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  24 febbraio 2013 - 14 Adar 5773
l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
alef/tav

Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino


Una volta l'anno è salutare travestirsi, come facciamo oggi in occasione di Purim: siamo costretti a sapere quale è il nostro vero volto sotto la maschera. Quando la toglieremo saremo in grado, forse, di mostrarlo.

David Bidussa, storico sociale
delle idee
   

Da ieri e fino a giovedì 28 febbraio, a cura di Fondazione Cineteca Italiana, in collaborazione con la Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, si svolge la sesta edizione di Nuovo cinema israeliano a Milano.
Se si tira la riga e si fa la somma, il cinema israeliano sta andando a gonfie vele mentre, intorno, le idee arrancano. E’ un segnale di una realtà che non si arrende e che non teme il confronto pubblico, anche aspro, con i propri vizi, le proprie contraddizioni interne, le proprie fratture. Soprattutto li mostra e si mostra senza veli. Una condizione che non farebbe male nemmeno a noi ebrei che viviamo da questa parte.

davar
L'Italia ebraica festeggia Purim
L'Italia ebraica festeggia in queste ore Purim, una delle ricorrenze più gioiose e attese da grandi e piccini. Numerose le occasioni di condivisione, all'insegna del divertimento e della spensieratezza, organizzate nelle varie Comunità. Nell'immagine un momento della recita portata in scena a Firenze davanti a molte centinaia di persone dai genitori dei bambini dell'asilo comunitario Gam Gam. In scena uno spassoso re Assuero travolto dalla vanesia e salvato, anche in questa circostanza, dalla saggezza e dal coraggio della regina Ester. A seguire, performance musicale con i ragazzi del laboratorio klezmer animato da Enrico Fink. Da Milano a Roma, da Genova a Trieste: le storie, i colori e i sapori di Purim (su tutti quello delle mitiche orecchie di Amman) attraversano l'Italia per lanciare un messaggio di unità e fiducia nel futuro.
A tutti i nostri lettori un caloroso augurio di Purim Sameach!


Rabbini - Le altre elezioni d'Israele
Ancora non si è placato l’eco delle votazioni per il Parlamento israeliano. Un’eco (o forse un rumore) tanto forte, da far passare sotto traccia il fatto che si terranno a breve delle altre elezioni. Di tutt’altro genere, eppure altrettanto, e forse ancora più fondamentali per dare forma all’identità israeliana del prossimo futuro: alla fine della primavera 2013 scadrà il mandato decennale dei due rabbini capo di Israele, l’ashkenazita Yona Metzger e il sefardita Shlomo Amar. E la vera novità sta nel fatto che per la prima volta potrebbe essere scelto per ricoprire l’incarico un rabbino non proveniente dal mondo haredì. Una novità che rappresenterebbe una svolta epocale, e che potrebbe essere favorita anche dall’esito delle urne, con due dei partiti più influenti, Yesh Atid e Habayit Hayehudi, che premono entrambi per il ridimensionamento dell’influenza dell’ebraismo haredì nella vita pubblica. La nascita della carica di rabbino capo della nazione va fatta risalire alla dominazione turca: il rabbino capo di Costantinopoli costituiva il rappresentante degli ebrei davanti al sultano. Nel 1921, sotto il Mandato britannico, vennero nominati per la prima volta un rabbino capo ashkenazita e uno sefardita. Il potere del rabbinato centrale venne però sancito definitivamente da un accordo tra David Ben Gurion e i partiti religiosi nel 1947, accordo che stabiliva la giurisdizione sulle questioni legate allo status personale, compresi matrimoni, divorzi e funerali e sui problemi legati a temi religiosi, come la kasherut. Nel corso dei decenni successivi le cariche sono sempre state ricoperte da rabbini haredim. Ma nelle scorse settimane ha lanciato la sua candidatura il rabbino David Stav (nell'immagine), che guida l’organizzazione modern orthodox Tzohar. Obiettivo fondamentale del suo progetto quello di riavvicinare il rabbinato alla società israeliana. La cattiva gestione dei nodi riguardanti il diritto di famiglia, secondo rav Stav, contribuiscono ad allontanare sempre più la popolazione israeliana laica dalle tradizioni, con un grave rischio di disgregazione. “Nel 2010, 9mila 300 coppie su 36 mila hanno scelto di sposarsi all’estero, a Cipro, a Burgas e a Praga – ha fatto notare al quotidiano Israel Hayom (in Israele non esistono le nozze civili) – Di questo passo, fra vent’anni la maggioranza degli israeliani non sarà sposata secondo il rito religioso”. Se per il posto di rabbino capo sefardita per ora viene data probabile la riconferma di Shlomo Amar, per quello di rabbino capo ashkenazita sono molti i nomi già circolati, tra cui quelli di rav Yaakov Shapira e rav David Lau, entrambi figli di precendenti guide del rabbinato centrale (rispettivamente rav Avraham Shapira dal 1983 al 1993 e rav Yisrael Lau dal 1993 al 2003). Tzohar però è decisa a dare battaglia: intensissima la campagna per promuovere la candidatura di rav Stav. Essendo il rabbino capo scelto da un comitato di 150 pubblici rappresentanti, tra politici e rabbini, l’opinione pubblica potrebbe non essere così influente. Eppure rav Stav starebbe ottenendo dei successi notevoli: l’americano The Jewish Forward riporta che sarebbe già in essere un accordo di reciproco sostegno con rav Amar. Le sfide che rav Stav mette in evidenza nelle sue interviste ai media israeliani sono numerose: dal garantire a tutti la possibilità di divorziare in modo efficiente e rispettoso, alla questione della kasherut, che nel parere di rav Stav andrebbe privatizzata, dal tema delle conversioni (“non possiamo dire a chi arriva in Israele e non ha i documenti che ne attestino l’appartenza ebraica secondo l’Halakhah che deve arrangiarsi, dobbiamo offrire il nostro supporto”), a quello delle sepolture (“se non permettiamo alle donne di pronunciare gli elogi funebri, non possiamo stupirci che aumentino i funerali celebrati con rito civile”). Il rabbinato risponde alle critiche colpo su colpo. Bisognerà aspettare qualche mese per sapere se la svolta arriverà: certo è che il futuro dello Stato ebraico passa anche da queste elezioni.

Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche, marzo 2013 twitter @rtercatinmoked

Rabbini - "Serve qualcuno che sappia stare vicino alla gente"


Siamo alle porte della rielezione del Rabbinato centrale di Israele. Serve una rinascita spirituale. Serve un rinnovamento etico.
Credo che il mondo rabbinico di oggi abbia bisogno di un "nuovo chassidismo", il mondo rabbinico è in preda alla "politica": si è soliti incolpare la filosofia antireligiosa dell’eclissi della religione nella società moderna. Sarebbe invece più onesto incolpare alcune autorità rabbiniche dei loro propri insuccessi. Quando la religione parla solo in nome dell’autorità piuttosto che con la voce della compassione, è proprio allora che il suo messaggio diventa privo di significato. Diceva il Kotzker Rebbe: quale è la differenza profonda tra un vero Chassid e un Mitnaghed? Un buon Chassid ha amore di D-o, un Mitnaghed ha solo timore dello Shulchan Aruch.
Lo spirito della Torah ("aggadà") è unito e legato alla legge della Torah ("halachah"). La svalutazione della "aggadà" è un segno della mancanza di un interesse genuino per i problemi spirituali dell’ebreo. Dovunque si trova disprezzo per la "aggadà", là c’è anche un impoverimento della "halachah". Soprattutto in alcuni circoli rabbinici dell'ortodossia moderna molti ne hanno sottovalutato la portata spirituale. Del resto, anche l’Illuminismo ebraico apprezzava ben poco lo studio della "aggadà", e con esso gli intellettuali della riforma.
Cosa dovrebbe trasmettere questo ritorno al "chassidismo"? Che non si deve amare la comodità intellettuale, la cattedra, ma preferire la vicinanza con gli ebrei lontani, gli ebrei tormentati, quelli che vegliano, gli ostinati, coloro che hanno una grande voglia di essere ebrei, coloro che vogliono sopravvivere a tutto e nonostante tutto.

Paolo Sciunnach, rabbino

Legge ebraica e problemi dell'informazione
È dedicato a "Legge ebraica e problemi dell'informazione" il seminario organizzato dal Collegio Rabbinico Italiano e dalla redazione del Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it per i giorni 27 e 28 febbraio nella sede del Centro Bibliografico dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane in Roma.
I lavori sono aperti alla partecipazione di tutti i giornalisti iscritti alle Comunità ebraiche italiane e agli operatori dell'informazione impegnati in ambito ebraico e non ebraico. Fra gli argomenti che saranno affrontati, le principali regole di Halacha che possono riguardare il lavoro dell'informazione, alcune prospettive di Middot/Mussar (l'esigenza di giudicare gli altri favorevolmente e quella di esprimere una visione positiva della propria identità), spunti dalla storia ebraica e dalla vita di alcuni dei rabbini giornalisti che hanno segnato le vicende dell'ebraismo italiano. Ospiti della prima giornata rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, che interverrà su "Legge ebraica e impegno professionale. Cosa ci si attende da un ebreo giornalista", e rav Alberto Moshe Somekh che terrà una lezione dedicata alle regole che probiscono la maldicenza e le attività lesive dell'onorabilità altrui ("Giornalismo, rechilut e lashon ha-rà"). Relatori della seconda giornata, il rabbino capo di Milano rav Alfonso Arbib ("Esigenze dell'informazione e requisiti del carattere: la risposta ebraica per un impegno professionale sulle vie del Mussar") e il coordinatore del Collegio Rabbinico Italiano rav Gianfranco Di Segni ("I rabbini giornalisti nella storia degli ebrei italiani").
"Si tratta della prima occasione - commenta Guido Vitale, coordinatore dei dipartimenti Informazione e Cultura dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane - di intraprendere un lavoro appassionante: quello di accordare l'esigenza di fare informazione ebraica in maniera professionale e non parrocchiale e il dovere di portare nella professione giornalistica la propria identità in maniera viva, compiuta e creativa. Di essere ebrei consapevoli impegnati sul fronte dell'informazione e non più soltanto giornalisti ebrei. In una situazione di profonde mutazioni e di grandi inquietudini nella società italiana e nel mondo ebraico in particolare, si tratta anche dell'occasione di comprendersi meglio. Di dialogare nel rispetto reciproco e nella consapevolezza che la Legge ebraica può e deve essere conosciuta e praticata in ogni momento del proprio itinerario tradizionale e che l'etica professionale giornalistica può e deve essere comunicata senza ambiguità e mediante comportamenti trasparenti al nostro pubblico e ai nostri Maestri". 


Cinema – Per Israele un’attesa dolce-amara
Non cessano di far discutere le due pellicole israeliane che concorrono all’assegnazione dell’Oscar 2013 come miglior documentario.
Se da un lato il cinema israeliano può esultare per l’ennesima prova del grande riconoscimento ottenuto a livello mondiale, dall’altro le due opere raccontano al mondo alcuni degli aspetti più controversi della vita dello Stato ebraico agli occhi dell’opinione pubblica.
The Gatekeepers di Dror Moreh raccoglie sei inediti colloqui con tutti gli ex direttori dello Shin Bet (il servizio di sicurezza israeliano) ancora in vita, in una pellicola costata circa un milione e mezzo di dollari: Avraham Shalom, in carica dal 1981 al 1986 (quando si dimise in seguito all’accusa di aver ordinato l’uccisione di due prigionieri palestinesi), Yaakov Peri in carica dal 1988 al 1994, appena eletto alla Knesset nelle file di Yesh Atid, Carmi Gillon, in carica nel 1995 e 1996, poi ambasciatore in Danimarca, Ami Ayalon, in carica dal 1995 al 2000, poi parlamentare nel Labor, Avi Dichter in carica dal 2000 al 2005 (aiutò Sharon a programmare il ritiro da Gaza) poi parlamentare per Kadima, Yuval Diskin, in carica dal 2005 al 2011. Con tutti il regista inizia dallo stesso interrogativo “Perché in 45 anni non è stata trovata una soluzione alla questione israelo-palestinese?”. Ne emerge un quadro di profonda critica nei confronti della leadership politica israeliana, e una forte raccomandazione a riprendere i colloqui di pace e porre fine all’occupazione della Cisgiordania. Anche se in un’intervista al Washington Post, Moreh ammette che “parte dell’apparente unanimità delle posizioni è dovuta alla magia dell’editing”, il regista tiene a sottolineare che, pur facendo ragionamenti differenti a proposito delle modalità migliori per raggiungerla, tutti si dichiarano a favore della soluzione basata sui due Stati.
Ancora più controverso è Five Broken Cameras, diretto dal regista israeliano Guy Davidi e dal palestinese Emad Burnat. La pellicola racconta la prospettiva di Burnat sulla vita nel suo villaggio in Cisgiordania Bil’in in seguito alla decisione di far passare vicino la barriera difensiva israeliana. Costato circa 250 mila dollari, il documentario ha fatto molto discutere per il supporto dato da Davidi al movimento del boicottaggio contro Israele, ma anche per la contrarietà dei due registi a definire la loro opera come un film israeliano.
“Possiamo essere orgogliosi del dibattito politico aperto e democratico che abbiamo in Israele” il commento del console generale dello Stato ebraico a Los Angeles David Siegel, che ha però criticato l’appello al boicottaggio da parte di Davidi (“Sarei curioso di sapere se include anche i fondi israeliani che hanno accettato per la realizzazione del loro film” la puntualizzazione). “E dato che loro non vogliono che Five Broken Cameras venga associato ad Israele, direi che Israele non deve sentire il bisogno di riconoscersi in Five Broken Cameras” conclude Siegel. Diverso il caso di The Gatekeepers. “Dobbiamo distinguere il riconoscimento artistico e professionale del film dal suo contenuto politico, che in Israele è oggetto di dibattito”.

Qui Bologna - Un ricordo di Ze'ev Jabotinsky
La straordinaria figura di Ze'ev Jabotinsky, giornalista, scrittore e padre del sionismo revisionista, e' stata al centro di un intenso confronto svoltosi nei locali della Comunità ebraica di Bologna grazie all'impegno di Deborah Romano Menasci dell'Adei Wizo. Ospite dell'incontro una nipote di Jabotinsky, Hadar, che sta ultimando a Bologna il suo PhD in International Law. Hadar Jabotinsky ha sottolineato l'attualita' delle idee liberali propugnate dal bisnonno per poi tracciare un interessante quadro della moderna società israeliana rapportata al pensiero dell'illustre avo leggendo e traducendo alcuni scritti e passi della sua autobiografia.
Molto significativa la presenza di iscritti in sala malgrado le avverse condizioni
del tempo che imperversavano in città.


Qui Napoli - Un percorso didattico per studiare la Shoah
La Shoah è un argomento molto ampio, non sempre semplice da affrontare a causa delle molte implicazioni interdisciplinari e dell’impatto emotivo che genera. Come insegnarla? In che modo è possibile aiutare i ragazzi nello studio e quali sono i percorsi di riflessione più utili?
E’ per rispondere a queste domande che è stato avviato “Un percorso didattico per lo studio della Shoah”, ciclo di incontri dedicati agli insegnanti di elementari, medie e superiori, che ha fatto ieri tappa a Napoli, dopo gli appuntamenti di Roma e Torino svoltisi nei mesi scorsi.
La giornata di studio, supportata da un contributo della “Conference on Jewish Material Claims Against Germany”, è stata organizzata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca in collaborazione con il Cdec, la Fondazione Museo della Shoah di Roma, la Fondazione Valenzi e il Progetto Memoria. Location: la scenografica cornice del Maschio Angioino, il castello medievale che sorge a Napoli a ridosso di piazza Municipio e che ospita la Fondazione dedicata alla figura di Maurizio Valenzi, ebreo nato a Tunisi, uno dei più amati sindaci di Napoli, parlamentare nelle file del PCI e artista.
Dall’approfondimento sulla Shoah in Italia ed Europa a cura degli storici Michele Sarfatti e Marcello Pezzetti, tra i massimi esperti dell’argomento nel nostro Paese, alla panoramica delle risorse on line curata da Sira Fatucci, Coordinatrice della Memoria della Shoah per l’UCEI; dalla presentazione del portale dell’Archivio di Stato (interviste della Visual Shoah Foundation) a cura di Lucilla Garofalo, agli interventi sul teatro e la Shoah (Olek Mincer), sui viaggi della Memoria e sulla letteratura (a cura di Libera Picchianti e di Lia Toaff della Fondazione Museo della Shoah), una panoramica a trecentosessanta gradi, per offrire spunti e suggerimenti operativi, argomenti su cui riflettere e consigli su come rapportarsi ai ragazzi che stanno per intraprendere un percorso di studio o un viaggio educativo.
“L’aula piena della Fondazione Valenzi, come accaduto anche per i seminari di Roma e Torino, testimonia della diffusa necessità di questo tipo di formazione”, ha detto Sira Fatucci, curatrice del progetto. “I risultati conseguiti ci stimolano a proseguire con il nostro impegno, per continuare a fornire gli strumenti adatti per trattare un tema così delicato.”

Marco Di Porto

Qui Trieste - Laboratorio Israele
Come dovrebbe rispondere Israele di fronte all'accusa di essersi appropriata di una Terra non sua? Questa la domanda che abbiamo discusso a Trieste all'incontro “Israele: laboratorio della globalizzazione. Per una nuova comunità”. Dopo un saluto di Davide Belleli, referente del Gruppo sionistico, l’incontro si è modulato col pubblico in maniera appassionata grazie agli interventi di Donatella Di Cesare – della quale uscirà prossimamente un libro sull’argomento - e rav Ariel Haddad: i due relatori sono riusciti a cucire al sionismo, da troppo tempo bisognoso di rinnovamento, un vestito nuovo e assolutamente originale e originario. Come ha spiegato la professoressa Donatella Di Cesare “il sionismo ha conseguito una meta decisiva: la fondazione dello Stato di Israele. Si può dire che – come alcuni affermano – il suo compito sia esaurito? Soprattutto in Israele, dove viene invocata una nuova identità israeliana, molti parlano di postsionismo. Oppure il compito del sionismo va al di là di quella meta di fondare un moderno Stato democratico? In questo contesto si pone la questione della terra. Una delle accuse più gravi che l’antisemitismo e anche il negazionismo muovono agli ebrei nel mondo è quello di essersi appropriati di una terra non loro. Come rispondere?” Cosa c’è a monte dell’accusa di illegittimità dello Stato di Israele? E come mai - ha chiesto rav Haddad - gli ebrei, che nella storia hanno sempre vinto tutte le dispute, sulla questione di Israele non sono ancora riusciti a spiegarsi e di conseguenza, escono sconfitti dal confronto (verbale) con gli altri? Per rispondere bisogna ribaltare le classiche argomentazioni che, benché vere, si sono rivelate fallimentari per questo scopo.   Anche se è vero - ha sottolineato Donatella Di Cesare - che storicamente gli ebrei hanno sempre vissuto in Eretz Israel e hanno mantenuto nei secoli un legame con questa Terra, bisogna diventare consapevoli di un’altra cosa: Israele mette in discussione uno dei princìpi cardine dello stato moderno che è quello della autoctonia. La terra secondo la tradizione ebraica, non è la “terra madre” bensì la “terra promessa” verso cui l’ebreo si dirige. Zion - ha spiegato anche il rav - indica nel suo etimo qualcosa in più rispetto a un luogo geografico: Zion significa infatti collina, fortezza o roccaforte e “segno” verso cui l’ebreo guarda e si riconosce.  Israele, nella sua esistenza, mostra che nessuno è mai veramente autoctono; tutti siamo sempre “stranieri residenti”; questo modello di cittadinanza, valido più che mai oggi nell’epoca della globalizzazione, dovrebbe essere l’idea a cui altri popoli, stati e nazioni della contemporaneità dovrebbero rifarsi. Israele in questo senso è il laboratorio della globalizzazione e la culla di una nuova comunità che sorge secondo i valori ebraici.    L'incontro fa parte del ciclo “Quale etica ebraica”, inaugurato quest’anno nella comunità triestina e organizzato dal Dipartimento Educazione e Cultura Ucei in collaborazione con la Comunità ebraica, il Gruppo Sionistico e l’Adei-Wizo di Trieste: uno spazio di riflessione aperto, che ha lo scopo di affrontare temi di attualità relativi alla tradizione ebraica mostrandone la portata universale.

Ilana Bahbout

pilpul
Ognuno indossa la maschera che si merita
È bene avere in chiara una cosa, soprattutto in un momento in cui siamo chiamati a fare delle scelte politiche che avranno inevitabili riflessi per un paese, l’Italia, dove molti degli indici vitali della società, quindi non solo quelli economici, sono al ribasso e il futuro sembra non meno difficile del passato appena trascorso. La tentazione di rompere tutto è comprensibile ma non va in alcun modo assecondata. Non solo perché si sa cosa si lascia ma non quello che si troverà bensì perché già è capitato che dal vaso di Pandora siano usciti non gli effluvi di una nuova era di sviluppo ma i miasmi della barbarie della regressione. Non si tratta di avere paura del “nuovo” ma di cercare di capire se davvero quanto e quanti si presentano sotto quelle spoglie possano svolgere tale ruolo o non siano, piuttosto, un ulteriore segno del declino che è oramai da tempo in atto. Non contano, quindi, i veti e gli anatemi preventivi, ma i giudizi. Che sono tanto più difficili da maturare in un momento di tensioni, dove la confusione, nel senso soprattutto di un eccesso di disordinate informazioni, prive di un codice di interpretazione condivisibile, insieme all’inflazione di parole d’ordine svuotate del loro reale significato (“sviluppo”, “crescita”, “progresso”, “equità”), inducono una reazione di diffidenza al limite del desiderio della defezione. Ma non c’è nulla di peggio di chi si tira indietro, salvo poi continuare a recitare, come una sorta di giaculatoria (mi si passi il termine), fuori luogo e fuori tempo, il novero delle colpe altrui. I problemi del nostro paese sono molti. Tra questi occorre richiamare il divario generazionale, che va facendosi incolmabile (con giovani, e a volte anche i meno giovani, sempre più precarizzati e marginali, a fronte di classi di età più anziane meglio tutelate, anche se non è sempretutto da leggersi in tali termini); lo sgretolamento dell’industria nazionale, che in questi ultimi vent’anni si è compiuto con il colpevole assenso di coloro che si sono alternati al governo; la mancanza endemica di lavoro, problema che non data certo ad oggi ma che si sta riproponendo in maniera sempre più drammatica; l’assenza di una leadership responsabile, altrimenti capace solo di mettere in scena se stessa, per raccogliere subitaneamente il consenso collettivo, salvo poi abbandonare la società al suo destino; una ideologia di senso comune intrisa di populismo becero e regressivo,di infantilismo, di banalizzazione e trivializzazione della vita e del vivere insieme; in generale, la subalternità che il nostro paese rivela da sempre di nutrire nei confronti dei partner europei più forti. Sia ben chiaro che a questi, come ad altri problemi prioritari, si potrà rispondere efficacemente solo in un’ottica continentale, ovvero europea. Che ciò piaccia o meno. Il prossimo governo sarà senz’altro chiamato ad un’impresa quasi ciclopica, la rinegoziazione con l’Unione europea di una serie di vincoli e di norme che, se altrimenti applicate per come sono previste, alle condizione in cui ci troviamo, rischiano di farci tracollare. Dopo di che qualche avviso ai naviganti, ossia ad ognuno di noi, mi pare che si possa fornire, senza per questo invadere il territorio delle libere scelte. Un piccolo memento si impone, infatti.Quella cosa che, più o meno propriamente chiamiamo “fascismo”, intendendo con essa non tanto l’omonimo regime, consegnato agli archivi della storia, ma un atteggiamento mentale persistente, non sta solo a destra ma alligna anche in altre parti degli schieramenti politici, oggi forse in auge. Si tratta di un modo di essere, una miscela tra voglia di rivalsa, crescente intolleranza che si fa veemenza, prurito alle mani e desiderio di "fare i conti" una volta per tutte. Si presenta sempre come una palingenesi: afferma di volere rompere quello che c'è per ricostruire daccapo, con spirito genuino e innovativo. Dichiara che quanto esiste è corrotto in sé e non presenta rimedio se non attraverso una obbligata resa dei conti. Si guardi, in tale senso, il programma sansepolcrista, redatto nel 1919, dai cosiddetti fasci italiani di combattimento, dove ad affermazioni dichiaratamente nazionaliste si alternavano rimandi al “socialismo”. In ciò fa appello ai risentimenti collettivi: siete vittime di ingiustizie, avete dei conti in sospeso – dice ripetutamente, nel suo argomentare apparentemente di buon senso, in realtà con fini non certo egualitari – ed io vi offrirò l’opportunità di vederveli pagati, una buona volta. Si rivolge indistintamente a tutti, vellica il desiderio di una rivincita, dichiara che è venuto il momento di buttare gambe all’aria i poteri costituiti, che sarebbe marci di dentro. Gioca, furbescamente,sul complesso di esclusione che molti cittadini avvertono, e non a torto, ai propri danni, offrendo loro facili soluzioni, ossia delle scorciatoie, a problemi complessi: gli dice che la politica è così corrotta da dovere essere azzerata. Affermava Gilbert Keith Chesterton: “chi non crede in D-o non è vero che non crede in niente perché comincia a credere a tutto". E si potrebbe ribadire che, allo stesso modo, chi non crede più alla politica comincia a credere politicamente a tutto, partendo proprio da chi fa la voce più grossa. In quanto fenomeno che vuol essere di massa, perché alla ricerca di consenso, tale mentalità fascistica non è un residuo del passato ma un’istanza del presente. Da qui a suggellare che ciò che può non piacere politicamente sia "fascista" tout court, ne passa. Ma il presentarsi con determinati abiti di certi atteggiamenti urlati, dinanzi ad una platea compiaciuta, divertita, passivamente partecipe, quasi “oceanica”, deve pure fare riflettere. Per non cadere in facili e seduttive trappole. Come devono fare riflettere le condiscendenze che nel discorso politico di questi ultimi due decenni sono state offerte ad un passato, quello ancora una volta fascista, che ha lasciato una traccia indelebile nell’incoscienza di una parte degli italiani. Sì, nell’incoscienza, non nella coscienza. Troppo spesso si sono vellicati quei trascorsi, con ammiccamenti e rimandi, quasi a volere dire che le cose, allora, non andavano troppo male. C’è chi ne ha fatto un’apologia anche in tempi recenti. Cosa c’entra tutto ciò con le prove elettorali in corso e a venire? Molto. C’è una tentazione, che attraversa una parte della collettività italiana, quella che sta subendo il declassamento economico: la delega ad un salvatore della patria, capace di fare sognare, prima ancora che di realizzare qualcosa. Non è fatto nuovo, per l’appunto. Rivela la potenziale debolezza delle istituzioni liberali, a tratti il fragile radicamento della democrazia nel nostro paese, l’inettitudine di classi di governo autoreferenziali, distanti dai problemi del bene pubblico e dell’interesse collettivo. Non di meno, ci dice che chi si sente con una corda al collo cerca a volte nel proprio boia il suo salvatore. Non è tempo di prediche ma senz’altro di partecipazione vigile. Ci piaccia o meno, va ribadito, le chance di questo paese sono in Europa, senza la quale non c’è futuro. Se i suoi organismi si sono rivelati iniqui vanno riformati, non disintegrati. Per farlo occorrono voci autorevoli perché credibili, per parte nostra. In alternativa c’è solo il sogno infantile della bacchetta magica, che libera tutti, in un colpo solo, dalla condizione del bisogno. Salvo poi scoprire che il sogno è in realtà un incubo.

Claudio Vercelli, storico

Nugae - Ipocondria
“Il punto è che sono sempre certo di imbattermi in qualcosa che mi mette in pericolo di vita. Poco importa che pochi siano mai morti di labbra screpolate. Ogni minimo male o dolore mi spedisce nello studio di un medico, per farmi rassicurare che la mia ultima allergia non necessiterà di un trapianto di cuore”. Così Woody Allen ha descritto qualche tempo fa in un meraviglioso articolo sul New York Times cosa sia l’ipocondria. Anzi, in realtà lui si definisce un allarmista: i suoi sintomi non sono immaginari, sono reali. E lo mandano nel panico più completo come se fossero spia di qualcosa di gravissimo. Ora, è chiaro che per una che era già un’ammiratrice devota del mitico regista, quella di condividere con lui questa forma di follia, e per di più nella stessa sfumatura, è un segno del destino. Ma la verità è che non ci vuole Woody Allen per capire che l’ipocondria è in grado di generare situazioni da commedia. Di certo per chi le osserva, ma una volta scampato il pericolo, in realtà anche per l’ipocondriaco stesso. Per esempio, spegnere di colpo la tv ogni volta che va in onda non solo il Dr. House, per  non rischiare di venire a conoscenza di nuove malattie i cui sintomi si potrebbero riconoscere in sé un domani, ma persino Bay watch (esatto, quella dei bagnini) perché una volta a un personaggio veniva diagnosticata una malattia per cui gli si sarebbe gradualmente ristretto il campo visivo fino alla cecità, e “in effetti ultimamente anche a me sembra, o mamma mia diventerò cieca”. Oppure saltare la scuola perché la notte prima si avvertiva uno “strano fastidio” alla schiena, inizio ovviamente di una paralisi a vita, per andare da quel poveretto del dottore la mattina a farsi dire solamente: “signorina, dopo il liceo lei non vada mai e poi mai a studiare medicina”. È come dice Woody: “È anche vero che quando esco di casa per fare due passi a Central Park o bere un caffè da Starbucks, capita di passare a fare un rapido elettrocardiogramma o una TAC, così per precauzione. Anche quando l’esito del mio controllo annuale mostra perfetta salute, come posso rilassarmi sapendo che nel momento stesso in cui lascio lo studio del dottore qualcosa potrebbe cominciare a crescere in me e fra un intero anno la radiografia del mio torace potrebbe somigliare a un quadro di Jackson Pollock?”.  

Francesca Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF
           

notizieflash   rassegna stampa
Sorgente di vita - Benedetto XVI,
quale bilancio nel dialogo interreligioso
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La visita al Tempio Maggiore di Roma e ad altre sinagoghe, il viaggio ad Auschwitz, i gesti, le parole di Benedetto XVI nei confronti del mondo ebraico sulla strada indicata dal Concilio Ecumenico Vaticano  II e dai suoi predecessori.




 

Il 6 marzo 2013 avrà luogo la prima Giornata europea dedicata ai Giusti promossa dall’Associazione Gariwo, la Foresta dei Giusti, fondata a Milano nel 2003 con la collaborazione dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e del Comune di Milano.









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