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25 febbraio 2013 - 8 Adar 5773
l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
alef/tav

Adolfo Locci, rabbino capo
di Padova

"…nel momento in cui li conterai, ciascuno darà un riscatto all'Eterno per espiare la propria persona e non si verificherà nessuna piaga (neghef נגף)" (Esodo 30:12). Rabbì Moshè David Valle (1697-1777), asserisce che questo verso esprime una misericordia divina, che anticipa la cura alla ferita. Il dono del mezzo shekel blocca la piaga. Il popolo d'Israele è paragonato alla vite (ghefen גפן; Salmi 80:9 "Tu hai prelevato dall'Egitto una vite...) che se non curata si deteriora cosicché la vite גפן diventa נגף piaga. Quando sapremo riscattare le nostre persone, la piaga sarà annullata e la vite si manterrà...

Anna
Foa,
 storica

   
Anna Foa
Molto amaro, lucido e condivisibile il pilpul di ieri di Claudio Vercelli. Quando non si crede più alla politica, allora  si comincia a credere politicamente a tutto, a partire da chi fa la voce più grossa, scrive. E' vero che questo non credere più alla politica, comunque sia giustificato dai fatti e dalle persone, è gravido di conseguenze sul piano della morale e della vita civile. L'idea che la politica sia solo una strada privilegiata per curare meglio il proprio particulare non porta al rifiuto di questo particulare, ma piuttosto all'idea che agire per  il proprio vantaggio sia giustificato, sia la norma. Eppure, ci sono stati momenti nella nostra storia, italiana ed ebraica, in cui la politica è apparsa come passione divorante per il bene comune, per la polis, non per il vantaggio dell'individuo sugli altri individui. L'Emancipazione, e la riscoperta degli ebrei dell'agire politico. Il sionismo, e la volontà di ricrearsi politicamente. Il dopoguerra, e la volontà di ricostruzione politica degli italiani e con loro degli ebrei che uscivano dall'umiliazione delle leggi razziste e dallo sterminio dell'occupazione nazista. Non siamo in grado di ritrovare questa passione? forse, ma almeno cerchiamo di non pensare che va bene così.

davar
Rav Riccardo Di Segni e rav Alfonso Arbib:
"Per i tribunali rabbinici servono criteri comuni"
I rabbini capo di Roma e di Milano Riccardo Di Segni e Alfonso Arbib hanno emesso la seguente nota congiunta:

Giovedi scorso, sui canali di comunicazione della Comunità ebraica di Roma, è stato pubblicato un annuncio della Rabbanut Rashit leIsrael riguardante il riconoscimento degli atti dei tribunali rabbinici italiani. L'annuncio informa che la Rabbanut riconosce quelli dei rabbini capi di Roma e Milano, mentre si riserva per gli altri di controllarli caso per caso. La notizia ha destato legittime richieste di spiegazioni, ma anche una serie di proteste e accuse anche pesanti, riportate in parte su "l'Unione informa" di venerdì.
Proviamo a rispondere spiegando prima di tutto di che si tratta. Bisogna comprendere che è compito di ogni rabbino responsabile di una comunità emettere dichiarazioni e certificazioni, e controllare quelle che gli arrivano, destinate alla sua comunità, che si tratti di certificazioni alimentari o questioni riguardanti lo status delle persone (ebraicità, stato libero ecc.). Il controllo è necessario perché esistono strutture certificanti più o meno autorevoli e persino falsificazioni. Nello Stato d'Israele, che piaccia o no, su alcune questioni di carattere religioso intervengono strutture statali, con modalità di controllo stabilite dalle leggi. Il matrimonio ebraico è religioso, come il suo scioglimento, e chi si vuole sposare deve dimostrare di essere ebreo e libero dal vincolo matrimoniale, cosa che può attestare solo un tribunale rabbinico riconosciuto. Il problema diventa quello del riconoscimento dell'ente certificante. Che non è automatico. La Rabbanut Rashit d'Israele, al cui vertice, siamo tutti d'accordo, sta un rabbino e non il papa, ha la responsabilità di questi controlli per tutto il sistema pubblico israeliano e stabilisce dei criteri. In anni recenti ha dovuto mettere ordine in una materia che in molti luoghi era disordinata e quasi selvaggia. La scure si è abbattuta per prima sugli Stati Uniti, dai quali, malgrado la presenza di istituzioni rabbiniche autorevolissime, pervenivano tutta una serie di certificazioni in forma incontrollata. I rabbini americani hanno prima protestato con forza, poi si sono resi conto che era anche loro interesse arrivare a un chiarimento concordato. Per cui hanno disciplinato con rigore la materia, per limitare abusi e situazioni incontrollate. Sull’ Italia l'attacco non è stato formale e diretto, ma abbiamo dovuto affrontare, e continuiamo a farlo, situazioni imbarazzanti e umilianti su tanti singoli casi in cui non c'è fiducia nei nostri confronti.
Parliamo ad esempio di ghiurim non riconosciuti. Qualcuno potrà osservare che è un'ingiustizia, ma la legge israeliana è quella e con quella ci dobbiamo misurare. Per quanto si possa criticare l’istituzione stessa della Rabbanut Rashit, questa ha almeno il vantaggio di rappresentare un filtro rispetto a una miriade di strutture che potrebbero fare problemi. E il problema non è solo israeliano, si pone in qualsiasi paese e tribunale rabbinico fuori dall’Italia. Solo un nostro rabbinato riconosciuto può avere la forza di risolvere le situazioni, come siamo riusciti a fare in molti casi. A Roma e Milano abbiamo colto i messaggi -che venivano non solo da Israele ma anche dal Rabbinato Europeo- e ci siamo riorganizzati secondo i criteri rigorosi. Ma a quanto pare questo non è stato fatto, o non ha portato a risultati convincenti altrove in Italia. Da anni l'UCEI ha chiesto, senza risultato, ai rabbini italiani di disciplinare e riorganizzare la materia. Da anni nell'ambito dell'Assemblea dei Rabbini d'Italia è stata costituita una commissione su questo tema. C'è stata una sola riunione, poi niente.
Ora arriva l'annuncio della Rabbanut Rashit d'Israele e, invece di riflettere sui motivi che hanno determinato le decisioni della Rabbanut israeliana, la polemica in Italia si è spostata sulla pubblicazione dell'avviso, che è stata denunciata come una illecita  rivelazione di un documento riservato. Non riteniamo che quell'avviso fosse riservato, non pensiamo che possa esserlo per due motivi sostanziali: 1. È un avviso inviato all'Assemblea dei rabbini d'Italia e non una lettera personale. 2. Coinvolge, oltre ai Tribunali Rabbinici, il pubblico, le Comunità e le singole persone che ne usufruiscono e che non possono esserne tenute all'oscuro. Riteniamo che l'eventuale “reato” di pubblicazione di un avviso ufficiale (hoda'à) della Rabbanut, inviato al presidente e al segretario dei rabbini italiani, e per copia ad altri, e che riguarda gli interessi  degli ebrei italiani, sia ben poca cosa rispetto al reato di omissione di informazione. E questa informazione gli è stata negata per diversi giorni. Precisiamo inoltre che la pubblicazione è halakhicamente giustificata dalla necessità di evitare che le persone possano essere tratte in inganno da informazioni sbagliate che già cominciavano a circolare sull'argomento.
Ritornando alla decisione della Rabbanut si può decidere di ignorarla, è legittimo ma non crediamo sarebbe saggio. Crediamo invece sia importante innanzitutto coglierne gli aspetti positivi. Ci sono due Battè Din riconosciuti, non c'è una delegittimazione aprioristica di nessuno ma un invito implicito a riorganizzare secondo criteri comuni questa complessa materia. Ci sono stati anche in tempi recenti atti e decisioni controverse.
Ci rendiamo perfettamente conto che la materia è delicata e crediamo che sia urgente arrivare a un accordo su criteri e procedure comuni da adottare e che questi criteri vadano comunicati alle nostre comunità. Chiarezza e collaborazione sono indispensabili per rasserenare il clima, nell’interesse di tutti". 


Israele - Due stati per un popolo
La trattativa per la composizione del nuovo Governo israeliano si sta rivelando lunga e complessa. Benjamin Netanyahu ha a disposizione 28 giorni per completare la nuova coalizione, rinnovabili per altri 14 giorni. Se al termine dei 42 giorni l'opera non sarà completata, l'incarico verrà affidato a qualcun altro. Nel frattempo il governo uscente di Netanyahu rimane in carica per il disbrigo dell'ordinaria amministrazione. Che è come dire la paralisi perché il bilancio dello Stato (sul quale è caduto il governo uscente, causando un anticipo elettorale di dieci mesi) deve ancora assere approvato. E nel bilancio si compendiano tutti i problemi e tutti gli interessi. La nuova Knesset è come un rompicapo i cui elementi sono noti, coi loro pregi e difetti e le loro idiosincrasie, ma in cui è molto difficile far combaciare tutti i pezzi in un insieme coerente e stabile. Viene in mente la storia del barcaiolo che doveva far attraversare il fiume a un lupo, a una capra e a dei cavoli. Ma sulla barca, oltre a lui, c'era posto solo per due dei tre elementi. E per ovvi motivi non poteva mai lasciare il lupo insieme alla capra, o la capra insieme ai cavoli. Finché con vari trasbordi, la cui sequela qui non ripeteremo, l'operazione riuscí. Il problema è che in Israele il numero di lupi, di capre e di cavoli – ovviamente come metafora politica – è ben superiore ai tre della favoletta. Come naturale conseguenza di una società complessa e articolata, ma anche di una legge elettorale proporzionale pura con bassa soglia di entrata, oggi anacronistica e autolesiva, il frazionamento ideologico contrappone numerosi partiti che possono collaborare su certi temi ma sono incompatibili su altri. L'abilità del primo ministro designato consiste nel trovare le formule di compromesso che permettano una pacifica convivenza fra i sostenitori di tesi opposte su ogni aspetto possibile della problematica politica – se lo saprà fare. I grandi temi del paese evolvono costantemente sotto l'impulso di una società dinamica e innovatrice, ma anche ben consapevole e gelosa della continuità delle proprie storiche identità culturali. Al primo posto, certo, bisogna vivere. Ma subito dopo viene l'improrogabile esigenza di una più equa distribuzione del carico sociale. Per cominciare, l'indice di concentrazione dei redditi in Israele è divenuto uno dei più alti fra i paesi sviluppati (fanno peggio il Messico e gli Stati Uniti). Ovviamente la sperequazione dei redditi riflette la frequenza di partecipazione alla forza di lavoro. La scarsa ricerca di impiego degli uomini haredim e delle donne musulmane è la causa principale (anche se non l'unica) di una diffusa povertà primaria che riflette loro precise scelte culturali. Ma Israele è uno Stato sociale moderno e compensa in parte la sperequazione con forti trasferimenti di fondi ai bisognosi. Per quei haredim che lo volessero, poi, la possibilità d'impiego è limitata dall'istruzione esclusivamente toranít (ebraica tradizionale) acquisita, che li prepara essenzialmente solo all'insegnamento delle materie ebraiche (il discorso è un pò diverso per le donne musulmane che oggi ottengono un livello d'istruzione discreto ma poi vengono limitate dalle norme culturalmente discriminatorie della loro comunità). La forte aliquota di haredim che continua gli studi in età adulta matura produce forse gratificazione spirituale ma non reddito, e deve quindi essere sovvenzionata dal reddito prodotto dagli altri. Il primo fronte da migliorare è quindi quello dell'inserimento nell'istruzione dei haredim di un modulo di cultura generale (storia ebraica, matematica, inglese) che li renda più autonomi nel mondo del lavoro. Il dibattito sul servizio militare viene solamente al secondo posto e ha due facce. La prima, meno dibattuta, riguarda la funzione di rete sociale che si crea fra chi è stato nell'esercito. Le forze armate – a parte la loro funzione statutoria di provvedere alla sicurezza – sono un grande calderone di acculturazione, da cui derivano innegabili benefici più tardi nella vita civile. Chi ne è stato esente non gode di questi vantaggi latenti. Ma non si può ignorare la seconda e più dibattuta faccia dell'esenzione dal servizio militare: quello della solidarietà nazionale. Recentemente in un dibattito televisivo preelettorale, un esponente haredi nel perorare la causa dell'esenzione, si è fatto sfuggire la seguente inquietante frase: "Noi haredim siamo come gli arabi (pure militesenti): riconosciamo lo Stato d'Israele, ma fino a un certo punto". Il rifiuto – che significa escludersi dalla nazione – si è esteso finora anche alla possibilità di un servizio civile in cui i giovani in età di servire prestino un po' di tempo alla loro propria comunità nelle mansioni più diverse. Alle ultime elezioni il messaggio inequivocabile del voto è stato dunque: cosí non si può proseguire. Paradossalmente il partito di Yair Lapid, paradigma della borghesia istruita e non proprio indigente ha echeggiato lo slogan marxista: A ognuno secondo le sue necessità, sì, ma da ognuno secondo le sue capacità. Non più parassitismo. Dal mondo haredi si replica che il culto di Hashem produce benefici difensivi non inferiori a quelli recati dalle forze armate, e quindi il dibattito resta al punto di stallo. Il problema è che Netanyahu proclama da anni che i suoi alleati naturali sono i haredim. E ora si trova a dover formare il nuovo governo con un buco di un quarto di milione di voti persi a favore della tesi avversa. Tutto ciò è legato attraverso meccanismi trasparenti e ineluttabili con le politiche nei confronti dei palestinesi e della comunità internazionale. La prima preoccupazione è di ordine interno. L'attuale distribuzione delle risorse e degli investimenti pubblici protegge certe zone, come la Giudea e la Samaria, ma ne penalizza gravemente altre come la Galilea e il Neghev. Se è giusto costruire alloggio altamente sussidiato per far fronte all'incremento naturale ebraico in Cisgiordania, è altrettanto giusto costruire per l'incremento naturale nel resto del paese, dove invece i prezzi dell'alloggio sono proibitivi. Inoltre Israele può, sí, contare sulle proprie grandi energie e risorse ma alla lunga non può ignorare di appartenere a un condominio internazionale in cui le forniture militari e le esportazioni dipendono anche dalla volontà della controparte. La presunta autarchia che alcuni vorrebbero instaurare finisce per incidere anche sulle norme dello Stato civile. Chi pensa di mantenere milioni di palestinesi in una situazione subordinata senza diritto di voto promuove uno Stato d'Israele non democratico, sempre più emarginato dalla comunità globale. Anche su questo il voto del 22 gennaio ha dato un'indicazione forte, seppure non unanime. Nel suo discorso di accettazione del mandato, Netanyahu ha dovuto dire la parola pace cinque volte. Se la pace è difficile da fare, Israele salvi per lo meno l'immagine. Bibi può tentare di fare un governo inclusivo di tutte le idee più diverse, che accontenterà un poco tutti ma significherà la paralisi totale, oppure un governo più ristretto dal programma più focalizzato, che susciterà molta soddisfazione da parte di alcuni e vibrate proteste da parte di altri. Gli elettori hanno anche chiesto un rinnovo dei quadri dirigenti, ma Bibi aveva promesso ministeri e prebende a molti, forse troppi, dei suoi associati nel governo uscente. Con Habayt Hayehudi dentro, sarà difficile smuovere molto sul terreno delle trattative politiche. Con i haredim dentro, sarà difficile procedere sul terreno delle riforme sociali. Con Yesh Atid dentro, sarà impossibile non procedere sullo stesso terreno. E chi rimarrà fuori attuerà un'opposizione accanita che renderà difficile l'azione di un governo dai numeri appena sufficienti. Qui si vedrà la reale natura del primo ministro designato: Bibi l'ideologo, quello dello status quo? O Bibi il pragmatico, quello che sa far quadrare il cerchio? Scattista da primato, o anonimo staffettista? Personalmente, onestamente, non saprei.

Sergio Della Pergola, Università ebraica di Gerusalemme,
Pagine Ebraiche, marzo 2013

               

Cinema - A Israele sfugge l’Oscar
Niente Oscar per le due pellicole israeliane selezionate nella cinquina finalista della corsa al miglior documentario. I controversi The Gatekeepers e Five Broken Cameras non la spuntano contro il favorito della vigilia Searching for Sugar Man, coproduzione britannico-svedese “con un sacco di legami ebraici” sottolinea il quotidiano The Times of Israel. Il film dedicato alla storia del musicista latino-americano Sixto Rodriguez, che negli anni ’70 fornì un’inaspettata colonna sonora alla lotta anti-apartheid in Sud Africa è coprodotto da Simon Chinn, già produttore di Man on Wire che vinse la statuetta nel 2008. Chinn è figlio di sir Trevor Chinninfluente rappresentante della comunità ebraica del Regno Unito ed ebreo è anche uno dei protagonisti del documentario, Stephen “Sugar” Segerman, ortodosso di Cape Town e grande fan dalla musica di Rodriguez “meravigliosamente evocativa e fonte di ispirazione per i giovani bianchi sotto la censura repressiva del governo dell’apartheid in cerca di messaggi dalla cultura europea e americana”, come l’ha definita Segerman in un’intervista lo scorso anno.

Purim - Meghillat Ester al femminile
A Firenze un altro gruppo di donne si incontra per studiare in queste settimane, in preparazione di una lettura al femminile della Meghillat di Ruth, il secondo giorno di Shavuoth. A  Roma sabato sera, inizio della festa d Purim, in tutti i Batè Knesiot della città è risuonato il canto della Meghillat Ester. In una sala del Pitigliani, si è svolta una lettura al femminile,  partecipata da un folto numero di donne di tutte le  età. Dieci donne si sono alternate nella lettura dopo il breve saluto di Sira Fatucci che ha voluto sottolineare  l'impegno e lo studio  richiesto per l'occasione.

Anna Di Castro, Siena

pilpul
In cornice - Le promesse, i problemi, la cultura
daniele liberanomeFino a quando erano aperte le urne e i politici, qualcuno in particolare, si sono lanciati in mille promesse o in facili ricette per uscire dalla crisi. Ma i problemi hanno radici talmente profonde, la spirale negativa che si è innestata talmente complessa, che soluzioni semplici non si vedono all’orizzonte. O forse si potrebbero vedere, se si abbandonassero i soliti temi di discussione. Perché in tutta questa campagna elettorale si è parlato pochissimo di patrimonio artistico, risorsa che in Italia non manca, e pochissimo di rilancio del settore turistico, che crea milioni di posti di lavoro e che ha enormi margini di crescita in questo paese. Senza considerare che il miglioramento dell’immagine dell’Italia, legata a una più efficace comunicazione dello splendore del suo patrimonio artistico, avrebbe effetti positivi su tutto il made in Italy, che a sua volta non può certo competere facendo solo efficienze sui costi. Aggiungiamo che il settore turistico è uno dei pochissimo in cui lo Stato può ancora far sentire la sua voce: in mille altri ha le mani legatissime da quanto viene deciso a livello internazionale, o semplicemente perché interi settori dell’economia e dell’infrastruttura sono stati venduti o svenduti ad aziende che del Governo Italiano si infischiano altamente. Si può sapere allora perché non ci si è concentrati sul rilancio delle gestione del patrimonio artistico e del settore turistico? Forse non è una fiaba interessante, come l’improvvisa e drastica riduzione delle tasse, o non fa audience come la riduzione dei costi della politica. Eppure questo disinteresse è una dimostrazione tangibile come la classe politica, più che costare molto, governa molto male e non pensa a quel che è più ovvio.

Daniele Liberanome, critico d'arte

Tea for Two - Meno parole, più leggibilità
Preludio: Shabbath, la pioggia batte sui vetri e un nuovo dilemma mi assale: che libro iniziare a leggere? Due della Némirovsky o uno comperato nella libreria della stazione nel vano tentativo di diventare "la ragazza con il trolley che alla Stazione Centrale compra un volume e si sente Anna Karenina senza depressione post Vronsky"? Mentre addento le orecchie di Aman alla marmellata (quelle al cioccolato finiscono subito), alzo lo sguardo distratto verso il tavolino del salotto. Lì, proprio lì, tra la lettera di Silvio sull'imu e una copia di Grand Hotel con la solita copertina di Barbara de Rossi o sulle doti culinarie di un attore di Centovetrine, mi guarda timido e spaventato il numero di marzo di Pagine ebraiche. Abbandono Irene e la stazione e lo sfoglio. Fine preludio. (...) IL, il mensile del Sole 24 Ore ha una rubrica nelle prime pagine fenomenale, si chiama La macchina del fango ed è la stroncatura preventiva del giornale. Stroncare è facile e molto gustoso, ma per gioco delle sorti e onorare Purim decido di fare una cosa diversa: spiegare perché secondo me questo numero di Pagine ebraiche ha un che di delizioso. E ve lo dice una lettrice che è abituata alla perfezione strutturale di Vanity Fair. Primo elemento fondamentale, questo è il numero che inaugura meno parole. Quindi udite udite, forse riusciremo a leggere tutto il numero di marzo prima dell'arrivo a casa di quello di settembre con il dossier sui fatti importanti dell'anno. Secondo elemento degno di nota, questa volta ce n'è davvero per tutti i gusti. Non solo troviamo una intervista a Ginevra Elkann, la più inafferrabile e radical chic dei fratelli (una erede degli Agnelli che per dirvi NON ha la patente!) ma ci facciamo anche una chiaccherata con l'archistar Libeskind e scopriamo una fotografa da tenere d'occhio, Elinor Carucci. Allora dopo aver letto l'articolo sul fumettista Vittorio Giardino che finalmente evidenzia l'importanza culturale dell'infanzia passata leggendo Topolino e il ritratto di Ed Koch, il compianto sindaco di New York, sono pronta a gustarmi il gelato arabo-israeliano della pagina sapori. Torna poi in grande forma Pagine ebbraiche l'inserto sul witz per omaggiare Purim. Come dice Gianni Rodari "Il verbo leggere non sopporta l'imperativo", lui però è lì paziente sul tavolino del salotto.

Rachel Silvera, studentessa – twitter@RachelSilvera2


notizie flash   rassegna stampa
Qui Firenze - Purim in allegria   Leggi la rassegna

Alla Casa di Riposo di Firenze, è stato festeggiato Purim. Il duo di chitarra e voce Umberto e Mauro (torinese l'uno, romano l'altro) ha intrattenuto gli ospiti con canzoni degli anni '30, ma anche contemporanee. Fra orecchie di Haman, frittelle sfornate dalle cuoche e le barzellette preparate dai nostri anziani con l'aiuto della signora Caffaz, il duo ha coinvolto gli ospiti che hanno cantato, con nostalgia, le canzoni a loro care. Anche il rabbino Yosef Levi, prima degli auguri e del saluto, ha preso il microfono e si è lanciato in una simpatica performance. Piacevole pomeriggio in una serena atmosfera ebraica.

Emanuela Servi


 

Il numero di Pagine Ebraiche di febbraio è ripreso dalla Gazzetta del Mezzogiorno. Nella rubrica “Passati in rivista” vengono ricordati il testo della prolusione di Rita Levi Montalcini sul ruolo e la storia dell’ebraismo nella società italiana, e l’omaggio rivolto alla grande scienziata dal vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Giulio Disegni.

 



















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