se non
visualizzi correttamente questo messaggio, fai click
qui
|
25 febbraio 2013 - 8 Adar
5773 |
|
|
|
|
|
Adolfo
Locci, rabbino capo
di Padova
|
"…nel momento in
cui li conterai, ciascuno darà un riscatto all'Eterno per espiare la
propria persona e non si verificherà nessuna piaga (neghef נגף)" (Esodo
30:12). Rabbì Moshè David Valle (1697-1777), asserisce che questo verso
esprime una misericordia divina, che anticipa la cura alla ferita. Il
dono del mezzo shekel blocca la piaga. Il popolo d'Israele è paragonato
alla vite (ghefen גפן; Salmi 80:9 "Tu hai prelevato dall'Egitto una
vite...) che se non curata si deteriora cosicché la vite גפן diventa
נגף piaga. Quando sapremo riscattare le nostre persone, la piaga sarà
annullata e la vite si manterrà...
|
|
Anna
Foa,
storica
|
|
Molto amaro, lucido e
condivisibile il pilpul di ieri di Claudio Vercelli. Quando non si
crede più alla politica, allora si comincia a credere
politicamente a tutto, a partire da chi fa la voce più grossa, scrive.
E' vero che questo non credere più alla politica, comunque sia
giustificato dai fatti e dalle persone, è gravido di conseguenze sul
piano della morale e della vita civile. L'idea che la politica sia solo
una strada privilegiata per curare meglio il proprio particulare non
porta al rifiuto di questo particulare, ma piuttosto all'idea che agire
per il proprio vantaggio sia giustificato, sia la norma.
Eppure, ci sono stati momenti nella nostra storia, italiana ed ebraica,
in cui la politica è apparsa come passione divorante per il bene
comune, per la polis, non per il vantaggio dell'individuo sugli altri
individui. L'Emancipazione, e la riscoperta degli ebrei dell'agire
politico. Il sionismo, e la volontà di ricrearsi politicamente. Il
dopoguerra, e la volontà di ricostruzione politica degli italiani e con
loro degli ebrei che uscivano dall'umiliazione delle leggi razziste e
dallo sterminio dell'occupazione nazista. Non siamo in grado di
ritrovare questa passione? forse, ma almeno cerchiamo di non pensare
che va bene così.
|
|
|
Rav Riccardo Di Segni e rav Alfonso Arbib:
"Per i tribunali rabbinici servono criteri comuni" |
I rabbini capo di Roma e di
Milano Riccardo Di Segni e Alfonso Arbib hanno emesso la seguente nota
congiunta:
Giovedi scorso, sui canali di comunicazione della Comunità ebraica di
Roma, è stato pubblicato un annuncio della Rabbanut Rashit leIsrael
riguardante il riconoscimento degli atti dei tribunali rabbinici
italiani. L'annuncio informa che la Rabbanut riconosce quelli dei
rabbini capi di Roma e Milano, mentre si riserva per gli altri di
controllarli caso per caso. La notizia ha destato legittime richieste
di spiegazioni, ma anche una serie di proteste e accuse anche pesanti,
riportate in parte su "l'Unione informa" di venerdì.
Proviamo a rispondere spiegando prima di tutto di che si tratta.
Bisogna comprendere che è compito di ogni rabbino responsabile di una
comunità emettere dichiarazioni e certificazioni, e controllare quelle
che gli arrivano, destinate alla sua comunità, che si tratti di
certificazioni alimentari o questioni riguardanti lo status delle
persone (ebraicità, stato libero ecc.). Il controllo è necessario
perché esistono strutture certificanti più o meno autorevoli e persino
falsificazioni. Nello Stato d'Israele, che piaccia o no, su alcune
questioni di carattere religioso intervengono strutture statali, con
modalità di controllo stabilite dalle leggi. Il matrimonio ebraico è
religioso, come il suo scioglimento, e chi si vuole sposare deve
dimostrare di essere ebreo e libero dal vincolo matrimoniale, cosa che
può attestare solo un tribunale rabbinico riconosciuto. Il problema
diventa quello del riconoscimento dell'ente certificante. Che non è
automatico. La Rabbanut Rashit d'Israele, al cui vertice, siamo tutti
d'accordo, sta un rabbino e non il papa, ha la responsabilità di questi
controlli per tutto il sistema pubblico israeliano e stabilisce dei
criteri. In anni recenti ha dovuto mettere ordine in una materia che in
molti luoghi era disordinata e quasi selvaggia. La scure si è abbattuta
per prima sugli Stati Uniti, dai quali, malgrado la presenza di
istituzioni rabbiniche autorevolissime, pervenivano tutta una serie di
certificazioni in forma incontrollata. I rabbini americani hanno prima
protestato con forza, poi si sono resi conto che era anche loro
interesse arrivare a un chiarimento concordato. Per cui hanno
disciplinato con rigore la materia, per limitare abusi e situazioni
incontrollate. Sull’ Italia l'attacco non è stato formale e diretto, ma
abbiamo dovuto affrontare, e continuiamo a farlo, situazioni
imbarazzanti e umilianti su tanti singoli casi in cui non c'è fiducia
nei nostri confronti.
Parliamo ad esempio di ghiurim non riconosciuti. Qualcuno potrà
osservare che è un'ingiustizia, ma la legge israeliana è quella e con
quella ci dobbiamo misurare. Per quanto si possa criticare
l’istituzione stessa della Rabbanut Rashit, questa ha almeno il
vantaggio di rappresentare un filtro rispetto a una miriade di
strutture che potrebbero fare problemi. E il problema non è solo
israeliano, si pone in qualsiasi paese e tribunale rabbinico fuori
dall’Italia. Solo un nostro rabbinato riconosciuto può avere la forza
di risolvere le situazioni, come siamo riusciti a fare in molti casi. A
Roma e Milano abbiamo colto i messaggi -che venivano non solo da
Israele ma anche dal Rabbinato Europeo- e ci siamo riorganizzati
secondo i criteri rigorosi. Ma a quanto pare questo non è stato fatto,
o non ha portato a risultati convincenti altrove in Italia. Da anni
l'UCEI ha chiesto, senza risultato, ai rabbini italiani di disciplinare
e riorganizzare la materia. Da anni nell'ambito dell'Assemblea dei
Rabbini d'Italia è stata costituita una commissione su questo tema. C'è
stata una sola riunione, poi niente.
Ora arriva l'annuncio della Rabbanut Rashit d'Israele e, invece di
riflettere sui motivi che hanno determinato le decisioni della Rabbanut
israeliana, la polemica in Italia si è spostata sulla pubblicazione
dell'avviso, che è stata denunciata come una illecita
rivelazione di un documento riservato. Non riteniamo che quell'avviso
fosse riservato, non pensiamo che possa esserlo per due motivi
sostanziali: 1. È un avviso inviato all'Assemblea dei rabbini d'Italia
e non una lettera personale. 2. Coinvolge, oltre ai Tribunali
Rabbinici, il pubblico, le Comunità e le singole persone che ne
usufruiscono e che non possono esserne tenute all'oscuro. Riteniamo che
l'eventuale “reato” di pubblicazione di un avviso ufficiale (hoda'à)
della Rabbanut, inviato al presidente e al segretario dei rabbini
italiani, e per copia ad altri, e che riguarda gli interessi
degli ebrei italiani, sia ben poca cosa rispetto al reato di omissione
di informazione. E questa informazione gli è stata negata per diversi
giorni. Precisiamo inoltre che la pubblicazione è halakhicamente
giustificata dalla necessità di evitare che le persone possano essere
tratte in inganno da informazioni sbagliate che già cominciavano a
circolare sull'argomento.
Ritornando alla decisione della Rabbanut si può decidere di ignorarla,
è legittimo ma non crediamo sarebbe saggio. Crediamo invece sia
importante innanzitutto coglierne gli aspetti positivi. Ci sono due
Battè Din riconosciuti, non c'è una delegittimazione aprioristica di
nessuno ma un invito implicito a riorganizzare secondo criteri comuni
questa complessa materia. Ci sono stati anche in tempi recenti atti e
decisioni controverse.
Ci rendiamo perfettamente conto che la materia è delicata e crediamo
che sia urgente arrivare a un accordo su criteri e procedure comuni da
adottare e che questi criteri vadano comunicati alle nostre comunità.
Chiarezza e collaborazione sono indispensabili per rasserenare il
clima, nell’interesse di tutti".
|
|
Israele - Due stati per un popolo
|
La
trattativa per la composizione del nuovo Governo israeliano si sta
rivelando lunga e complessa. Benjamin Netanyahu ha a disposizione 28
giorni per completare la nuova coalizione, rinnovabili per altri 14
giorni. Se al termine dei 42 giorni l'opera non sarà completata,
l'incarico verrà affidato a qualcun altro. Nel frattempo il governo
uscente di Netanyahu rimane in carica per il disbrigo dell'ordinaria
amministrazione. Che è come dire la paralisi perché il bilancio dello
Stato (sul quale è caduto il governo uscente, causando un anticipo
elettorale di dieci mesi) deve ancora assere approvato. E nel bilancio
si compendiano tutti i problemi e tutti gli interessi. La nuova Knesset
è come un rompicapo i cui elementi sono noti, coi loro pregi e difetti
e le loro idiosincrasie, ma in cui è molto difficile far combaciare
tutti i pezzi in un insieme coerente e stabile. Viene in mente la
storia del barcaiolo che doveva far attraversare il fiume a un lupo, a
una capra e a dei cavoli. Ma sulla barca, oltre a lui, c'era posto solo
per due dei tre elementi. E per ovvi motivi non poteva mai lasciare il
lupo insieme alla capra, o la capra insieme ai cavoli. Finché con vari
trasbordi, la cui sequela qui non ripeteremo, l'operazione riuscí. Il
problema è che in Israele il numero di lupi, di capre e di cavoli –
ovviamente come metafora politica – è ben superiore ai tre della
favoletta. Come naturale conseguenza di una società complessa e
articolata, ma anche di una legge elettorale proporzionale pura con
bassa soglia di entrata, oggi anacronistica e autolesiva, il
frazionamento ideologico contrappone numerosi partiti che possono
collaborare su certi temi ma sono incompatibili su altri. L'abilità del
primo ministro designato consiste nel trovare le formule di compromesso
che permettano una pacifica convivenza fra i sostenitori di tesi
opposte su ogni aspetto possibile della problematica politica – se lo
saprà fare. I grandi temi del paese evolvono costantemente sotto
l'impulso di una società dinamica e innovatrice, ma anche ben
consapevole e gelosa della continuità delle proprie storiche identità
culturali. Al primo posto, certo, bisogna vivere. Ma subito dopo viene
l'improrogabile esigenza di una più equa distribuzione del carico
sociale. Per cominciare, l'indice di concentrazione dei redditi in
Israele è divenuto uno dei più alti fra i paesi sviluppati (fanno
peggio il Messico e gli Stati Uniti). Ovviamente la sperequazione dei
redditi riflette la frequenza di partecipazione alla forza di lavoro.
La scarsa ricerca di impiego degli uomini haredim e delle donne
musulmane è la causa principale (anche se non l'unica) di una diffusa
povertà primaria che riflette loro precise scelte culturali. Ma Israele
è uno Stato sociale moderno e compensa in parte la sperequazione con
forti trasferimenti di fondi ai bisognosi. Per quei haredim che lo
volessero, poi, la possibilità d'impiego è limitata dall'istruzione
esclusivamente toranít (ebraica tradizionale) acquisita, che li prepara
essenzialmente solo all'insegnamento delle materie ebraiche (il
discorso è un pò diverso per le donne musulmane che oggi ottengono un
livello d'istruzione discreto ma poi vengono limitate dalle norme
culturalmente discriminatorie della loro comunità). La forte aliquota
di haredim che continua gli studi in età adulta matura produce forse
gratificazione spirituale ma non reddito, e deve quindi essere
sovvenzionata dal reddito prodotto dagli altri. Il primo fronte da
migliorare è quindi quello dell'inserimento nell'istruzione dei haredim
di un modulo di cultura generale (storia ebraica, matematica, inglese)
che li renda più autonomi nel mondo del lavoro. Il dibattito sul
servizio militare viene solamente al secondo posto e ha due facce. La
prima, meno dibattuta, riguarda la funzione di rete sociale che si crea
fra chi è stato nell'esercito. Le forze armate – a parte la loro
funzione statutoria di provvedere alla sicurezza – sono un grande
calderone di acculturazione, da cui derivano innegabili benefici più
tardi nella vita civile. Chi ne è stato esente non gode di questi
vantaggi latenti. Ma non si può ignorare la seconda e più dibattuta
faccia dell'esenzione dal servizio militare: quello della solidarietà
nazionale. Recentemente in un dibattito televisivo preelettorale, un
esponente haredi nel perorare la causa dell'esenzione, si è fatto
sfuggire la seguente inquietante frase: "Noi haredim siamo come gli
arabi (pure militesenti): riconosciamo lo Stato d'Israele, ma fino a un
certo punto". Il rifiuto – che significa escludersi dalla nazione – si
è esteso finora anche alla possibilità di un servizio civile in cui i
giovani in età di servire prestino un po' di tempo alla loro propria
comunità nelle mansioni più diverse. Alle ultime elezioni il messaggio
inequivocabile del voto è stato dunque: cosí non si può proseguire.
Paradossalmente il partito di Yair Lapid, paradigma della borghesia
istruita e non proprio indigente ha echeggiato lo slogan marxista: A
ognuno secondo le sue necessità, sì, ma da ognuno secondo le sue
capacità. Non più parassitismo. Dal mondo haredi si replica che il
culto di Hashem produce benefici difensivi non inferiori a quelli
recati dalle forze armate, e quindi il dibattito resta al punto di
stallo. Il problema è che Netanyahu proclama da anni che i suoi alleati
naturali sono i haredim. E ora si trova a dover formare il nuovo
governo con un buco di un quarto di milione di voti persi a favore
della tesi avversa. Tutto ciò è legato attraverso meccanismi
trasparenti e ineluttabili con le politiche nei confronti dei
palestinesi e della comunità internazionale. La prima preoccupazione è
di ordine interno. L'attuale distribuzione delle risorse e degli
investimenti pubblici protegge certe zone, come la Giudea e la Samaria,
ma ne penalizza gravemente altre come la Galilea e il Neghev. Se è
giusto costruire alloggio altamente sussidiato per far fronte
all'incremento naturale ebraico in Cisgiordania, è altrettanto giusto
costruire per l'incremento naturale nel resto del paese, dove invece i
prezzi dell'alloggio sono proibitivi. Inoltre Israele può, sí, contare
sulle proprie grandi energie e risorse ma alla lunga non può ignorare
di appartenere a un condominio internazionale in cui le forniture
militari e le esportazioni dipendono anche dalla volontà della
controparte. La presunta autarchia che alcuni vorrebbero instaurare
finisce per incidere anche sulle norme dello Stato civile. Chi pensa di
mantenere milioni di palestinesi in una situazione subordinata senza
diritto di voto promuove uno Stato d'Israele non democratico, sempre
più emarginato dalla comunità globale. Anche su questo il voto del 22
gennaio ha dato un'indicazione forte, seppure non unanime. Nel suo
discorso di accettazione del mandato, Netanyahu ha dovuto dire la
parola pace cinque volte. Se la pace è difficile da fare, Israele salvi
per lo meno l'immagine. Bibi può tentare di fare un governo inclusivo
di tutte le idee più diverse, che accontenterà un poco tutti ma
significherà la paralisi totale, oppure un governo più ristretto dal
programma più focalizzato, che susciterà molta soddisfazione da parte
di alcuni e vibrate proteste da parte di altri. Gli elettori hanno
anche chiesto un rinnovo dei quadri dirigenti, ma Bibi aveva promesso
ministeri e prebende a molti, forse troppi, dei suoi associati nel
governo uscente. Con Habayt Hayehudi dentro, sarà difficile smuovere
molto sul terreno delle trattative politiche. Con i haredim dentro,
sarà difficile procedere sul terreno delle riforme sociali. Con Yesh
Atid dentro, sarà impossibile non procedere sullo stesso terreno. E chi
rimarrà fuori attuerà un'opposizione accanita che renderà difficile
l'azione di un governo dai numeri appena sufficienti. Qui si vedrà la
reale natura del primo ministro designato: Bibi l'ideologo, quello
dello status quo? O Bibi il pragmatico, quello che sa far quadrare il
cerchio? Scattista da primato, o anonimo staffettista? Personalmente,
onestamente, non saprei.
Sergio Della Pergola, Università ebraica di Gerusalemme, Pagine Ebraiche, marzo 2013
|
|
Cinema - A Israele
sfugge l’Oscar |
Niente Oscar per le due
pellicole israeliane selezionate nella cinquina finalista della corsa
al miglior documentario. I controversi The Gatekeepers e Five Broken Cameras
non la spuntano contro il favorito della vigilia Searching for Sugar
Man, coproduzione britannico-svedese “con un sacco di legami ebraici”
sottolinea il quotidiano The Times of Israel. Il film dedicato alla
storia del musicista latino-americano Sixto Rodriguez, che negli anni
’70 fornì un’inaspettata colonna sonora alla lotta anti-apartheid in
Sud Africa è coprodotto da Simon Chinn, già produttore di Man on Wire
che vinse la statuetta nel 2008. Chinn è figlio di sir Trevor
Chinninfluente rappresentante della comunità ebraica del Regno Unito ed
ebreo è anche uno dei protagonisti del documentario, Stephen “Sugar”
Segerman, ortodosso di Cape Town e grande fan dalla musica di Rodriguez
“meravigliosamente evocativa e fonte di ispirazione per i giovani
bianchi sotto la censura repressiva del governo dell’apartheid in cerca
di messaggi dalla cultura europea e americana”, come l’ha definita
Segerman in un’intervista lo scorso anno.
|
|
Purim - Meghillat Ester
al femminile
|
A Firenze un altro gruppo di
donne si incontra per studiare in queste settimane, in preparazione di
una lettura al femminile della Meghillat di Ruth, il secondo giorno di
Shavuoth. A Roma sabato sera, inizio della festa d Purim, in
tutti i Batè Knesiot della città è risuonato il canto della Meghillat
Ester. In una sala del Pitigliani, si è svolta una lettura al
femminile, partecipata da un folto numero di donne di tutte
le età. Dieci donne si sono alternate nella lettura dopo il
breve saluto di Sira Fatucci che ha voluto sottolineare
l'impegno e lo studio richiesto per l'occasione.
Anna Di
Castro, Siena
|
|
|
In cornice - Le promesse, i
problemi, la cultura |
Fino a quando erano aperte
le urne e i politici, qualcuno in particolare, si sono lanciati in
mille promesse o in facili ricette per uscire dalla crisi. Ma i
problemi hanno radici talmente profonde, la spirale negativa che si è
innestata talmente complessa, che soluzioni semplici non si vedono
all’orizzonte. O forse si potrebbero vedere, se si abbandonassero i
soliti temi di discussione. Perché in tutta questa campagna elettorale
si è parlato pochissimo di patrimonio artistico, risorsa che in Italia
non manca, e pochissimo di rilancio del settore turistico, che crea
milioni di posti di lavoro e che ha enormi margini di crescita in
questo paese. Senza considerare che il miglioramento dell’immagine
dell’Italia, legata a una più efficace comunicazione dello splendore
del suo patrimonio artistico, avrebbe effetti positivi su tutto il made
in Italy, che a sua volta non può certo competere facendo solo
efficienze sui costi. Aggiungiamo che il settore turistico è uno dei
pochissimo in cui lo Stato può ancora far sentire la sua voce: in mille
altri ha le mani legatissime da quanto viene deciso a livello
internazionale, o semplicemente perché interi settori dell’economia e
dell’infrastruttura sono stati venduti o svenduti ad aziende che del
Governo Italiano si infischiano altamente. Si può sapere allora perché
non ci si è concentrati sul rilancio delle gestione del patrimonio
artistico e del settore turistico? Forse non è una fiaba interessante,
come l’improvvisa e drastica riduzione delle tasse, o non fa audience
come la riduzione dei costi della politica. Eppure questo disinteresse
è una dimostrazione tangibile come la classe politica, più che costare
molto, governa molto male e non pensa a quel che è più ovvio.
Daniele
Liberanome, critico d'arte
|
|
Tea for Two - Meno parole,
più leggibilità
|
Preludio: Shabbath, la
pioggia batte sui vetri e un nuovo dilemma mi assale: che libro
iniziare a leggere? Due della Némirovsky o uno comperato nella libreria
della stazione nel vano tentativo di diventare "la ragazza con il
trolley che alla Stazione Centrale compra un volume e si sente Anna
Karenina senza depressione post Vronsky"? Mentre addento le orecchie di
Aman alla marmellata (quelle al cioccolato finiscono subito), alzo lo
sguardo distratto verso il tavolino del salotto. Lì, proprio lì, tra la
lettera di Silvio sull'imu e una copia di Grand Hotel con la solita
copertina di Barbara de Rossi o sulle doti culinarie di un attore di
Centovetrine, mi guarda timido e spaventato il numero di marzo di
Pagine ebraiche. Abbandono Irene e la stazione e lo sfoglio. Fine
preludio. (...) IL, il mensile del Sole 24 Ore ha una rubrica nelle
prime pagine fenomenale, si chiama La macchina del fango ed è la
stroncatura preventiva del giornale. Stroncare è facile e molto
gustoso, ma per gioco delle sorti e onorare Purim decido di fare una
cosa diversa: spiegare perché secondo me questo numero di Pagine
ebraiche ha un che di delizioso. E ve lo dice una lettrice che è
abituata alla perfezione strutturale di Vanity Fair. Primo elemento
fondamentale, questo è il numero che inaugura meno parole. Quindi udite
udite, forse riusciremo a leggere tutto il numero di marzo prima
dell'arrivo a casa di quello di settembre con il dossier sui fatti
importanti dell'anno. Secondo elemento degno di nota, questa volta ce
n'è davvero per tutti i gusti. Non solo troviamo una intervista a
Ginevra Elkann, la più inafferrabile e radical chic dei fratelli (una
erede degli Agnelli che per dirvi NON ha la patente!) ma ci facciamo
anche una chiaccherata con l'archistar Libeskind e scopriamo una
fotografa da tenere d'occhio, Elinor Carucci. Allora dopo aver letto
l'articolo sul fumettista Vittorio Giardino che finalmente evidenzia
l'importanza culturale dell'infanzia passata leggendo Topolino e il
ritratto di Ed Koch, il compianto sindaco di New York, sono pronta a
gustarmi il gelato arabo-israeliano della pagina sapori. Torna poi in
grande forma Pagine ebbraiche l'inserto sul witz per omaggiare Purim.
Come dice Gianni Rodari "Il verbo leggere non sopporta l'imperativo",
lui però è lì paziente sul tavolino del salotto.
Rachel
Silvera, studentessa – twitter@RachelSilvera2
|
|
notizie flash |
|
rassegna
stampa |
Qui
Firenze - Purim in allegria
|
|
Leggi
la rassegna |
Alla Casa di Riposo di Firenze, è stato festeggiato Purim. Il duo di
chitarra e voce Umberto e Mauro (torinese l'uno, romano l'altro) ha
intrattenuto gli ospiti con canzoni degli anni '30, ma anche
contemporanee. Fra orecchie di Haman, frittelle sfornate dalle cuoche e
le barzellette preparate dai nostri anziani con l'aiuto della signora
Caffaz, il duo ha coinvolto gli ospiti che hanno cantato, con
nostalgia, le canzoni a loro care. Anche il rabbino Yosef Levi, prima
degli auguri e del saluto, ha preso il microfono e si è lanciato in una
simpatica performance. Piacevole pomeriggio in una serena atmosfera ebraica.
Emanuela Servi
|
|
Il numero di Pagine Ebraiche
di febbraio è ripreso dalla Gazzetta del Mezzogiorno. Nella
rubrica “Passati in rivista” vengono ricordati il testo della
prolusione di Rita Levi Montalcini sul ruolo e la storia dell’ebraismo
nella società italiana, e l’omaggio rivolto alla grande scienziata dal
vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Giulio
Disegni.
|
|
|
L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
che fossero interessati a offrire un proprio contributo possono
rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it
Avete ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei
l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere
ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo
e-mail, scrivete a: desk@ucei.it
indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”. © UCEI -
Tutti i diritti riservati - I testi possono essere riprodotti solo dopo
aver ottenuto l'autorizzazione scritta della Direzione. l'Unione
informa - notiziario quotidiano dell'ebraismo italiano - Reg. Tribunale
di Roma 199/2009 - direttore responsabile: Guido Vitale.
|