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28 marzo 2013 - 17 Nisan 5773
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alef/tav
rabello Alfredo Mordechai Rabello,
giurista

Mi è sempre interessata la posizione del figlio "cattivo" (rashà) al tavolo del Seder. Mi domandavo come mai potevamo definirlo così e se si poteva applicare questa definizione qui, in Erez Israel. Le spiegazioni tradizionali mi erano senz'altro note, come ad esempio il commento di Rashì ad Esodo 13,8: "Il Signore operò in mio favore". Qui vi è un'indicazione della risposta da dare al figlio "cattivo", sottolinenando il fatto che ciò fu fatto "in mio favore" e non "in tuo favore", perché se egli fosse stato presente [lett.: lì], non sarebbe stato considerato degno di essere liberato" (Nella traduzione di Rav S.J.Sierra). Una spiegazione interessante mi è stata data dal Rav Zvi Jehuda Kook, il quale sottolineava: "Se fosse stato lì" cioè in Egitto, nella Golà, dove purtroppo vi sono ebrei che si sentono staccati dall'ebraismo e dal popolo ebraico e che vanno per noi perduti giorno per giorno. Ma se fosse stato qui, in Eretz Israel, avrebbe partecipato anche lui al processo di redenzione: è molto più difficile all'ebreo che decide di venire qui, che lotta per l'indipendenza e la difesa di Israele, non considerarsi parte del popolo ebraico ed è doveroso per noi considerare questo fratello, come gli altri fratelli, parte integrale del processo di redenzione. Ma tutti noi dobbiamo sapere anche che non vi è vera libertà senza lavoro e sforzo per ottenerla e che il figlio più in pericolo ci sembra che sia quello indifferente. Moàdim lesimchà.


Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme


Sergio Della Pergola
L'intervista del presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici al quotidiano Haaretz sulla situazione degli ebrei in Italia e sul futuro dell'emigrazione ebraica verso Israele ha destato notevole interesse e molti commenti. In realtà Pacifici non ha aggiunto nulla a quanto aveva già affermato pubblicamente a Gerusalemme il 12 settembre 2012 in occasione dell'evento inaugurale dell'Israeli Jewish Congress. Che il dibattito sia sorto ora e non allora dimostra il carattere erratico dei media ma forse anche l'acuirsi delle sensibilità di fronte al cangiante contesto della politica. Non esprimo qui un giudizio sull'interpretazione della situazione della comunità ebraica, o sull'opportunità politica di esprimere in pubblico tali preoccupazioni. Mi limito a rammentare i dati sull'aliyah dall'Italia negli ultimi dieci anni: 2003-21, 2004-42, 2005-41, 2006-42, 2007-58, 2008-52, 2009-62, 2010-97, 2011-94, 2012-137. Queste cifre riguardano le persone che entrano in Israele per la prima volta con il visto di "nuovo immigrante" e includono i turisti che nell'anno indicato hanno cambiato il loro stato da turista a immigrante. Le cifre non sono drammatiche, ma si tratta comunque di una progressione incessante e di un incremento di circa sette volte nel corso di un decennio. A queste cifre vanno aggiunti i "cittadini immigranti", ossia le persone per lo più minori, nate in Italia già provviste di cittadinanza israeliana, ossia figli di cittadini israeliani che entrano per la prima volta in Israele. Dal 2007 si tratta di almeno 50 persone ogni anno. Infine vanno aggiunti gli "immigranti di ritorno", ossia gli ex-residenti israeliani che rientrano ufficialmente in Israele dopo un periodo di residenza in Italia. Tenendo conto di tutti questi tipi di mobilità, la stima totale per il 2012 supera ampiamente i 200, ed è la più alta degli ultimi 40 anni e forse più. Nel corso di un anno solare, l'aliyah segue un moto stagionale e si concentra nei mesi estivi probabilmente per motivi legati al ciclo lavorativo e alla scolarità dei più giovani. A giudicare dai primi mesi del 2013, la tendenza del 2012 sembra continuare inalterata. Fin qui i dati. Un'interpretazione appare nel numero di aprile di Pagine Ebraiche.

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Stefano Jesurum, giornalista

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