Israele e la Knesset più breve della storia,
il danno di tornare alle urne
Con il ritorno alle urne, ad aver perso è la democrazia israeliana. Su questo punto le diverse voci da Israele, sentite da Pagine Ebraiche, sono concordi: lo scioglimento della Knesset (il parlamento israeliano), appena sette settimane dopo essere stata eletta, è un danno per il sistema paese, per le sue istituzioni, per la fiducia dei cittadini nella politica. “È stato il parlamento più breve della storia. È una sconfitta per Israele e per i suoi cittadini”, la valutazione condivisa da Sergio Della Pergola, demografo e autorevole analista della politica israeliana, e da Gideon Rahat, docente di Scienze politiche all'Università Ebraica di Gerusalemme. D'accordo l'architetto David Cassuto, già vicesindaco di Gerusalemme, per cui però – a differenza di Della Pergola – il grande responsabile di questa crisi politica è “quell'esemplare che ha sempre fatto parte della coalizione di Netanyahu e ora ha deciso di affossarlo: Avigdor Lieberman”. Per Cassuto la scelta di Lieberman - leader di Israel Beitenu, - cui 5 seggi sarebbero serviti a Netanyahu per avere la maggioranza alla Knesset (65 seggi) - è stata dettata da opportunismo e il tema della coscrizione dei haredim è una falsa questione: “la legge per cui Lieberman ha dato battaglia e che voleva introdurre sulla leva obbligatoria per i giovani haredim (ultraortodossi) non avrebbe spostato nulla. Sono già in aumento i religiosi che vanno nell'esercito e la situazione è molto cambiata rispetto a 20 anni fa. Lieberman voleva semplicemente ostacolare Netanyahu e presentarsi come alternativa”. Di diverso avvio Raphael Barki, presidente del Comitato per gli Italiani all'Estero (Comites) in Israele, che nelle posizioni espresse dal leader di Israel Beitenu vede “serietà e coerenza. A Lieberman va dato atto di aver rispettato gli impegni presi nei confronti del suo elettorato. Inoltre quanto accaduto porta l'attenzione su di un tema troppe volte confuso fuori da Israele: destra e sinistra qui hanno significati diversi e più complessi. La divisione semplicistica tra religiosi di destra e laici di sinistra è distorta: Lieberman ha preso le parti dei laici, ma è portatore di un messaggio nazionalistico, anche dal punto di vista territoriale (annessione dei Territori) che certo non è definibile come di sinistra”.
“Il problema non è destra o sinistra – la posizione di Della Pergola, professore emerito dell'Università Ebraica di Gerusalemme – ma l'assoluta imposizione di un uomo, Netanyahu, che pensa che ci sia una sola formula possibile per Israele: un governo presieduto da lui. Non ha dato la possibilità al presidente Rivlin di trovare un'alternativa ma è corso a sciogliere il Parlamento e così lui, e non Lieberman, costringe un intero paese a tornare alle urne”. "Se non Netanyahu chi altro? Non vedo nessuno altro che possa guidare il paese", la risposta (indiretta) di Cassuto. Per Della Pergola invece c'erano ancora tante opzioni sul tavolo ed inconcepibile che non siano state prese in considerazione: “si poteva tranquillamente dare la possibilità a un altro membro del Likud (il partito di Netanyahu) di provare a formare il governo. E invece verrano spesi milioni di shekel per nuove elezioni, milioni che sarebbero serviti per la sanità, per l'educazione, per i trasporti. Per i problemi reali. Siamo alla dittatura di un uomo solo al comando che non ha né alleati né associati ma ha tre inchieste all'orizzonte da cui vuole salvarsi”. Simile ma meno duro il giudizio di Rahat, consulente dell'Israel Democracy Institute: “per Netanyahu tutto questo è sicuramente un fallimento. E il costo più grave, a parte quello economico, è quello per la democrazia: molti israeliani mettono sempre più in dubbio la fiducia nelle istituzioni politiche. Dicono, 'io sono andato a votare, vi ho dato la mia legittimazione e voi non sapete fare altro che riportarmi a votare'. A settembre molti potrebbero decidere di disertare le urne. E in più in questo spazio che ci divide dal voto Israele rischia di apparire indebolita e nemici come Hamas e Hezbollah potrebbero schiacciare sull'acceleratore per metterla alla prova”. Rispetto alla disaffezione politica e a un possibile aumento dell'astensionismo c'è chi è d'accordo, come Daniela Fubini – firma di Pagine Ebraiche – e chi no, come Barki. “Ho sentito già diverse persone dire 'io a settembre non vado a votare'. Non è un dato statistico ma comunque un segnale inquietante”, afferma Fubini. Per Barki invece l'elettorato israeliano “prenderà atto di quello che è successo e cercherà di rinforzare i partiti maggiori. Non credo che gli israeliani diserteranno, anzi penso che andranno a votare più convintamente, sentiranno che il proprio voto avrà un peso ancor più decisivo”.
Ora prenderanno il via altri tre mesi di campagna elettorale che, sottolinea Astorre Modena, tra i fondatori del fondo di venture capital Terra Venture Partners, “non faranno bene al paese, portando ritardi e incertezze in molti settori”. “Economicamente il paese sta bene, e molto lo deve al settore privato estremamente imprenditoriale, - spiega Modena - ma ci sono diverse criticità a cui solo un governo stabile può rispondere. Negli ultimi 20 anni non sono state praticamente prese decisioni a lungo termine, l'infrastruttura del paese non è così sviluppata e serve una visione sul lungo periodo”. Per Modena ci sono diversi punti a cui si deve dare risposta il prima possibile: “l'alto tasso di disoccupazione di alcuni settori della società, haredi e arabi in primis, e l'aumento delle diseguaglianze sociali. Il carovita: anche la classe media in Israele ha difficoltà a chiudere il mese; per le nuove generazioni è quasi impossibile comprare una casa; non è pensabile che paesi che dovrebbero essere molto più cari del nostro alla fine non lo siano. E basta con i monopoli che riducono il potere d'acquisto”. Altro punto per Modena importante “l'investimento in infrastrutture, in particolare sul trasporto pubblico. I dati Ocse ci dicono che in Israele abbiamo una produttività molto bassa e uno dei fattori è proprio il tempo che si perde negli spostamenti”. Il suo auspicio è che si superino le differenze tra i partiti e che arrivi a un governo di unità nazionale che dia una risposta a questi problemi e lo faccia con progettualità. “La cosa migliore sarebbe che Bibi Netanyahu si facesse da parte. Lo ringraziamo per quello che ha fatto ma serve una nuova leadership, anche all'interno del Likud. Un governo più ampio, di unità nazionale, con Kachol Lavan non sarebbe ostaggio dei partiti più piccoli e potrebbe focalizzarsi sulle questioni che ho citato”.
“Sarà interessante vedere come i partiti gestiranno questi pochi mesi di campagna elettorale – sottolinea Fubini – Se manterranno le stesse liste, se recupereranno gli errori evidente nella campagna precedete, magari se introdurranno una presenza femminile maggiore (come auspicato dal Presidente Reuven Rivlin) o se non sarà una priorità. Comunque trovo incredibile che un primo ministro in pectore che non riesce a formare un governo possa legalmente scartare l'ipotesi di affidare ad altri questo compito, quand'anche all'interno del suo stesso partito, e possa invece portare il paese alle elezioni anticipate”. Elezioni da cui “si sa come ci entri ma non sai come ne esci”, sottolinea Della Pergola. I partiti intanto hanno iniziato a formulare ipotesi di accordi, nuove strategie e così via: Netanyahu, sottolinea Della Pergola, cercherà di attirare i voti di quei partiti di destra che sono rimasti fuori a questa tornata (quello di Moshe Feiglin e quello di Ayelet Shaked – che potrebbe unirsi proprio al Likud - e Nafali Bennett). “In questo e solo in questo sono d'accordo con Bibi: è finito il tempo dei partitini”, sottolinea il demografo. Ma non è sicuro che gli elettori la pensino allo stesso modo. “Dovremmo cercare di superare questa estrema personalizzazione della politica. Un problema che Israele condivide con l'Italia – afferma Rahat – Dovrebbero tornare al centro i partiti e i processi democratici al loro interno e non i volti dei singoli politici, Netanyahu, Gantz o chi per loro. In questo modo sarebbe più facile parlare della sostanza e non della forma”.
Non sarà un mio problema scegliere chi votare al ballottaggio che, anche a Livorno, si terrà il 9 giugno: infatti non potrò esercitare il mio diritto, e così ogni ebreo osservante che voti in una città chiamata al secondo turno, in quanto il giorno destinato a decidere le sorti di varie municipalità coincide con la festività ebraica di Shavuoth (Pentecoste) nella quale, alla pari del Sabato, alcune attività non vengono compiute e in queste, per vari motivi, ricade anche il voto.
Ringrazio l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane per aver preso con attenzione la mia nota e aver interessato il Ministero dell’Interno, per ricercare possibili soluzioni, il quale in sintesi ha fatto rilevare che la scelta delle date delle amministrative discende necessariamente, per via dell’accorpamento delle consultazioni, dalla data scelta, a livello europeo, appunto per le elezioni UE.
Di conseguenza, essendo previsto che due settimane dopo (solo di domenica), si tengano i ballottaggi si arriva al 9 giugno e modifiche nei giorni e negli orari non sarebbero possibili, in quanto richiederebbero atti di legge che richiedono tempi lunghi.
Insomma, il diritto-dovere costituzionale al voto salterà per dei cittadini, con buona pace anche della legge delle Intese tra Stato e Unione delle Comunità Ebraiche che sancisce che si tenga conto delle festività ebraiche.
Gadi Polacco, Consigliere Comunità Ebraica di Livorno Leggi
Quello che è mio
Questa settimana leggeremo il quinto capitolo dei Pirkè avot; nel paragrafo 11 leggiamo:
“vi sono quattro tipi di persone: colui che dice ‘quello che è mio è tuo e quello che è tuo è mio’, è un ignorante; quello che dice ‘quello che è mio è mio e quello che è tuo è tuo’ è una persona di tipo medio mentre alcuni sostengono che è la caratterista di Sodoma, in quanto la colpa di Sodoma e Gomorra era quella che ognuno pensava esclusivamente a sé stesso; c’è invece chi dice ‘quello che è mio è tuo e quello che è tuo è tuo’ questa è la caratteristica dei buoni e di coloro che si occupano della grande mizvà della zedaqà; mentre chi dice ‘quello che è mio è mio e quello che è tuo è mio’ è un malvagio.
Il 15 novembre scorso, ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali, abbiamo inaugurato nell’atrio del nostro liceo la mostra realizzata da una mia classe con le insegnanti di storia e di italiano (la sottoscritta). Quanto sarebbe durata? Quanto saremmo riusciti a resistere prima che qualcuno protestasse per i cartelli che pendono dal soffitto e contro cui è quasi inevitabile sbattere la testa? Inizialmente non ero molto ottimista, e mi sarebbe sembrato già un miracolo se la mostra avesse resistito fino alle vacanze invernali; a quel punto avremmo avuto gioco facile (come poi è stato) a chiedere che rimanesse fino alla Giornata della memoria. E a gennaio, presi dall’entusiasmo, ne abbiamo fatto addirittura una seconda copia che è stata collocata nei locali dell’Unione Culturale, nel pieno centro di Torino, per un settimana circa. Smontata la seconda mostra, chi aveva voglia di mettersi a smontare anche la prima? Intanto le proteste, se c’erano, non giungevano alle nostre orecchie. La mostra è rimasta.
In una delle ultime interviste ad Abraham Yehoshua – Corriere della Sera dell’11 aprile -, lo scrittore afferma che, a differenza del resto del mondo, in Israele sia tra arabi che ebrei si può riscontrare un “eccesso di memoria”: “I palestinesi passano la vita a recriminare sulla Nakba, la cacciata dalla loro terra. Sognano la Eawda, il ritorno. Custodiscono le chiavi della casa del bisnonno. Chiavi che non aprono più nessuna porta. Al posto della casa del bisnonno c’è un grattacielo o un negozio della Apple.”. Mi è tornato in mente questo discorso leggendo un racconto dello scrittore libanese Sélim Nassib, “la strada di casa”, contenuto nella raccolta Una sera qualsiasi a Beirut (Edizioni e/o, 2006).