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  10 febbraio 2013 - 30 Shevat 5773
l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
alef/tav

Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino

Il Sinedrio, indica il commento di Rashi sul primo verso della Parashà di ieri, aveva la sua sede nel Santuario. Il Maharal vede in questo una convergenza di funzioni: il tribunale ricompone i conflitti tra uomini, l'altare del Santuario i conflitti tra uomo e Dio. La mediazione è nel cuore del centro del mondo.

David Bidussa, storico sociale
delle idee
   

Che cosa significa scrivere la storia degli ebrei? E’ una domanda che mi sono posto in questa settimana, sollecitato dagli strascichi di una polemica nata sul libro di Enzo Traverso che finora nessuno ha letto. Come qualsiasi altro tema spesso la questione della storia degli ebrei è vissuta come storia ideologica, anziché una “a parte intera” e “tutta intera”. Scrivere la storia “a parte intera” significa considerare tutti i livelli dell’esperienza e del quadro storico (non solo gli avvenimenti, ma i sentimenti, non solo le emozioni, ma anche gli immaginari; non solo la storia sociale, ma anche quella delle idee; non solo le ragioni, ma anche i rancori). Potrei andare avanti per molto, ma mi fermo qui. E scrivere la storia “tutta intera”, significa abbandonare un’idea coerente della storia. La storia è coerente solo nella testa di chi vuol raccontare unicamente la “sua versione” della storia o si aspetta che altri la raccontino per lui. Per cui si spazientisce se pensa che chi scrive di storia non dica ciò che si aspetta, e se sospetta che qualcuno scriva una storia diversa da quella che presume di sapere. Soprattutto chiede che gli altri scrivano la storia che lui vorrebbe leggere. E ad ogni buon conto, se può mette il veto. Quando questo accade, la libertà è a rischio. Perché la libertà non è solo scrivere libri o leggere libri  con cui si è d’accordo. Ma è rispondere ai libri con cui non si è d’accordo con altri libri.

davar
Qui Roma - Un concerto per Tullia Zevi
“Andartene via di sabato pomeriggio, proprio all'uscita dello Shabbat in cui noi ebrei leggiamo il testo dei dieci comandamenti, nonna, è solo l'ultima delle attenzioni che hai mostrato a noi ed alle cose importanti che guidano la nostra vita. Da musicista, come dice sempre mio padre, hai saputo, con il tuo senso dell' armonia e del ritmo, scegliere un momento che ci trovasse tutti insieme anche per questo. Non te ne sei andata lo scorso anno, mentre ero in America a perfezionare gli studi, o in Israele. Me lo avevi promesso e, come sempre, hai mantenuto. Già ieri, chissà se te lo saresti aspettato, giornali e televisioni hanno ripercorso la tua vita densa di impegni e successi, dagli anni dell' antifascismo alla presidenza Ucei, dall'esilio in America alla commissione d' inchiesta sui crimini commessi dai militari italiani in Somalia. Lo stesso percorso che tu ed io, di fronte ai pranzi squisiti che cucinavi, tra risate e qualche volta anche lacrime, abbiamo fatto qualche anno fa per pubblicare il nostro libro”.
Con queste parole, pubblicate sul Corriere della sera all'indomani della scomparsa, Nathania Zevi rendeva omaggio alla straordinaria figura della nonna, Tullia Zevi, protagonista alcuni anni prima del saggio, vero e proprio passaggio tra generazioni di valori e memorie familiari, 'Ti racconto la mia storia'. Una storia appassionante, proiettata nel mondo ebraico e in tutta la società italiana, che viene ricordata questo pomeriggio alle 19 al centro culturale Pitigliani di Roma con un concerto di musiche sefardite e con le testimonianze, tra gli altri, del presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e del presidente del Pitigliani Ugo Limentani.
Il concerto, intitolato Aman Sepharad, ha come interpreti Arianna Lanci (canto), Sara Mancuso (arpa, clavicytherium, organo portativo) e Marco Muzzati (salterio, percussioni).
 
Qui Torino - Rabbini a confronto sul futuro delle Comunità
Sala gremita al centro sociale della Comunità ebraica di Torino per il convegno “Quale comunità per gli ebrei italiani del XXI secolo?” organizzato dal Gruppo di Studi ebraici. Chiamati a discuterne, tra gli altri, diversi rabbanìm, partendo dai differenti background. Al centro dei loro interventi, varie sfumature del rapporto tra ebraismo e modernità e delle sfide con cui si devono confrontare le kehillot del nuovo millennio.
Ad aprire la sessione mattutina moderata dal presidente del Gruppo Franco Segre, dopo il saluto del presidente della Comunità Beppe Segre, è stato l’intervento del rabbino capo della città Eliahu Birnbaum. “Se un tempo la Comunità costituiva un elemento di protezione per gli ebrei nei confronti della società pubblica, il loro anello di congiunzione con lo Stato, oggi il mondo è cambiato, e questo modello è stato superato - ha spiegato il rav – Oggi, nel chiederci quale tipo Comunità perseguire, dobbiamo tenere a mente che il nostro futuro non è mai scontato, ma ciascuno di noi ha il compito di impegnarsi per garantirlo: a mio parere, questo passa per la sfida di rendere la Comunità un istituto maggiormente inclusivo, capace di avvicinare coloro che ne rimangono oggi lontani”. Una delle sfide messe in risalto dai vari interventi per l’ebraismo italiano è quella di aprirsi al rapporto con le realtà di altri paesi. Anche in questa prospettiva, rav Pierpaolo Punturello ha offerto un approfondimento sull’identità modern orthodox, capace di offrire una sintesi fra tradizione e realtà contemporanea. E una diretta applicazione della capacità della visione ebraica di fornire spunti per problematiche moderne è stata spiegata dal rabbino capo di Modena Beniamino Goldstein, che si è concentrato sul problema dell’approccio ebraico alle tematiche del diritto del lavoro e dei lavoratori.
Rav David Sciunnach ha invece affrontato il tema del pluralismo all’interno delle Comunità ebraiche, spiegando la ricchezza che offre il confronto fra tradizioni diverse, ma mettendo anche in guardia dal rischio di perdere o sbiadire la propria identità, come è successo, sotto molti aspetti, alla tradizione ebraica italiana in parte assorbita da quelle ashkenazite e sefardite. Un rischio che viene scongiurato solo costruendo identità forti grazie allo studio e all’approfondimento. A concludere la mattinata è stato poi il rabbino capo di Padova Adolfo Locci, che si è concentrato sul rapporto tra il rav e la kehillah. “Partiamo dal presupposto che molti dei problemi di cui discutiamo non sono soltanto condivisi da numerose altre realtà ebraiche nel mondo, ma esistono da molto tempo anche nell’ambito delle nostre Comunità - ha ricordato il rav – E’ importante capire che il rabbino e la Comunità sono insieme corresponsabili di portare avanti la Torah e i suoi precetti. È finito il tempo in cui il rav rappresenta la figura cui la Comunità delega l’osservanza delle mitzvot”.
Nel pomeriggio previsti gli interventi di rav Michael Ascoli, del maskil Gadi Piperno e della rabbanit Renana Birnbaum, in un incontro introdotto da Dario Disegni, presidente della Fondazione Margulies-Disegni e, a conclusione della giornata, la tavola rotonda “L’ebraismo italiano e le sfide del nostro tempo: la parola ai giovani”, coordinata da Sarah Kaminski con la partecipazione tra gli altri del presidente dell’Unione giovani ebrei d’Italia Susanna Calimani.

Rossella Tercatin - twitter @rtercatinmoked

Qui Roma - Borse di studio all'Ufficio stampa
Due figure di supporto al portavoce nell’attività di rassegna stampa, stesura di comunicati, aggiornamento del sito web e dei social media, monitoraggio delle agenzie, relazioni con gli addetti alla comunicazione delle testate giornalistiche. È quanto richiede la Comunità ebraica di Roma con un bando di collaborazione diffuso nelle scorse ore. Tra i requisti richiesti diploma di scuola media superiore; iscrizione a una Comunità ebraica riconosciuta dalla Comunità di Roma; esperienze nel campo delle comunicazioni, preferibilmente in quello giornalistico; età non inferiore ad anni 18; ottima conoscenza della lingua italiana; buona conoscenza della lingua inglese o dell'ebraico; cittadinanza italiana (elemento non richiesto per i cittadini di uno degli Stati membri dell’Unione Europea); godimento dei diritti politici e civili.  Lo stage avrà durata di sei mesi e si svolgerà prevalentemente all'interno dell'Ufficio stampa. Allo stagista sarà riconosciuta una borsa di studio. Termine ultimo per la presentazione dei curricula lunedì 25 febbraio.
Per maggiori informazioni è possibile inviare una mail a ufficio.stampa@romaebraica.it


pilpul
Sharon Nizza: "Ecco perché mi candido"
Rispondo alle domande dell’articolo di Sergio Della Pergola. Francamente non capisco la ragione dello scandalo circa la mia candidatura: nel programma del Pdl non vi è mai stato alcun atto che possa essere tacciato di antisemitismo; c’è sempre stata una piena collaborazione tra le comunità ebraiche e i governi o amministrazioni guidate da questo grande partito; inoltre le relazioni tra Italia e Israele, sotto la guida di Berlusconi, sono migliorate sotto ogni aspetto. Mentre l'ostilità a qualunque governo israeliano caratterizza una parte consistente del centrosinistra. Un eventuale governo di sinistra vedrà probabilmente Massimo D'Alema come ministro degli Esteri, immortalato pochi anni fa a braccetto con esponenti di Hezbollah. L’unica volta in cui un rappresentante di questa circoscrizione, il senatore uscente Nino Randazzo (Pd), si è espresso su Israele era per condannare la reazione israeliana alla flottiglia e per sminuire il pericolo dei razzi da Gaza.
Ogni schieramento ha le sue pecche. Il pericolo si combatte non delegittimando una parte politica, bensì cercando di costruire una destra e una sinistra moderne e liberali in cui convivano ideali diversi e all’interno dei quali si possano portare avanti battaglie universali. Il Pdl e il Pd in Italia cercano di andare in questo senso. Se eletta, come ho avuto modo di dire a Repubblica condannando le affermazioni di Berlusconi nel Giorno della Memoria, la mia presenza in Parlamento rappresenterebbe una garanzia in più contro il riaffiorare di sentimenti nostalgici e dell'antisemitismo oggi, anche perché non si può più scindere l’attacco demonizzatore verso Israele dal risorgere dell’antisemitismo in Europa (vedi Tolosa 2012).
Alla prima domanda di Della Pergola rispondo quindi: sì, un ebreo può far parte dell’alleanza politica radunata attorno al Pdl e fare anche un ottimo lavoro, come è stato nel caso di Fiamma Nirenstein (sue le iniziative del Comitato Parlamentare sull’Antisemitismo e la mozione che ha richiesto il ritiro dell’Italia dalla Conferenza di Durban 2).
Quanto alla seconda domanda (quale Israele rappresenterei in Parlamento): non sono candidata alla Knesset, ma al Parlamento italiano, per rappresentare oltre 190,000 italiani residenti nella circoscrizione, di cui circa 11,000 in Israele (la terza comunità italiana dell’area). Ho accettato questa grande sfida – che presenta buone chance, come dimostra il sostegno che sto ricevendo da tutti i Paesi della circoscrizione – con lo spirito di una persona da sempre molto militante in diversi settori, dalle battaglie civili transnazionali del Partito Radicale in cui mi sono sempre riconosciuta, a quelle per aprire un varco nell’oblio mediatico sul conflitto in Darfur, dal sostegno alle voci moderate nel mondo dell’Islam politico, alla difesa delle minoranze e delle libertà fondamentali dell’individuo, brutalmente calpestate in molte aree di questa vasta circoscrizione. E’ questa la “logica della mia candidatura” e questi sono alcuni degli argomenti che intendo promuovere. Spiegare le ragioni di Israele significa difendere i valori della democrazia e dello stato di diritto e per questo è una battaglia del tutto allineata a quelle menzionate. Va tenuto bene a mente che il prossimo Parlamento vedrà una forte presenza di partiti (Movimento 5 Stelle) molto ostili a queste ragioni, rendendo il mio impegno necessario, uno dei motivi per cui ho accolto l’offerta arrivatami dal Pdl, l’unico partito ad aver proposto per la prima volta un candidato residente in Israele.

Sharon Nizza, Gerusalemme

Se il popolo non c'è subentra il populismo
Due parole si impongono sulla nostra newsletter per un paio di questioni che anche se non hanno a che fare direttamente con l’ebraismo e gli ebrei come tali chiamano tuttavia in causa ognuno dei lettori in quanto cittadini di questa Repubblica. Nei giorni scorsi, durante un’assemblea di partito, una donna, precaria da molti anni e, prevedibilmente, condannata ad esserlo anche nel futuro, è intervenuta raffrontando la sua sofferta condizione a quella di un’altra persona, figlia di un senatore di quella stessa formazione politica e noto giuslavorista. Di quest’ultima ha stigmatizzato la condizione professionale, ritenuta il risultato di un privilegio e imputandole quindi la colpa di godere di tale invidiabile situazione non grazie al merito personale (che nel nostro paese è una chimera bella e buona, una parola d’ordine evocata come un ectoplasma nelle campagne elettorale o quando si è nella necessità di imporre tagli ai servizi pubblici) bensì in virtù del risultato del nepotismo familistico. In altre parole, con una sorta di pesante apprezzamento, tale perché indirizzato verso una persona indicata con nome e cognome dinanzi ad un ampio uditorio, secondo una prassi che sembra rinviare, anche se inconsapevolmente, alla messa in stato d’accusa al cospetto del “tribunale del popolo”, si è posto al pubblico ludibrio l’esempio di una “privilegiata” da fare oggetto di ostracismo morale e civile. Una sorta di gogna pubblica (e mediatica). La stessa accusatrice, interpellata dopo le numerosissime critiche piovutele addosso, ha poi rincarato la dose, indicando nel fatto che l’accusata avesse cercato di spiegare la sua reale posizione professionale su un social network come un ulteriore indice di colpevolezza. Nelle stesse ore, un operaio edile sessantenne, privo di lavoro, quadro sindacale, si suicidava dopo avere lasciato una straziante lettera di congedo, avvolta nel testo della Costituzione. Si era rivolto al Presidente della Repubblica, al segretario del suo sindacato, aveva continuato fino all’ultimo a lottare e a sperare ma poi, come sopraffatto da un male incurabile, è letteralmente caduto sul campo di battaglia, quello di un lavoro che non c’è più (e che per molti non ci sarà, neanche nel futuro a venire). Cosa c’entrano queste cose tra di loro? Tanto, molto più di quanto si sia disposti a pensare. Si interfacciano, essendo infatti i due volti di una medesima medaglia. Da una parte c’è un'Italia che affonda, nella sostanziale indifferenza di quella restante; dall’altra c’e un'Italia che sentendosi affondare si consegna all'invettiva come ultima risorsa, in ciò forse disponibile, se si dovessero creare le condizioni, ad una qualche avventura politica, non importa con quali rischi propri e altrui. La morte di un lavoratore disoccupato per mano propria, nella sua disperata solitudine, è una tragedia che ci interpella, trovandoci sostanzialmente silenti. La mancanza di conflitto sociale, quand'esso scorra sui binari della legittima rivendicazione e della contrattazione, si trasforma da subito anche nell'assenza di empatia umana, di identificazione nel destino dell'altro. Ognuno ridotto a sé, sempre più prossimo ad una sorta di "nuda vita", scarnificato da una possente ideologia dei "mercati" che assomiglia alla scienza degli indovini e alle pratiche contenitive e sanzionatorie dei vecchi manicomi. La società si riduce a quella cosa lì, darwinisticamente intesa, dilacerata tra sommersi e salvati, due categorie che si attagliavano ai Lager ma che, per traslazione, assumono un valore comune, condiviso anche in altre situazioni, laddove la radicalità della condizione di certe persone, che equivale anche al loro isolamento (e alla loro potenziale morte), viene messa in luce. Quanto alla seconda faccia, la critica alle élite intesa meramente come legittimo tumulto del "popolo", è una forma di falsa coscienza tra le peggiori che esistano. Rinvia non alla rivendicazione della cittadinanza sociale - e quindi alla redistribuzione della ricchezza collettiva - ma alla angosciata invidia come motore della mobilitazione. Di fatto è un paradossale elogio dello status quo, in un paese dove l’ascensore sociale non solo si è da almeno vent’anni rotto ma ha iniziato da tempo a funzionare all’ingiù, proiettando il ceto medio verso il basso. Disperato isolamento per mancanza di lavoro, e quindi per la perdita del senso della dignità – cosa che il suicida andava denunciando a piè sospinto, dinanzi ad una società autisticamente ripiegata su di sé – , e rabbiosa impotenza, trasformata in attacco personale contro il “privilegio” del singolo, si tengono insieme come sintomi di un malessere profondo e atavico. Quello della deriva populistica, che si alimenta costantemente non della critica consapevole e condivisa della miseria del quotidiano ma della sentenziosità di chi ritiene di potere additare la persona come simulacro da colpire (e magari anche da abbattere). Tra il suicida e la vituperata allora intercorre un nesso, quello della de-umanizzazione. C’è molta rabbia, in giro, ed invito a coglierne la minacciosa carsicità con la quale si manifesta sempre più spesso. Se le cose dovessero peggiorare temo che antichi refrain mentali di consolidati luoghi comuni, tra cui anche l’impronunciabile – ancora al momento – antisemitismo, potrebbero riacquistare legittimazione. Aggiungo, a beneficio mio e di chi mi legge, che i divari incolmabili che si sono creati tra noi e "loro", comprendendo nel secondo pronome quanti sembrano osservare con distacco gli infiniti problemi in cui si dibattono molte famiglie italiane, non dovendosene fare carico alcuno, non potranno essere superati con il ricorso all'invettiva del "popolo sovrano", quello che viene evocato da chi lo sta espropriando di ogni prerogativa reale. Comprendo il disagio della lavoratrice precaria, quello della non più giovane “figlia di papà”, additata ad esempio del privilegio e, soprattutto, la tragedia del muratore trapanese. Non ho grandi risposte: so soprattutto come non se ne può venire a capo, ovvero perseverando in atteggiamenti che concorrono sempre di più a scavare il solco tra chi ha e chi non ha. Chi sta sotto non sempre è peraltro alieno da responsabilità, a tale riguardo. Consegnarsi alle scorciatoie vuol dire perdere la strada e, soprattutto, non saper più quale sia la meta da raggiungere. Questo è poco ma certo, in un momento in cui non sappiamo ancora bene cosa fare ma dobbiamo capire innanzitutto cosa non deve essere fatto.

Claudio Vercelli

Nugae - Flavio Giuseppe
A parte essere stato il colpevole di un grazioso blocco di fotocopie da tradurre per l’esame di storia romana, dal corso monografico, ebbene sì, sull’antigiudaismo, Flavio Giuseppe fu uno storiografo ebreo vissuto nel I secolo e.v., la cui opera costituisce oggi l’unica documentazione superstite delle guerre fra Roma e la Giudea. In questi giorni esce una sua biografia dal titolo A Jew Among Romans, dello scrittore, giornalista e sceneggiatore inglese Frederic Raphael. E in effetti  Joseph Ben Matitiahu, questo il suo vero nome, ne ha combinate di tutti i colori. Rimasto ammaliato in un viaggio in gioventù dai fasti della Roma imperiale, questo abitante della piccola provincia della Giudea, allora agitata da conflitti interni fra i vari gruppi in cui gli ebrei erano divisi, sosteneva che contro una tale potenza fosse impossibile ribellarsi e aveva anche cercato di impedirlo quando fu nominato comandante delle truppe in Galilea. Alla fine la rivolta ci fu, ma fu anche repressa nel sangue. Per farla breve, messo dai romani nella condizione di dover scegliere se morire per i propri ideali o consegnarsi, Joseph non ebbe dubbi. Dopo aver tentato di convincerli a non farlo, mentre i suoi soldati si toglievano la vita l’un l’altro pur di non cedere all’empio nemico, lui s’intratteneva con l’allora comandante Vespasiano, raccontandogli di aver ricevuto una profezia dal suo Dio secondo la quale sarebbe un giorno diventato imperatore di Roma. Così Joseph diventò protetto di Vespasiano e per fortuna l’azzardo si avverò. E anziché come prigioniero fu accolto nella capitale dello stesso impero che distruggeva il suo popolo e la sua terra con tutti gli onori, e con il suo nome nuovo fiammante, Titus Flavius Iosephus, passò il resto della sua vita a scrivere opere in difesa degli ebrei e dell’ebraismo. Raphael addirittura lo dipinge come una sorta di intellettuale ebreo della diaspora ante litteram, che come a metà fra due culture trova la sua identità nella scrittura. Ma a prescindere da quanto sia fondata quest’ipotesi, e anche dal suo valore di uomo e del suo apporto alla storiografia, Flavio Giuseppe per i rari esemplari di studenti ebrei di lettere antiche ha qualcosa di speciale, c’è una sorta d’implicito affetto, come per un vecchio zio. Perché è l’unico che, con quelle tanto familiari letterine greche, racconta un pezzo di se stessi.

Francesca Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF

           

notizieflash   rassegna stampa
Sorgente di Vita - Un Nabucco insolito   Leggi la rassegna

Il Nabucco di Giuseppe Verdi alla Scala di Milano in un’edizione particolare apre la puntata di Sorgente di vita di domenica 10 febbraio: una scenografia moderna ed essenziale per un allestimento insolito che evoca le tragedie e le persecuzioni del Novecento.





 

Diritti degli omosessuali, tolleranza religiosa, futuro dell'Europa delle molte identità e culture. Sono tematiche ricorrenti sui giornali oggi in edicola in prosecuzione di un intenso dibattito sviluppatosi in questi giorni e nelle scorse settimane.









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