L'Italia ebraica festeggia in queste ore Purim, una delle ricorrenze
più gioiose e attese da grandi e piccini. Numerose le occasioni di
condivisione, all'insegna del divertimento e della spensieratezza,
organizzate nelle varie Comunità. Nell'immagine un momento della recita
portata in scena a Firenze davanti a molte centinaia di persone dai
genitori dei bambini dell'asilo comunitario Gam Gam. In scena uno
spassoso re Assuero travolto dalla vanesia e salvato, anche in questa
circostanza, dalla saggezza e dal coraggio della regina Ester. A
seguire, performance musicale con i ragazzi del laboratorio klezmer
animato da Enrico Fink. Da Milano a Roma, da Genova a Trieste: le
storie, i colori e i sapori di Purim (su tutti quello delle mitiche
orecchie di Amman) attraversano l'Italia per lanciare un messaggio di
unità e fiducia nel futuro.
A tutti i nostri lettori un caloroso augurio di Purim Sameach!
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Rabbini - Le altre elezioni d'Israele
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Ancora
non si è placato l’eco delle votazioni per il Parlamento israeliano.
Un’eco (o forse un rumore) tanto forte, da far passare sotto traccia il
fatto che si terranno a breve delle altre elezioni. Di tutt’altro
genere, eppure altrettanto, e forse ancora più fondamentali per dare
forma all’identità israeliana del prossimo futuro: alla fine della
primavera 2013 scadrà il mandato decennale dei due rabbini capo di
Israele, l’ashkenazita Yona Metzger e il sefardita Shlomo Amar. E la
vera novità sta nel fatto che per la prima volta potrebbe essere scelto
per ricoprire l’incarico un rabbino non proveniente dal mondo haredì.
Una novità che rappresenterebbe una svolta epocale, e che potrebbe
essere favorita anche dall’esito delle urne, con due dei partiti più
influenti, Yesh Atid e Habayit Hayehudi, che premono entrambi per il
ridimensionamento dell’influenza dell’ebraismo haredì nella vita
pubblica. La nascita della carica di rabbino capo della nazione va
fatta risalire alla dominazione turca: il rabbino capo di
Costantinopoli costituiva il rappresentante degli ebrei davanti al
sultano. Nel 1921, sotto il Mandato britannico, vennero nominati per la
prima volta un rabbino capo ashkenazita e uno sefardita. Il potere del
rabbinato centrale venne però sancito definitivamente da un accordo tra
David Ben Gurion e i partiti religiosi nel 1947, accordo che stabiliva
la giurisdizione sulle questioni legate allo status personale, compresi
matrimoni, divorzi e funerali e sui problemi legati a temi religiosi,
come la kasherut. Nel corso dei decenni successivi le cariche sono
sempre state ricoperte da rabbini haredim. Ma nelle scorse settimane ha
lanciato la sua candidatura il rabbino David Stav (nell'immagine), che
guida l’organizzazione modern orthodox Tzohar. Obiettivo fondamentale
del suo progetto quello di riavvicinare il rabbinato alla società
israeliana. La cattiva gestione dei nodi riguardanti il diritto di
famiglia, secondo rav Stav, contribuiscono ad allontanare sempre più la
popolazione israeliana laica dalle tradizioni, con un grave rischio di
disgregazione. “Nel 2010, 9mila 300 coppie su 36 mila hanno scelto di
sposarsi all’estero, a Cipro, a Burgas e a Praga – ha fatto notare al
quotidiano Israel Hayom (in Israele non esistono le nozze civili) – Di
questo passo, fra vent’anni la maggioranza degli israeliani non sarà
sposata secondo il rito religioso”. Se per il posto di rabbino capo
sefardita per ora viene data probabile la riconferma di Shlomo Amar,
per quello di rabbino capo ashkenazita sono molti i nomi già circolati,
tra cui quelli di rav Yaakov Shapira e rav David Lau, entrambi figli di
precendenti guide del rabbinato centrale (rispettivamente rav Avraham
Shapira dal 1983 al 1993 e rav Yisrael Lau dal 1993 al 2003). Tzohar
però è decisa a dare battaglia: intensissima la campagna per promuovere
la candidatura di rav Stav. Essendo il rabbino capo scelto da un
comitato di 150 pubblici rappresentanti, tra politici e rabbini,
l’opinione pubblica potrebbe non essere così influente. Eppure rav Stav
starebbe ottenendo dei successi notevoli: l’americano The Jewish
Forward riporta che sarebbe già in essere un accordo di reciproco
sostegno con rav Amar. Le sfide che rav Stav mette in evidenza nelle
sue interviste ai media israeliani sono numerose: dal garantire a tutti
la possibilità di divorziare in modo efficiente e rispettoso, alla
questione della kasherut, che nel parere di rav Stav andrebbe
privatizzata, dal tema delle conversioni (“non possiamo dire a chi
arriva in Israele e non ha i documenti che ne attestino l’appartenza
ebraica secondo l’Halakhah che deve arrangiarsi, dobbiamo offrire il
nostro supporto”), a quello delle sepolture (“se non permettiamo alle
donne di pronunciare gli elogi funebri, non possiamo stupirci che
aumentino i funerali celebrati con rito civile”). Il rabbinato risponde
alle critiche colpo su colpo. Bisognerà aspettare qualche mese per
sapere se la svolta arriverà: certo è che il futuro dello Stato ebraico
passa anche da queste elezioni.
Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche, marzo 2013 twitter @rtercatinmoked
Rabbini - "Serve qualcuno che sappia stare vicino alla gente"
Siamo
alle porte della rielezione del Rabbinato centrale di Israele. Serve
una rinascita spirituale. Serve un rinnovamento etico.
Credo che il mondo rabbinico di oggi abbia bisogno di un "nuovo
chassidismo", il mondo rabbinico è in preda alla "politica": si è
soliti incolpare la filosofia antireligiosa dell’eclissi della
religione nella società moderna. Sarebbe invece più onesto incolpare
alcune autorità rabbiniche dei loro propri insuccessi. Quando la
religione parla solo in nome dell’autorità piuttosto che con la voce
della compassione, è proprio allora che il suo messaggio diventa privo
di significato. Diceva il Kotzker Rebbe: quale è la differenza profonda
tra un vero Chassid e un Mitnaghed? Un buon Chassid ha amore di D-o, un
Mitnaghed ha solo timore dello Shulchan Aruch.
Lo spirito della Torah ("aggadà") è unito e legato alla legge della
Torah ("halachah"). La svalutazione della "aggadà" è un segno della
mancanza di un interesse genuino per i problemi spirituali dell’ebreo.
Dovunque si trova disprezzo per la "aggadà", là c’è anche un
impoverimento della "halachah". Soprattutto in alcuni circoli rabbinici
dell'ortodossia moderna molti ne hanno sottovalutato la portata
spirituale. Del resto, anche l’Illuminismo ebraico apprezzava ben poco
lo studio della "aggadà", e con esso gli intellettuali della riforma.
Cosa dovrebbe trasmettere questo ritorno al "chassidismo"? Che non si
deve amare la comodità intellettuale, la cattedra, ma preferire la
vicinanza con gli ebrei lontani, gli ebrei tormentati, quelli che
vegliano, gli ostinati, coloro che hanno una grande voglia di essere
ebrei, coloro che vogliono sopravvivere a tutto e nonostante tutto.
Paolo Sciunnach, rabbino
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Legge ebraica e problemi dell'informazione
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È
dedicato a "Legge ebraica e problemi dell'informazione" il seminario
organizzato dal Collegio Rabbinico Italiano e dalla redazione del
Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it per i giorni 27 e 28
febbraio nella sede del Centro Bibliografico dell'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in Roma.
I lavori sono aperti alla partecipazione di tutti i giornalisti
iscritti alle Comunità ebraiche italiane e agli operatori
dell'informazione impegnati in ambito ebraico e non ebraico. Fra gli
argomenti che saranno affrontati, le principali regole di Halacha che
possono riguardare il lavoro dell'informazione, alcune prospettive di
Middot/Mussar (l'esigenza di giudicare gli altri favorevolmente e
quella di esprimere una visione positiva della propria identità),
spunti dalla storia ebraica e dalla vita di alcuni dei rabbini
giornalisti che hanno segnato le vicende dell'ebraismo italiano. Ospiti
della prima giornata rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, che
interverrà su "Legge ebraica e impegno professionale. Cosa ci si
attende da un ebreo giornalista", e rav Alberto Moshe Somekh che terrà
una lezione dedicata alle regole che probiscono la maldicenza e le
attività lesive dell'onorabilità altrui ("Giornalismo, rechilut e
lashon ha-rà"). Relatori della seconda giornata, il rabbino capo di
Milano rav Alfonso Arbib ("Esigenze dell'informazione e requisiti del
carattere: la risposta ebraica per un impegno professionale sulle vie
del Mussar") e il coordinatore del Collegio Rabbinico Italiano rav
Gianfranco Di Segni ("I rabbini giornalisti nella storia degli ebrei
italiani").
"Si tratta della prima occasione - commenta Guido Vitale, coordinatore
dei dipartimenti Informazione e Cultura dell'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane - di intraprendere un lavoro appassionante: quello di
accordare l'esigenza di fare informazione ebraica in maniera
professionale e non parrocchiale e il dovere di portare nella
professione giornalistica la propria identità in maniera viva, compiuta
e creativa. Di essere ebrei consapevoli impegnati sul fronte
dell'informazione e non più soltanto giornalisti ebrei. In una
situazione di profonde mutazioni e di grandi inquietudini nella società
italiana e nel mondo ebraico in particolare, si tratta anche
dell'occasione di comprendersi meglio. Di dialogare nel rispetto
reciproco e nella consapevolezza che la Legge ebraica può e deve essere
conosciuta e praticata in ogni momento del proprio itinerario
tradizionale e che l'etica professionale giornalistica può e deve
essere comunicata senza ambiguità e mediante comportamenti trasparenti
al nostro pubblico e ai nostri Maestri".
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Cinema – Per Israele un’attesa dolce-amara
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Non
cessano di far discutere le due pellicole israeliane che concorrono
all’assegnazione dell’Oscar 2013 come miglior documentario.
Se da un lato il cinema israeliano può esultare per l’ennesima prova
del grande riconoscimento ottenuto a livello mondiale, dall’altro le
due opere raccontano al mondo alcuni degli aspetti più controversi
della vita dello Stato ebraico agli occhi dell’opinione pubblica.
The Gatekeepers di Dror Moreh raccoglie sei inediti colloqui con tutti
gli ex direttori dello Shin Bet (il servizio di sicurezza israeliano)
ancora in vita, in una pellicola costata circa un milione e mezzo di
dollari: Avraham Shalom, in carica dal 1981 al 1986 (quando si dimise
in seguito all’accusa di aver ordinato l’uccisione di due prigionieri
palestinesi), Yaakov Peri in carica dal 1988 al 1994, appena eletto
alla Knesset nelle file di Yesh Atid, Carmi Gillon, in carica nel 1995
e 1996, poi ambasciatore in Danimarca, Ami Ayalon, in carica dal 1995
al 2000, poi parlamentare nel Labor, Avi Dichter in carica dal 2000 al
2005 (aiutò Sharon a programmare il ritiro da Gaza) poi parlamentare
per Kadima, Yuval Diskin, in carica dal 2005 al 2011. Con tutti il
regista inizia dallo stesso interrogativo “Perché in 45 anni non è
stata trovata una soluzione alla questione israelo-palestinese?”. Ne
emerge un quadro di profonda critica nei confronti della leadership
politica israeliana, e una forte raccomandazione a riprendere i
colloqui di pace e porre fine all’occupazione della Cisgiordania. Anche
se in un’intervista al Washington Post, Moreh ammette che “parte
dell’apparente unanimità delle posizioni è dovuta alla magia
dell’editing”, il regista tiene a sottolineare che, pur facendo
ragionamenti differenti a proposito delle modalità migliori per
raggiungerla, tutti si dichiarano a favore della soluzione basata sui
due Stati.
Ancora più controverso è Five Broken Cameras, diretto dal regista
israeliano Guy Davidi e dal palestinese Emad Burnat. La pellicola
racconta la prospettiva di Burnat sulla vita nel suo villaggio in
Cisgiordania Bil’in in seguito alla decisione di far passare vicino la
barriera difensiva israeliana. Costato circa 250 mila dollari, il
documentario ha fatto molto discutere per il supporto dato da Davidi al
movimento del boicottaggio contro Israele, ma anche per la contrarietà
dei due registi a definire la loro opera come un film israeliano.
“Possiamo essere orgogliosi del dibattito politico aperto e democratico
che abbiamo in Israele” il commento del console generale dello Stato
ebraico a Los Angeles David Siegel, che ha però criticato l’appello al
boicottaggio da parte di Davidi (“Sarei curioso di sapere se include
anche i fondi israeliani che hanno accettato per la realizzazione del
loro film” la puntualizzazione). “E dato che loro non vogliono che Five
Broken Cameras venga associato ad Israele, direi che Israele non deve
sentire il bisogno di riconoscersi in Five Broken Cameras” conclude
Siegel. Diverso il caso di The Gatekeepers. “Dobbiamo distinguere il
riconoscimento artistico e professionale del film dal suo contenuto
politico, che in Israele è oggetto di dibattito”.
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Qui Bologna - Un ricordo di Ze'ev Jabotinsky
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La
straordinaria figura di Ze'ev Jabotinsky, giornalista, scrittore e
padre del sionismo revisionista, e' stata al centro di un intenso
confronto svoltosi nei locali della Comunità ebraica di Bologna grazie
all'impegno di Deborah Romano Menasci dell'Adei Wizo. Ospite
dell'incontro una nipote di Jabotinsky, Hadar, che sta ultimando a
Bologna il suo PhD in International Law. Hadar Jabotinsky ha
sottolineato l'attualita' delle idee liberali propugnate dal bisnonno
per poi tracciare un interessante quadro della moderna società
israeliana rapportata al pensiero dell'illustre avo leggendo e
traducendo alcuni scritti e passi della sua autobiografia.
Molto significativa la presenza di iscritti in sala malgrado le avverse condizioni
del tempo che imperversavano in città.
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Qui Napoli - Un percorso didattico per studiare la Shoah
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La
Shoah è un argomento molto ampio, non sempre semplice da affrontare a
causa delle molte implicazioni interdisciplinari e dell’impatto emotivo
che genera. Come insegnarla? In che modo è possibile aiutare i ragazzi
nello studio e quali sono i percorsi di riflessione più utili?
E’ per rispondere a queste domande che è stato avviato “Un percorso
didattico per lo studio della Shoah”, ciclo di incontri dedicati agli
insegnanti di elementari, medie e superiori, che ha fatto ieri tappa a
Napoli, dopo gli appuntamenti di Roma e Torino svoltisi nei mesi
scorsi.
La giornata di studio, supportata da un contributo della “Conference on
Jewish Material Claims Against Germany”, è stata organizzata
dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dal Ministero
dell’Istruzione, Università e Ricerca in collaborazione con il Cdec, la
Fondazione Museo della Shoah di Roma, la Fondazione Valenzi e il
Progetto Memoria. Location: la scenografica cornice del Maschio
Angioino, il castello medievale che sorge a Napoli a ridosso di piazza
Municipio e che ospita la Fondazione dedicata alla figura di Maurizio
Valenzi, ebreo nato a Tunisi, uno dei più amati sindaci di Napoli,
parlamentare nelle file del PCI e artista.
Dall’approfondimento sulla Shoah in Italia ed Europa a cura degli
storici Michele Sarfatti e Marcello Pezzetti, tra i massimi esperti
dell’argomento nel nostro Paese, alla panoramica delle risorse on line
curata da Sira Fatucci, Coordinatrice della Memoria della Shoah per
l’UCEI; dalla presentazione del portale dell’Archivio di Stato
(interviste della Visual Shoah Foundation) a cura di Lucilla Garofalo,
agli interventi sul teatro e la Shoah (Olek Mincer), sui viaggi della
Memoria e sulla letteratura (a cura di Libera Picchianti e di Lia Toaff
della Fondazione Museo della Shoah), una panoramica a trecentosessanta
gradi, per offrire spunti e suggerimenti operativi, argomenti su cui
riflettere e consigli su come rapportarsi ai ragazzi che stanno per
intraprendere un percorso di studio o un viaggio educativo.
“L’aula piena della Fondazione Valenzi, come accaduto anche per i
seminari di Roma e Torino, testimonia della diffusa necessità di questo
tipo di formazione”, ha detto Sira Fatucci, curatrice del progetto. “I
risultati conseguiti ci stimolano a proseguire con il nostro impegno,
per continuare a fornire gli strumenti adatti per trattare un tema così
delicato.”
Marco Di Porto
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Qui Trieste - Laboratorio Israele
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Come
dovrebbe rispondere Israele di fronte all'accusa di essersi appropriata
di una Terra non sua? Questa la domanda che abbiamo discusso a Trieste
all'incontro “Israele: laboratorio della globalizzazione. Per una nuova
comunità”. Dopo un saluto di Davide Belleli, referente del Gruppo
sionistico, l’incontro si è modulato col pubblico in maniera
appassionata grazie agli interventi di Donatella Di Cesare – della
quale uscirà prossimamente un libro sull’argomento - e rav Ariel
Haddad: i due relatori sono riusciti a cucire al sionismo, da troppo
tempo bisognoso di rinnovamento, un vestito nuovo e assolutamente
originale e originario. Come ha spiegato la professoressa Donatella Di
Cesare “il sionismo ha conseguito una meta decisiva: la fondazione
dello Stato di Israele. Si può dire che – come alcuni affermano – il
suo compito sia esaurito? Soprattutto in Israele, dove viene invocata
una nuova identità israeliana, molti parlano di postsionismo. Oppure il
compito del sionismo va al di là di quella meta di fondare un moderno
Stato democratico? In questo contesto si pone la questione della terra.
Una delle accuse più gravi che l’antisemitismo e anche il negazionismo
muovono agli ebrei nel mondo è quello di essersi appropriati di una
terra non loro. Come rispondere?” Cosa c’è a monte dell’accusa di
illegittimità dello Stato di Israele? E come mai - ha chiesto rav
Haddad - gli ebrei, che nella storia hanno sempre vinto tutte le
dispute, sulla questione di Israele non sono ancora riusciti a
spiegarsi e di conseguenza, escono sconfitti dal confronto (verbale)
con gli altri? Per rispondere bisogna ribaltare le classiche
argomentazioni che, benché vere, si sono rivelate fallimentari per
questo scopo. Anche se è vero - ha sottolineato Donatella
Di Cesare - che storicamente gli ebrei hanno sempre vissuto in Eretz
Israel e hanno mantenuto nei secoli un legame con questa Terra, bisogna
diventare consapevoli di un’altra cosa: Israele mette in discussione
uno dei princìpi cardine dello stato moderno che è quello della
autoctonia. La terra secondo la tradizione ebraica, non è la “terra
madre” bensì la “terra promessa” verso cui l’ebreo si dirige. Zion - ha
spiegato anche il rav - indica nel suo etimo qualcosa in più rispetto a
un luogo geografico: Zion significa infatti collina, fortezza o
roccaforte e “segno” verso cui l’ebreo guarda e si riconosce.
Israele, nella sua esistenza, mostra che nessuno è mai veramente
autoctono; tutti siamo sempre “stranieri residenti”; questo modello di
cittadinanza, valido più che mai oggi nell’epoca della globalizzazione,
dovrebbe essere l’idea a cui altri popoli, stati e nazioni della
contemporaneità dovrebbero rifarsi. Israele in questo senso è il
laboratorio della globalizzazione e la culla di una nuova comunità che
sorge secondo i valori ebraici. L'incontro fa parte
del ciclo “Quale etica ebraica”, inaugurato quest’anno nella comunità
triestina e organizzato dal Dipartimento Educazione e Cultura Ucei in
collaborazione con la Comunità ebraica, il Gruppo Sionistico e
l’Adei-Wizo di Trieste: uno spazio di riflessione aperto, che ha lo
scopo di affrontare temi di attualità relativi alla tradizione ebraica
mostrandone la portata universale.
Ilana Bahbout
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Ognuno indossa la maschera che si merita |
È
bene avere in chiara una cosa, soprattutto in un momento in cui siamo
chiamati a fare delle scelte politiche che avranno inevitabili riflessi
per un paese, l’Italia, dove molti degli indici vitali della società,
quindi non solo quelli economici, sono al ribasso e il futuro sembra
non meno difficile del passato appena trascorso. La tentazione di
rompere tutto è comprensibile ma non va in alcun modo assecondata. Non
solo perché si sa cosa si lascia ma non quello che si troverà bensì
perché già è capitato che dal vaso di Pandora siano usciti non gli
effluvi di una nuova era di sviluppo ma i miasmi della barbarie della
regressione. Non si tratta di avere paura del “nuovo” ma di cercare di
capire se davvero quanto e quanti si presentano sotto quelle spoglie
possano svolgere tale ruolo o non siano, piuttosto, un ulteriore segno
del declino che è oramai da tempo in atto. Non contano, quindi, i veti
e gli anatemi preventivi, ma i giudizi. Che sono tanto più difficili da
maturare in un momento di tensioni, dove la confusione, nel senso
soprattutto di un eccesso di disordinate informazioni, prive di un
codice di interpretazione condivisibile, insieme all’inflazione di
parole d’ordine svuotate del loro reale significato (“sviluppo”,
“crescita”, “progresso”, “equità”), inducono una reazione di diffidenza
al limite del desiderio della defezione. Ma non c’è nulla di peggio di
chi si tira indietro, salvo poi continuare a recitare, come una sorta
di giaculatoria (mi si passi il termine), fuori luogo e fuori tempo, il
novero delle colpe altrui. I problemi del nostro paese sono molti. Tra
questi occorre richiamare il divario generazionale, che va facendosi
incolmabile (con giovani, e a volte anche i meno giovani, sempre più
precarizzati e marginali, a fronte di classi di età più anziane meglio
tutelate, anche se non è sempretutto da leggersi in tali termini); lo
sgretolamento dell’industria nazionale, che in questi ultimi vent’anni
si è compiuto con il colpevole assenso di coloro che si sono alternati
al governo; la mancanza endemica di lavoro, problema che non data certo
ad oggi ma che si sta riproponendo in maniera sempre più drammatica;
l’assenza di una leadership responsabile, altrimenti capace solo di
mettere in scena se stessa, per raccogliere subitaneamente il consenso
collettivo, salvo poi abbandonare la società al suo destino; una
ideologia di senso comune intrisa di populismo becero e regressivo,di
infantilismo, di banalizzazione e trivializzazione della vita e del
vivere insieme; in generale, la subalternità che il nostro paese rivela
da sempre di nutrire nei confronti dei partner europei più forti. Sia
ben chiaro che a questi, come ad altri problemi prioritari, si potrà
rispondere efficacemente solo in un’ottica continentale, ovvero
europea. Che ciò piaccia o meno. Il prossimo governo sarà senz’altro
chiamato ad un’impresa quasi ciclopica, la rinegoziazione con l’Unione
europea di una serie di vincoli e di norme che, se altrimenti applicate
per come sono previste, alle condizione in cui ci troviamo, rischiano
di farci tracollare. Dopo di che qualche avviso ai naviganti, ossia ad
ognuno di noi, mi pare che si possa fornire, senza per questo invadere
il territorio delle libere scelte. Un piccolo memento si impone,
infatti.Quella cosa che, più o meno propriamente chiamiamo “fascismo”,
intendendo con essa non tanto l’omonimo regime, consegnato agli archivi
della storia, ma un atteggiamento mentale persistente, non sta solo a
destra ma alligna anche in altre parti degli schieramenti politici,
oggi forse in auge. Si tratta di un modo di essere, una miscela tra
voglia di rivalsa, crescente intolleranza che si fa veemenza, prurito
alle mani e desiderio di "fare i conti" una volta per tutte. Si
presenta sempre come una palingenesi: afferma di volere rompere quello
che c'è per ricostruire daccapo, con spirito genuino e innovativo.
Dichiara che quanto esiste è corrotto in sé e non presenta rimedio se
non attraverso una obbligata resa dei conti. Si guardi, in tale senso,
il programma sansepolcrista, redatto nel 1919, dai cosiddetti fasci
italiani di combattimento, dove ad affermazioni dichiaratamente
nazionaliste si alternavano rimandi al “socialismo”. In ciò fa appello
ai risentimenti collettivi: siete vittime di ingiustizie, avete dei
conti in sospeso – dice ripetutamente, nel suo argomentare
apparentemente di buon senso, in realtà con fini non certo egualitari –
ed io vi offrirò l’opportunità di vederveli pagati, una buona volta. Si
rivolge indistintamente a tutti, vellica il desiderio di una rivincita,
dichiara che è venuto il momento di buttare gambe all’aria i poteri
costituiti, che sarebbe marci di dentro. Gioca, furbescamente,sul
complesso di esclusione che molti cittadini avvertono, e non a torto,
ai propri danni, offrendo loro facili soluzioni, ossia delle
scorciatoie, a problemi complessi: gli dice che la politica è così
corrotta da dovere essere azzerata. Affermava Gilbert Keith Chesterton:
“chi non crede in D-o non è vero che non crede in niente perché
comincia a credere a tutto". E si potrebbe ribadire che, allo stesso
modo, chi non crede più alla politica comincia a credere politicamente
a tutto, partendo proprio da chi fa la voce più grossa. In quanto
fenomeno che vuol essere di massa, perché alla ricerca di consenso,
tale mentalità fascistica non è un residuo del passato ma un’istanza
del presente. Da qui a suggellare che ciò che può non piacere
politicamente sia "fascista" tout court, ne passa. Ma il presentarsi
con determinati abiti di certi atteggiamenti urlati, dinanzi ad una
platea compiaciuta, divertita, passivamente partecipe, quasi
“oceanica”, deve pure fare riflettere. Per non cadere in facili e
seduttive trappole. Come devono fare riflettere le condiscendenze che
nel discorso politico di questi ultimi due decenni sono state offerte
ad un passato, quello ancora una volta fascista, che ha lasciato una
traccia indelebile nell’incoscienza di una parte degli italiani. Sì,
nell’incoscienza, non nella coscienza. Troppo spesso si sono vellicati
quei trascorsi, con ammiccamenti e rimandi, quasi a volere dire che le
cose, allora, non andavano troppo male. C’è chi ne ha fatto un’apologia
anche in tempi recenti. Cosa c’entra tutto ciò con le prove elettorali
in corso e a venire? Molto. C’è una tentazione, che attraversa una
parte della collettività italiana, quella che sta subendo il
declassamento economico: la delega ad un salvatore della patria, capace
di fare sognare, prima ancora che di realizzare qualcosa. Non è fatto
nuovo, per l’appunto. Rivela la potenziale debolezza delle istituzioni
liberali, a tratti il fragile radicamento della democrazia nel nostro
paese, l’inettitudine di classi di governo autoreferenziali, distanti
dai problemi del bene pubblico e dell’interesse collettivo. Non di
meno, ci dice che chi si sente con una corda al collo cerca a volte nel
proprio boia il suo salvatore. Non è tempo di prediche ma senz’altro di
partecipazione vigile. Ci piaccia o meno, va ribadito, le chance di
questo paese sono in Europa, senza la quale non c’è futuro. Se i suoi
organismi si sono rivelati iniqui vanno riformati, non disintegrati.
Per farlo occorrono voci autorevoli perché credibili, per parte nostra.
In alternativa c’è solo il sogno infantile della bacchetta magica, che
libera tutti, in un colpo solo, dalla condizione del bisogno. Salvo poi
scoprire che il sogno è in realtà un incubo.
Claudio
Vercelli, storico
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Nugae - Ipocondria
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“Il
punto è che sono sempre certo di imbattermi in qualcosa che mi mette in
pericolo di vita. Poco importa che pochi siano mai morti di labbra
screpolate. Ogni minimo male o dolore mi spedisce nello studio di un
medico, per farmi rassicurare che la mia ultima allergia non
necessiterà di un trapianto di cuore”. Così Woody Allen ha descritto
qualche tempo fa in un meraviglioso articolo sul New York Times cosa
sia l’ipocondria. Anzi, in realtà lui si definisce un allarmista: i
suoi sintomi non sono immaginari, sono reali. E lo mandano nel panico
più completo come se fossero spia di qualcosa di gravissimo. Ora, è
chiaro che per una che era già un’ammiratrice devota del mitico
regista, quella di condividere con lui questa forma di follia, e per di
più nella stessa sfumatura, è un segno del destino. Ma la verità è che
non ci vuole Woody Allen per capire che l’ipocondria è in grado di
generare situazioni da commedia. Di certo per chi le osserva, ma una
volta scampato il pericolo, in realtà anche per l’ipocondriaco stesso.
Per esempio, spegnere di colpo la tv ogni volta che va in onda non solo
il Dr. House, per non rischiare di venire a conoscenza di nuove
malattie i cui sintomi si potrebbero riconoscere in sé un domani, ma
persino Bay watch (esatto, quella dei bagnini) perché una volta a un
personaggio veniva diagnosticata una malattia per cui gli si sarebbe
gradualmente ristretto il campo visivo fino alla cecità, e “in effetti
ultimamente anche a me sembra, o mamma mia diventerò cieca”. Oppure
saltare la scuola perché la notte prima si avvertiva uno “strano
fastidio” alla schiena, inizio ovviamente di una paralisi a vita, per
andare da quel poveretto del dottore la mattina a farsi dire solamente:
“signorina, dopo il liceo lei non vada mai e poi mai a studiare
medicina”. È come dice Woody: “È anche vero che quando esco di casa per
fare due passi a Central Park o bere un caffè da Starbucks, capita di
passare a fare un rapido elettrocardiogramma o una TAC, così per
precauzione. Anche quando l’esito del mio controllo annuale mostra
perfetta salute, come posso rilassarmi sapendo che nel momento stesso
in cui lascio lo studio del dottore qualcosa potrebbe cominciare a
crescere in me e fra un intero anno la radiografia del mio torace
potrebbe somigliare a un quadro di Jackson Pollock?”.
Francesca
Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF
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Sorgente di vita - Benedetto XVI,
quale bilancio nel dialogo interreligioso
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La
visita al Tempio Maggiore di Roma e ad altre sinagoghe, il viaggio ad
Auschwitz, i gesti, le parole di Benedetto XVI nei confronti del mondo
ebraico sulla strada indicata dal Concilio Ecumenico Vaticano II
e dai suoi predecessori.
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Il
6 marzo 2013 avrà luogo la prima Giornata europea dedicata ai Giusti
promossa dall’Associazione Gariwo, la Foresta dei Giusti, fondata a
Milano nel 2003 con la collaborazione dell’Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane e del Comune di Milano.
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
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