dei lettori in quanto
cittadini di questa Repubblica. Nei giorni scorsi, durante un’assemblea
di partito, una donna, precaria da molti anni e, prevedibilmente,
condannata ad esserlo anche nel futuro, è intervenuta raffrontando la
sua sofferta condizione a quella di un’altra persona, figlia di un
senatore di quella stessa formazione politica e noto giuslavorista. Di
quest’ultima ha stigmatizzato la condizione professionale, ritenuta il
risultato di un privilegio e imputandole quindi la colpa di godere di
tale invidiabile situazione non grazie al merito personale (che nel
nostro paese è una chimera bella e buona, una parola d’ordine evocata
come un ectoplasma nelle campagne elettorale o quando si è nella
necessità di imporre tagli ai servizi pubblici) bensì in virtù del
risultato del nepotismo familistico. In altre parole, con una sorta di
pesante apprezzamento, tale perché indirizzato verso una persona
indicata con nome e cognome dinanzi ad un ampio uditorio, secondo una
prassi che sembra rinviare, anche se inconsapevolmente, alla messa in
stato d’accusa al cospetto del “tribunale del popolo”, si è posto al
pubblico ludibrio l’esempio di una “privilegiata” da fare oggetto di
ostracismo morale e civile. Una sorta di gogna pubblica (e mediatica).
La stessa accusatrice, interpellata dopo le numerosissime critiche
piovutele addosso, ha poi rincarato la dose, indicando nel fatto che
l’accusata avesse cercato di spiegare la sua reale posizione
professionale su un social network come un ulteriore indice di
colpevolezza. Nelle stesse ore, un operaio edile sessantenne, privo di
lavoro, quadro sindacale, si suicidava dopo avere lasciato una
straziante lettera di congedo, avvolta nel testo della Costituzione. Si
era rivolto al Presidente della Repubblica, al segretario del suo
sindacato, aveva continuato fino all’ultimo a lottare e a sperare ma
poi, come sopraffatto da un male incurabile, è letteralmente caduto sul
campo di battaglia, quello di un lavoro che non c’è più (e che per
molti non ci sarà, neanche nel futuro a venire). Cosa c’entrano queste
cose tra di loro? Tanto, molto più di quanto si sia disposti a pensare.
Si interfacciano, essendo infatti i due volti di una medesima medaglia.
Da una parte c’è un'Italia che affonda, nella sostanziale indifferenza
di quella restante; dall’altra c’e un'Italia che sentendosi affondare
si consegna all'invettiva come ultima risorsa, in ciò forse
disponibile, se si dovessero creare le condizioni, ad una qualche
avventura politica, non importa con quali rischi propri e altrui. La
morte di un lavoratore disoccupato per mano propria, nella sua
disperata solitudine, è una tragedia che ci interpella, trovandoci
sostanzialmente silenti. La mancanza di conflitto sociale, quand'esso
scorra sui binari della legittima rivendicazione e della
contrattazione, si trasforma da subito anche nell'assenza di empatia
umana, di identificazione nel destino dell'altro. Ognuno ridotto a sé,
sempre più prossimo ad una sorta di "nuda vita", scarnificato da una
possente ideologia dei "mercati" che assomiglia alla scienza degli
indovini e alle pratiche contenitive e sanzionatorie dei vecchi
manicomi. La società si riduce a quella cosa lì, darwinisticamente
intesa, dilacerata tra sommersi e salvati, due categorie che si
attagliavano ai Lager ma che, per traslazione, assumono un valore
comune, condiviso anche in altre situazioni, laddove la radicalità
della condizione di certe persone, che equivale anche al loro
isolamento (e alla loro potenziale morte), viene messa in luce. Quanto
alla seconda faccia, la critica alle élite intesa meramente come
legittimo tumulto del "popolo", è una forma di falsa coscienza tra le
peggiori che esistano. Rinvia non alla rivendicazione della
cittadinanza sociale - e quindi alla redistribuzione della ricchezza
collettiva - ma alla angosciata invidia come motore della
mobilitazione. Di fatto è un paradossale elogio dello status quo, in un
paese dove l’ascensore sociale non solo si è da almeno vent’anni rotto
ma ha iniziato da tempo a funzionare all’ingiù, proiettando il ceto
medio verso il basso. Disperato isolamento per mancanza di lavoro, e
quindi per la perdita del senso della dignità – cosa che il suicida
andava denunciando a piè sospinto, dinanzi ad una società
autisticamente ripiegata su di sé – , e rabbiosa impotenza, trasformata
in attacco personale contro il “privilegio” del singolo, si tengono
insieme come sintomi di un malessere profondo e atavico. Quello della
deriva populistica, che si alimenta costantemente non della critica
consapevole e condivisa della miseria del quotidiano ma della
sentenziosità di chi ritiene di potere additare la persona come
simulacro da colpire (e magari anche da abbattere). Tra il suicida e la
vituperata allora intercorre un nesso, quello della de-umanizzazione.
C’è molta rabbia, in giro, ed invito a coglierne la minacciosa
carsicità con la quale si manifesta sempre più spesso. Se le cose
dovessero peggiorare temo che antichi refrain mentali di consolidati
luoghi comuni, tra cui anche l’impronunciabile – ancora al momento –
antisemitismo, potrebbero riacquistare legittimazione. Aggiungo, a
beneficio mio e di chi mi legge, che i divari incolmabili che si sono
creati tra noi e "loro", comprendendo nel secondo pronome quanti
sembrano osservare con distacco gli infiniti problemi in cui si
dibattono molte famiglie italiane, non dovendosene fare carico alcuno,
non potranno essere superati con il ricorso all'invettiva del "popolo
sovrano", quello che viene evocato da chi lo sta espropriando di ogni
prerogativa reale. Comprendo il disagio della lavoratrice precaria,
quello della non più giovane “figlia di papà”, additata ad esempio del
privilegio e, soprattutto, la tragedia del muratore trapanese. Non ho
grandi risposte: so soprattutto come non se ne può venire a capo,
ovvero perseverando in atteggiamenti che concorrono sempre di più a
scavare il solco tra chi ha e chi non ha. Chi sta sotto non sempre è
peraltro alieno da responsabilità, a tale riguardo. Consegnarsi alle
scorciatoie vuol dire perdere la strada e, soprattutto, non saper più
quale sia la meta da raggiungere. Questo è poco ma certo, in un momento
in cui non sappiamo ancora bene cosa fare ma dobbiamo capire
innanzitutto cosa non deve essere fatto.
Claudio
Vercelli
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Nugae - Flavio Giuseppe
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A
parte essere stato il colpevole di un grazioso blocco di fotocopie da
tradurre per l’esame di storia romana, dal corso monografico, ebbene
sì, sull’antigiudaismo, Flavio Giuseppe fu uno storiografo ebreo
vissuto nel I secolo e.v., la cui opera costituisce oggi l’unica
documentazione superstite delle guerre fra Roma e la Giudea. In questi
giorni esce una sua biografia dal titolo A Jew Among Romans, dello
scrittore, giornalista e sceneggiatore inglese Frederic Raphael. E in
effetti Joseph Ben Matitiahu, questo il suo vero nome, ne ha
combinate di tutti i colori. Rimasto ammaliato in un viaggio in
gioventù dai fasti della Roma imperiale, questo abitante della piccola
provincia della Giudea, allora agitata da conflitti interni fra i vari
gruppi in cui gli ebrei erano divisi, sosteneva che contro una tale
potenza fosse impossibile ribellarsi e aveva anche cercato di impedirlo
quando fu nominato comandante delle truppe in Galilea. Alla fine la
rivolta ci fu, ma fu anche repressa nel sangue. Per farla breve, messo
dai romani nella condizione di dover scegliere se morire per i propri
ideali o consegnarsi, Joseph non ebbe dubbi. Dopo aver tentato di
convincerli a non farlo, mentre i suoi soldati si toglievano la vita
l’un l’altro pur di non cedere all’empio nemico, lui s’intratteneva con
l’allora comandante Vespasiano, raccontandogli di aver ricevuto una
profezia dal suo Dio secondo la quale sarebbe un giorno diventato
imperatore di Roma. Così Joseph diventò protetto di Vespasiano e per
fortuna l’azzardo si avverò. E anziché come prigioniero fu accolto
nella capitale dello stesso impero che distruggeva il suo popolo e la
sua terra con tutti gli onori, e con il suo nome nuovo fiammante, Titus
Flavius Iosephus, passò il resto della sua vita a scrivere opere in
difesa degli ebrei e dell’ebraismo. Raphael addirittura lo dipinge come
una sorta di intellettuale ebreo della diaspora ante litteram, che come
a metà fra due culture trova la sua identità nella scrittura. Ma a
prescindere da quanto sia fondata quest’ipotesi, e anche dal suo valore
di uomo e del suo apporto alla storiografia, Flavio Giuseppe per i rari
esemplari di studenti ebrei di lettere antiche ha qualcosa di speciale,
c’è una sorta d’implicito affetto, come per un vecchio zio. Perché è
l’unico che, con quelle tanto familiari letterine greche, racconta un
pezzo di se stessi.
Francesca
Matalon, studentessa di lettere
antiche twitter @MatalonF
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Sorgente
di Vita - Un Nabucco insolito |
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Il Nabucco di Giuseppe Verdi alla Scala di Milano in un’edizione
particolare apre la puntata di Sorgente di vita di domenica 10
febbraio: una scenografia moderna ed essenziale per un allestimento
insolito che evoca le tragedie e le persecuzioni del Novecento.
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Diritti degli omosessuali, tolleranza religiosa, futuro dell'Europa
delle molte identità e culture. Sono tematiche ricorrenti sui giornali
oggi in edicola in prosecuzione di un intenso dibattito sviluppatosi in
questi giorni e nelle scorse settimane.
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L'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che incoraggiano la
conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli articoli e i
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