A Bologna, in questa
stagione, gli illustratori sono protagonisti. Dalle mostre di BilBolBul
alla Children Book Fair la città sarà per oltre un mese la capitale e
il punto d'incontro di tutti coloro che guardano con interesse al mondo
del fumetto, dell'illustrazione, dell'arte dedicata sia al pubblico
adulto che alla gioventù e all'infanzia.
Proprio in omaggio alla ventata di creatività che sta per investire la
città, al Museo Ebraico apre i battenti martedì 19 febbraio la mostra
“DafDaf, l'ebraismo illustrato per piccoli e grandi lettori”.
Organizzata in collaborazione con BilBolBul e Children Book Fair, la
mostra raccoglie per la prima volta i materiali donati da decine di
grandi illustratori che consentono ogni mese alla redazione
giornalistica dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane di
realizzare il giornale per bambini DafDaf. Molti giovanissimi, ma anche
molte grandi firme fra quelle degli artisti che espongono le loro
opere. A cominciare da quella di Vittorio Giardino, l'autore bolognese
vecchio amico di DafDaf e protagonista quest'anno a BilBolBul con una
grande rassegna personale.
“Si tratta – spiega Guido Vitale, giornalista e coordinatore dei
dipartimenti Informazione e Cultura dell'Unione delle comunità ebraiche
– dell'occasione di condividere con il grande pubblico il patrimonio di
valori e di cultura della più antica realtà ebraica della Diaspora. E
soprattutto di riaffermare che gli ebrei, in Italia da due millenni,
piccolissima minoranza nei numeri e elemento indispensabile nella
società plurale, non hanno solo una lunga e sofferta storia alle
spalle, ma anche un futuro da vivere per le nuove generazioni. La
mostra – aggiunge – è anche l'occasione di festeggiare e di ringraziare
gli oltre 120 generosi collaboratori, tutti volontari non retribuiti,
che ci donano ogni giorno con grande slancio le loro idee e la la loro
creatività”.
Appuntamenti
La mostra, curata da Ada Treves, sarà visitabile con ingresso gratuito
dal 19 febbraio al 25 marzo al Museo Ebraico di Bologna (MEB) via
Valdonica 1/5 | 40126 Bologna | tel. 051 2911280 |
www.museoebraicobo.it da domenica a giovedì 10.00-18.00, venerdì
10.00-16.00, sabato chiuso
MARTEDÌ 19 FEBBRAIO ALLE 17.30 - INAUGURAZIONE
Emilio Campos, presidente Fondazione Museo Ebraico di Bologna
Franco Bonilauri, direttore Museo Ebraico di Bologna
Interviene: Ada Treves, redazione DafDaf
GIOVEDÌ 21 FEBBRAIO ALLE 17.30 - INCONTRO
Comics & Jews: illustrazione, fumetto e cultura ebraica
DafDaf, il giornale ebraico dei bambini
Guido Vitale, direttore di Pagine Ebraiche e di DafDaf
Giorgio Albertini, Università di Milano
Vittorio Giardino, fumettista
Ada Treves, redazione DafDaf
Franco Bonilauri, direttore Museo Ebraico di Bologna
DOMENICA 24 MARZO ALLE 16.30 - INCONTRO
Antonio Faeti, storico della letteratura per l’infanzia, Università di
Bologna
Ada Treves, redazione DafDaf
Franco Bonilauri, direttore Museo Ebraico di Bologna
Daf in ebraico vuol dire pagina, DafDaf può significare di pagina in
pagina, oppure sfogliar pagine. DafDaf è il giornale ebraico dei
bambini, edito dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e
realizzato dalla redazione del Portale dell'ebraismo italiano
www.moked.it e del giornale dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche.
Impegnarsi in un giornale dedicato all'infanzia significa, per una
minoranza piccola nei numeri ma grande nella lunga storia e nei valori
testimoniati, affermare che l'ebraismo italiano non ha solo una vicenda
bimillenaria da raccontare, ma anche fiducia in un futuro da costruire.
Fiducia mostrata anche nella scelta di affidare le illustrazioni di
DafDaf a un gruppo di giovanissimi illustratori che sotto la guida
della redazione e con la collaborazione di alcuni illustratori di fama
ed esperienza – fra gli altri Paolo Bacilieri, che ha firmato la
testata del giornale e Enea Riboldi, papà della mascotte di DafDaf,
quel bambino con la kippà noto in redazione come Davidino, e Giorgio
Albertini che sostiene e accompagna DafDaf sin dalla sua nascita -
hanno accettato la sfida. DafDaf costituisce anche un laboratorio
originale di editoria per l'infanzia in una realtà italiana che vede
sempre più rari esempi di iniziative e pubblicazioni dedicate ai
giovanissimi. Originale per la specificità identitaria, ma anche per la
scelta editoriale, che prevede una larga diffusione destinata a tutti
gli italiani che guardano con interesse al mondo ebraico anche grazie
alla stampa in rotativa, per essere giornale da vivere più che un
oggetto da sfogliare distrattamente e dimenticare, DafDaf – oltre a
redazione e Comitato scientifico - coinvolge nella sua realizzazione
molti volontari, ebrei e non ebrei, disposti a donare un poco delle
loro conoscenze e della loro creatività. Fra di essi anche disegnatori
di fama, come Vittorio Giardino, David B., Walter Chendi e Luca Enoch
che oltre ad avere regalato disegni al giornale lo sostengono con la
loro affettuosa amicizia. E il Comitato scientifico è importantissimo
nella vita del giornale: ne fanno parte il direttore del dipartimento
Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane rav
Roberto Della Rocca, il presidente dell’Assemblea rabbinica italiana
rav Elia Richetti, il direttore delle scuola ebraiche di Roma rav
Benedetto Carucci Viterbi, il coordinatore del Centro pedagogico Ucei
Odelia Liberanome, il direttore delle Scuole ebraiche di Torino Sonia
Brunetti, l’editore Orietta Fatucci, l’archeologo, scrittore e
illustratore Giorgio Albertini, la pedagogista Nedelia Tedeschi, anima
del mitico “Giornale per noi” pubblicato negli anni Settanta e Ottanta,
i docenti Dora Fiandra, Moria Maknouz, Daniela Misan, Alisa Luzzatto,
Chiara Segre, Stefania Terracina. Completano poi la squadra Viola
Sgarbi, che si occupa della consulenza artistica e il grafico
Giandomenico Pozzi. Con il materiale dall’archivio di DafDaf, che in
occasione di BilBolBul esce con il numero 30, è stato possibile montare
un percorso attraverso le 500 pagine di giornale già pubblicate, con
l’augurio che scoprire l'identità, propria o altrui, attraverso le
illustrazioni di un giornale per bambini possa essere l’inizio di un
viaggio meraviglioso. E con l'augurio che anche questo piccolo
laboratorio possa risvegliare nel nostro paese una gloriosa tradizione
di cultura per i più giovani, cui gli ebrei italiani non hanno mai
fatto mancare il loro contributo di idee e di creatività.
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Qui Sanremo - Il
Festival che ha scoperto lo Shabbat |
Anche questa
sessantatreesima edizione di Sanremo ce la siamo portati a casa. Vince
un assonnato e tenero Mengoni che sull'orlo della disperazione chiede:
"Ma devo cantare ancora?". Una lunghissima serata con il trionfale
inizio del maestro Daniel Harding che dirige l'orchestra prima con la
Cavalcata delle Valchirie di Wagner e poi con l'Aida di Verdi. I due
sono più o meno il corrispettivo classico della lotta degli anni '90
tra chi preferiva Britney Spears e chi Christina Aguilera.
Dall'avvenenza travolgente della top model di Lodi Bianca Balti,
impeccabile in Dolce & Gabbana, alla nostra amata Littizzetto
che si lancia prima in un monologo sulla bellezza e poi con Fazio fa
una lista delle cose viste a Sanremo, in puro stile Vieni via con me e
Quello che non ho. "Ho visto Bar al bar che voleva un caffè" introduce
Fazio, "Ho visto Fazio che voleva Bar" conclude laconica Lucy. Torna
sul palco Raiz dopo Shabbat, venerdì sera nella serata amarcord a
fiancheggiare il resto del gruppo il dj Clementino, James Senese e
Fausto Mesolella in una inedita versione del Ragazzo della via Gluck.
Purtroppo gli Almamegretta non passano la selezione ma hanno
ufficialmente sdoganato in eurovisione lo Shabbat. Vittoria morale per
Elio e le storie tese che si piazzano tra i finalisti e vincono premio
della critica e per l'arrangiamento. Tra Andrea Bocelli che canta
accompagnato dal figlio Amos e Birdie, inglese, classe '96 che si
esibisce in Skinny love, Sanremo chiude il sipario. Il palco
trasparente con sotto le poltrone rosse vuote, che ha colpito anche
Claudio Bisio, resta un mistero.
Rachel
Silvera twitter @RachelSilvera2
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La rinuncia |
Gli ha anche scritto Shimon
Peres, presidente dello Stato d’Israele, con gesto inusuale, per
omaggiarlo degli otto anni di pontificato. L’abdicazione di Joseph
Ratzinger dalla cattedra di Pietro (opzione impropriamente definita
come atto di dimissioni) è destinata a lasciare un segno tangibile non
solo nella storia della Chiesa di Roma. La sofferta «rinuncia», così
come l’ha definita il medesimo Benedetto XVI, costituisce infatti un
precedente che sfida senz’altro gli esegeti del codice canonico ma,
soprattutto, interroga nel suo insieme l’istituzione ecclesiale, i
cattolici e i non cattolici, compresi i non credenti, sulle ragioni di
tale scelta. Che si sia scatena l’abituale ridda di voci sui retroscena
è parte stessa del dramma cortese che va compiendosi. Non che non vi
siano dei fondamenti in certe considerazioni. Del pari a qualsiasi
altro potere di questa terra la Città del Vaticano, in quanto Stato, è
amministrato in base a criteri che rinviano a coalizioni d’interessi e
a concreti rapporti di forza. Le scelte del papa, da ultima quella
estrema di non essere più tale, sono quindi inevitabilmente il riflesso
anche di questa umana disposizione delle cose. Significativo il fatto,
poi, che il suo pontificato si sia a suo tempo di fatto incontrato con
il passaggio di consegne, alla Segreteria di Stato, ganglio strategico
del circuito di comunicazione e di decisione dopo la riforma interna
voluta da Papa Giovanni Paolo II nel 1988, tra Angelo Sodano e Tarcisio
Bertone, quest’ultimo già arcivescovo di Genova e uomo di riferimento
nella Congregazione per la dottrina della fede. Dopo di che,
schiacciare l’intero percorso di Ratzinger su quest’ultima
considerazione risulterebbe riduttivo, non aiutando a capire il senso –
e anche la cifra potente – della sua abdicazione.
Sul versante ebraico credo che si possano dire molte cose, in parte già
richiamate da autorevoli voci e in parte destinate ad emergere ancora
nella discussione di qui in avanti. Si è anche parlato di «amicizia»
(Riccardo Di Segni), nel solco di una tradizione progressivamente
avviatasi già con i cascami immediati del Concilio Vaticano II e poi
consolidatasi con il trascorrere del tempo,da Giovanni XXIII in poi.
Benedetto XVI, nel suo stile cauto e misurato (la «prudenza e saggezza»
richiamate dal cardinale Stanislaw Dziwisz, arcivescovo di Cracovia),
ha continuato a interloquire. Pesavano su di lui molti fattori, primo
tra tutti quello di essere tedesco – con il tragico lascito
novecentesco del suo paese – e l’essere seguito a un pontefice polacco,
che invece faceva parte di quella schiera di popoli che hanno subito
gli effetti delle catastrofiche condotte della Germania negli anni
dell’occupazione militare. Le distinte sensibilità su Israele, sul suo
presente e sul suo destino, non hanno fatto da velo alle intense
relazioni, in Italia come in Medio Oriente. Peraltro Benedetto XVI
aveva rimarcato da subito, ossia immediatamente dopo la nomina, la
volontà di non tradire il percorso conciliare, di cui è stato uno degli
artefici. In questo senso, quindi, i momenti di maggiore perplessità
sono emersi in quello che si è rivelato essere un obiettivo non
raggiunto, il riassorbimento dello scisma lefebvriano. Plausibile che
con il nuovo pontificato non solo le lancette dell’orologio della
mediazione con i tradizionalisti scontino una revisione all’indietro ma
che dell’intenzione originaria poco o nulla venga mantenuto.
L’atteggiamento intransigente del clero lefebvriano, che disconosce il
magistero conciliare, costituisce infatti un vincolo non contrattabile.
Non di meno, la presenza al suo interno di un personaggio come Richard
Nelson Williamson, ordinato vescovo nel 1988 da monsignor Lefebrvre e
dichiaratamente negazionista (ebbe a dire che: «There was not one Jew
killed in the gas chamber. It was all lies, lies, lies!»; o più
sofisticamente, affermando di non nutrire simpatie per «i nemici di
Nostro Signore Gesù Cristo», che: «se gli ebrei sono nemici di Nostro
Signore Gesù Cristo – naturalmente non tutti gli ebrei, ma quelli che
lo sono – allora non mi piacciono»), rimane per parte ebraica un
ostacolo insuperabile. Il prosieguo del dialogo ebraico-cattolico,
avendo fatto propria la professione di pentimento per gli errori della
Chiesa nel passato già espressa da Wojtyla, ha tuttavia poi scontato le
insoddisfazioni per le parole del pontefice ad Auschwitz nel 2006,
quando la responsabilità della Shoah era stata attribuita ad «un gruppo
di criminali», così come la liberalizzazione della messa in latino, nel
luglio dell’anno successivo, laddove si riprende l’evocazione liturgica
tridentina del Venerdì santo con la richiesta della conversione degli
ebrei (che devono essere «sottratti alle loro tenebre»).
Più in generale, il campo di una battaglia - a volte dichiarata
esplicitamente, altre volte no - ha ruotato intorno alla figura di
Eugenio Pacelli, al giudizio da formulare sulla sua condotta negli anni
della Seconda guerra mondiale e, di immediato riflesso, al processo di
beatificazione avviato da Ratzinger nel 2009. Questo è un primo
repertorio, per così dire, a fronte di relazioni che si sono comunque
consolidate nella loro costanza. Non la stessa cosa può dirsi con il
mondo musulmano, ma lì le proporzioni e i rapporti di forza planetari
sono ben altra cosa. La discontinuità più netta di questo Papa la si è
comunque misurata nel rapporto che questi ha intrattenuto con il suo
predecessore, Karol Wojtyla. Una discontinuità di metodo e di merito.
Tanto Giovanni Paolo II era presente nel circuito mediatico, avendo
avviato e poi continuato - fino alla fine dei suoi giorni – un’intensa
attività di evangelizzazione, costituita essenzialmente dalla
promozione della sua presenza, accostando come forse mai era avvenuto
in epoca contemporanea il corpo della Chiesa al suo corpo fisico, di
tempo in tempo sempre più stanco e prostrato, quanto Benedetto XVI ha
volutamente lasciato in secondo piano quest’ultimo aspetto, arrivando
al punto, infine, di non volere consegnare l’immagine del suo declino
umano a quello dell’istituzione. Sul piano del merito, è poi emersa una
forma di comunicazione al contempo più cauta e molto meno sorprendente
di quella woitylana. Forte è stato l’imprinting teologico, trattandosi
Ratzinger essenzialmente di un uomo di dottrina e quindi di riflessione
e di interpretazione della medesima. I temi ripetuti in otto anni di
magistero hanno ruotato non tanto intorno alla necessità di una morale
cristiana, molto presente invece in Giovanni Paolo II, quanto
all’alleanza tra fede e ragione in un confronto secco con il
relativismo (l’abbandono della verità e quindi della fede),
l’agnosticismo, il materialismo, l’edonismo l’individualismo, il
sincretismo, tutti intesi come segni di una decadenza, soprattutto in
Europa, del corpo sociale e, quindi, di quello spirituale. Anche da
ciò, e da un sostanziale pessimismo di fondo, a malapena tradito nelle
sue comunicazioni ai fedeli, accentuate in questi ultimi giorni
(attraverso il richiamo, con calcolato linguaggio biblico, alle
divisioni nella Chiesa e a ciò che ne «deturpa il volto», ovvero agli
«individualismi»), il teologo che alberga nel papa ha sicuramente
sviluppato una sorta di silenziosa distanza dalla Curia romana,
l’insieme dei poteri che ruotano intorno al pontificato. L’elemento
clamoroso è che la sua rinuncia, che si concluderà in un ritrarsi dagli
affari secolari dell’ecclesia per dedicarsi ancora allo studio e alla
meditazione, è un atto che ne ha scavalcato gli ordinamenti, per
rivolgersi direttamente, in una sorta di dialogo diretto, senza
intermediazioni, alla comunità dei fedeli, così come al suo vertice, il
Concistoro cardinalizio. Della dirompenza di tale scelta un papa che,
come si diceva, della cautela aveva fatto un paradigma, non poteva non
esserne consapevole. Da tempo senz’altro andava meditando una soluzione
di tal genere, di cui certuni presagivano, senza peraltro averne
riscontro certo, la progressiva maturazione. Tra il 15 e il 20 marzo,
quindi, con l’apertura del conclave, quando 117 cardinali elettori (su
un totale di 220), più di metà dei quali di origine europea, saranno
chiamati a scegliere il suo successore, avremo a che fare con una
Chiesa già molto diversa da quella alla quale siamo abituati a pensare.
Misureremo con il trascorrere del tempo quanto la rinuncia di Benedetto
XVI sia destinata a costituire il segno di un’opportunità a venire
piuttosto che il segnale di un vincolo insuperabile.
Claudio
Vercelli, storico
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Nugae - One Billion
Rising |
I dance cause I love, danzo
perché amo. Riecheggiano in testa alla rinfusa le parole di Break the
chain, la canzone inno di One Billion Rising, la manifestazione
internazionale che ha avuto luogo questo giovedì, organizzata da Eve
Ensler, la drammaturga newyorkese, ebrea fra l’altro, famosa per i suoi
The Vagina Monologues. Dance cause I dream, danzo perché sogno. Eve
sognava che nella stessa giornata, il 14 febbraio, il quindicesimo
anniversario del suo V-day, le donne di tutto il mondo si alzassero
insieme e ballassero tendendo un dito verso il cielo, per dire
simbolicamente no alla violenza contro le donne. E il suo sogno
megalomane, grazie a internet e al fascino modaiolo dei flash mob, si è
realizzato. Dance cause I’ve had enough, danzo perché ne ho abbastanza.
E mica solo lei, sul sito di OBR si possono guardare i video di schiere
di donne in tailleurs multicolori, le donne potenti del Parlamento
europeo e dell’ONU, che dichiarano il loro sostegno. Ma anche delle due
dive dai capelli corti, la bionda Charlize Theron e la mora Anne
Hathaway, decisamente più glamour. L’altra sera, dopo un monologo in
parte divertente e in parte vagamente didascalico, anche
Luciana Littizzetto ha ballato al festival di Sanremo. Ha di certo più
talento nei suoi discorsi audaci, ma i suoi movimenti esitanti, proprio
perché goffi, riempivano di orgoglio. Dance to stop the screams, danzo
per fermare le urla. Le urla di dolore di quel Billion, milardo, di
donne nel mondo picchiate, violentate, sfigurate dall’acido, mutilate.
Una su tre. In Italia in media ogni tre giorni un uomo uccide una
donna. Fa impallidire. Dance to break the rules, danzo per rompere le
regole. E 190 paesi hanno trovato 190 modi diversi per farlo. In
Israele fra le 30 diverse iniziative, la più diffusa è stata quella di
ballare sulle note di una canzone intitolata “Ascolta la mia voce”
scritta dalla cantante israeliana Iris Yotvat, sulla forza delle donne.
Dance to stop the pain, danzo per fermare il dolore. Perché come ha
detto Luciana, “l’amore rende felici e riempie il cuore, non rompe le
costole, non lascia lividi sulla faccia”. Dance to turn it upside down,
danzo per capovolgere la situazione. Perché la danza, ha spiegato Eve,
“è qualcosa che può succedere ovunque e con chiunque, ed è gratis. Ci
fa occupare lo spazio, ci unisce e ci spinge ad andare oltre, ed è per
questo che è al centro di OBR”. È ora di fermare la catena, it’s time
to break the chain.
Francesca
Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF
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Roma - Noa canta Napoli |
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Nuovo omaggio alla canzone
napoletana d'autore da parte dell'artista israeliana Noa, protagonista
questa sera all'Auditorium Parco della Musica di Roma con l'attesa
performance Noapolis-Noa sings Napoli. Ad affiancarla sul palco Gil Dor
& Solis String Quartet.
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Il quotidiano bolognese Resto
del Carlino apre la sezione cultura con la notizia
dell'inaugurazione, martedi alle 17.30, della mostra DafDaf, l'ebraismo
illustrato per piccoli e grandi lettori, curata da Ada Treves e
organizzata anche in collaborazione con la Fiera del Libro per ragazzi
che si terrà nella seconda metà di marzo. Così nei giorni in cui
Bologna diventa capitale del fumetto con il festival BilBOLBul anche il
Museo Ebraico di via Valdonica "diventa hub per accendere i riflettori
sull'infanzia".
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
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