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19 ottobre 2010 - 11 Cheshvan 5771
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Roberto Della Rocca
Roberto
Della Rocca,
rabbino


La radicalità con cui Avrahàm decide di separarsi dal suo amato nipote Lot (Genesi; 13,9 ) ci lascia in verità piuttosto perplessi. Proprio l’accogliente Avrahàm, colui che più di ogni altro lancia il progetto fratellanza con ogni individuo, si mostra assai risoluto nei confronti del suo consanguineo che privilegia un modello di vita diverso dal suo anteponendo la dimensione dell’avere allo sviluppo dell’essere indicatogli dal Maestro. Lot infatti è il paradigma di colui che indugia, vaitmamà (Genesi; 19, 16 e che non riesce a raggiungere la dimensione del procedere - camminare, lech lechà (Genesi; 12, 1) che caratterizza Avraham. Il distacco tuttavia è senza pathos, ma anche senza alcuna condanna, Avrahàm sembra non perseguire alcun tentativo di riunificazione. Non possono esserci compromessi e accomodamenti quando le scelte di vita divengono inconciliabili. E’ altrettanto vero però, come scriveva rav Carucci Viterbi, che quando Lot, il discepolo che si allontana, diviene “prigioniero” dei nemici della Torah, Avrahàm mette in gioco se stesso e la sua scuola per andare a liberarlo. Avrahàm, il primo educatore della storia ebraica, ci fa capire che perfino in un assimilato come Lot si trova quella scintilla di kedushà da cui discenderà Rùth, la madre del Mashiakh. Non c’è persona più lontana di una persona vicina che si allontana, ma non c’e' persona più vicina di una persona lontana che si avvicina. 
Vittorio Dan
Segre,
pensionato


Dan Segre


Se potessimo buttare i problemi personali in una fossa comune, probabilmente ci riprenderemmo i nostri.


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davar
Le sfide di Israele e il nuovo antisemitismo
pubblico"Le sfide di Israele. Lo Stato ponte tra Occidente e Oriente", questo il titolo dell'ultimo libro del professore David Meghnagi, direttore del Master internazionale di secondo livello in didattica della Shoah, presentato alla Camera dei deputati, nella Sala delle Colonne.
Relatori del convegno organizzato per l'occasione sono stati, oltre all'autore del volume, la professoressa Dina Porat, dell'Università di Tel Aviv nonché direttrice dell'istituto Stephen Ruth, che studia l'antisemitismo e il razzismo contemporanei, e il professore Govanni Sabbatucci, insegnante di Storia contemporanea all'Università La Sapienza di Roma. A coordinare gli interventi l'onorevole Fiamma Nirenstein, vicepresidente della Commissione Affari Esteri della Camera.
La presentazione del libro è stata l'occasione anche per porre l'accento sul nuovo antisemitismo il cui soggetto è Israele.
"Perché l'antisemitismo è come un mostro multiforme che si modifica e trasforma nel corso del tempo ma non scompare", così la Nirenstein, nel presentare gli interventi ha definito l'argomento di studio.
"Sono molti i libri che parlano di Israele ma quello che presentiamo oggi è diverso. E' diverso perché è il libro di David", con queste parole l'onorevole ha aperto le considerazioni sulla nuova pubblicazione. "Di David - ha spiegato - sta a significare che l'autore attraverso la sua storia vissuta, racconta di Israele e del conflitto Mediorientale. Con un occhio interiore, da ebreo, che è dovuto fuggire a causa delle persecuzioni in Libia, quindi un ebreo diasporico, ma anche con una forte vicinanza a Israele, viste le sue conoscenze e le frequentazioni dovute anche a motivi familiari. Un ebreo che conosce l'arabo e l'ebraico. David è un uomo pratico, guarda alle cose nella sua cruda realtà ma sul conflitto nonostante tutto nutre ancora una speranza, che definirei necessaria visto che rispecchia la sua storia personale e anche un po' il suo stesso conflitto interiore fra mondo arabo e israeliano. Quello di cui stiamo parlando non è un libro che tratta di politica, ma un libro che cela esperienze vissute".
"Non è un libro dove trovare delle risposte, dove trovare una soluzione al conflitto, è un libro che stimola la riflessione", ha affermato dal canto suo il professore Sabbatucci. E proprio sulle tante domande scaturite dalla lettura del libro si concentra il professore de' La Sapienza: "Le sfide di Israele. Lo Stato ponte tra Occidente e Oriente pone domande che tutti dovrebbero porsi. Non è un libro di storia. Non segue infatti quel filo sistematico caratteristico di tali volumi bensì è un aiuto a riflettere su Israele e la sua storia". "Perché Israele, a più di sessant'anni dalla sua nascita è l'unico Stato che deve ancora giustificare non le sue scelte politiche ma la sua esistenza"?, "Perché Israele se affronta una guerra sa di giocarsi tutto mentre i suoi avversari non dovrebbero giocarsi nulla"?, "Perché i verdetti della Seconda guerra mondiale, definitivi e irrevocabili ovunque, non lo sono in Medio Oriente"?, "Perché la nascita di Israele è percepita come ultima coda del colonialismo quando in realtà alla nascita fu percepita come esempio di anticolonialismo"?. Questi sono solo alcuni degli spunti di riflessioni proposti da Sabbatucci, che conclude il suo intervento con questa domanda: "Perché Israele nato con la vocazione a essere ponte fra Occidente e Oriente, in realtà si è trasformato in una 'Testa di ponte', per riprende il gergo militare (ultimo avamposto oltre le linee nemiche)"?.
Dina Porat invece concentra il suo intervento sulla storia del nuovo antisemitismo, formatosi negli ultimi dieci anni, un antisemitismo che nasce da una serie di false associazioni, a partire da quella che vede l'ebreo identificato con l'israeliano, senza alcuna distinzione. Un antisemitismo che propagato da una parte del mondo islamico, quello più estremista, viene raccolto dalle fazioni politiche di estrema sinistra dell'Europa occidentale e del Nord America, che sono anti-americane, perciò vicine alle posizioni islamiche, e se uno è anti-americano è quindi per loro necessariamente anti-israliano”. Fra le varie altre considerazioni fatte dalla professoressa israealiana la spiegazione di come non sia il negazionismo a fare paura: “Grazie anche ai Paesi che ritengono questo un reato i negazionisti possono essere processati ma cosa ben più grave oggi è la banalizzazione della Shoah, la trasposizione di alcuni concetti, che fa comodo a molti, forse per ripulire la propria immagine dagli errori storici, che forzano l'associazione dell'ebreo al nazista, anche in questo consiste il nuovo antisemitismo”. “La Shoah quindi non ha fatto scomparire l'antisemitismo ma gli ha dato una nuova forma”. La professoressa Porat conclude con una nota di speranza: "Ci sono già nel mondo intellettuali e politici che hanno ottimi rapporti con Israele ma bisogna analizzare i recenti sviluppi dell'antisemitismo e combatterli per cambiare le cose".
David Meghnagi ha preso per ultimo la parola e dopo aver spiegato quanto sia difficile scrivere un libro sul Medio Oriente visto che “le parole che ruotano attorno a questo mondo sono malate” spiega al pubblico l'intento del suo libro: “Analizzare queste parole malate”. “Il mio pensiero da analista - ha spiegato - è che le parole possono guarire le persone”. Meghnagi ha poi proseguito definendo Israele come “un'isola accerchiata da un oceano arabo e islamico che vorrebbe sommergerlo e non un ponte”, come il titolo del suo scritto vorrebbe far credere “Ma io - tiene a precisare - non ho smesso di sognare, proprio come lo Stato d'Israele, la cui sopravvivenza è legata alla speranza di un futuro migliore. La forza dello Stato israeliano consiste proprio in questo: nell'immaginare un futuro diverso. Finché tiene la visione futura l'angoscia del popolo israeliano resterà in secondo piano e non prenderà il sopravvento. Israele sopravvivrà solo se i suoi cittadini continueranno a sperare. Ci vorrà molto tempo prima che si raggiunga la pace e per far questo Israele deve rafforzare politicamente le amicizie e aprirsi al mondo arabo, che non avrebbe vita senza Israele. Se Israele smettesse di esistere il mondo arabo continuerebbe a combattere al suo interno. Dal canto suo lo Stato israeliano è condannato a vincere sempre perché se perdesse sarebbe destinato alla scomparsa”.
Sull'angoscia degli israeliani ha ripreso la parola la professoressa Porat rafforzando le parole di Meghnagi: “Da cittadina israeliana confermo che la mia città è una città vibrante, vedo nel mio popolo la voglia di vivere”. Ma su un aspetto corregge Meghnagi “Israele non è un'isola perché in Israele è forte il sentimento di far parte del mondo, con i suoi scrittori tradotti in tutte le lingue, le invenzioni mediche e tecnologiche”. Fiamma Nirenstein chiude il convegno e la presentazione del libro menzionando l'ultimo sondaggio promosso dalla radio israeliana: “In Israele l'80 per cento dei cittadini si dice soddisfatto della sua vita - fa notare l'onorevole - proprio mentre Ahmadinejad scrutava i confini inneggiando alla violenza verso lo Stato israeliano”.

Valerio Mieli


Quel mondo sommerso che si rivolge a noi
pubblicoLe vicende dei marrani continuano a destare l'interesse dell'Italia ebraica. Torino ha dedicato un convegno, organizzato dalla Comunità locale insieme all'Amicizia ebraico-cristiana, il cui intento era anche quello - come ricorda in un saluto introduttivo il presidente Tullio Levi - di celebrare il cinquecentesimo anniversario del Gherush degli ebrei dell'Italia meridionale.
Due illustri studiosi, Cesare Colafemmina, docente di letteratura ebraica, e Marco Morselli, studioso di filosofia delle religioni, hanno guidato un lungo percorso di riflessioni sulla storia delle persecuzioni, degli esili, delle conversioni forzate degli ebrei del Mezzogiorno, e sulle problematiche che tali vicende pongono ancora oggi. Ad affiancarli erano presenti due rabbini, il rav Luciano Caro e il rav Scialom Bahbout, entrambi conoscitori del Sud ebraico e impegnati nelle relazioni con esso, nonché un rappresentante laico delle istituzioni dell'ebraismo italiano, il consigliere UCEI con delega alla cultura Victor Magiar.
Apre i lavori un intervento - quello del professor Colafemmina - di carattere prettamente storico.
“Il 1510, di cui quest'anno ricorre il cinquecentenario - chiarisce il professore - è una data più che altro simbolica, perché in realtà la cacciata degli ebrei del Meridione fu un processo durato molti decenni”. Cominciato dal 1492, quando gli spagnoli, strappata Granada ai mori, decisero di unificare il loro regno, se non per quanto riguarda la lingua, per lo meno “d'arme e d'altar”; tale processo si protrasse fino almeno alla metà del sedicesimo secolo.
“Cacciati dalla Sicilia - spiega Colafemmina, eseguendo, a suffragio della sua lezione, letture in lingua originale delle prammatiche dell'amministrazione partenopea dei primi del '500 - gli ebrei trovarono accoglienza presso Ferrante I, re di Napoli”. I tempi duri arrivarono poco dopo. “Ferdinando il Cattolico - continua il professore - decise di estendere l'Inquisizione e la sua politica di epurazione religiosa a tutta l'Italia del sud: nel novembre 1510 fece giungere a Napoli disposizioni per cui, entro sei mesi, tutti gli ebrei e i neofiti, i conversos, avrebbero dovuto abbandonare il regno e non farvi ritorno mai più. Queste misure servivano a preservare la fedelissima città di Napoli e la sua santa fede cattolica”.
A conclusione del suo intervento il professore Colafemmina legge alcune pagine di una Haggadah di Pesach scritta in dialetto pugliese, o meglio, in caratteri ebraici che traslitterano il volgare parlato nel tacco dello stivale cinque secoli fa.
Intorno alle vestigia dell'ebraismo del Meridione parla anche rav Caro, rabbino capo di Ferrara e cittadino onorario di Siracusa. “Se è vero che stiamo riscoprendo importanti tracce della presenza ebraica in Sicilia, come le molte case di Salemi con l'incavo per la mezuzah, per fare un esempio, su parte dei ritrovamenti io nutro seri dubbi”. I dubbi di rav Caro riguardano soprattutto i molti mikvè, le vasche per i bagni rituali, rinvenuti di recente in Sicilia. “In quella meravigliosa isola c'è molto da lavorare, per chi vuole studiare la presenza ebraica, ma bisogna anche fare attenzione a persone poco competenti, oppure interessate ad attirare attenzione e turismo”. In forza del suo lungo impegno sul territorio siciliano, rav Caro ha potuto raccontare - destando la curiosità del pubblico - di numerosi incontri interessanti, aneddoti e scoperte della gente del luogo con supposte ascendenze ebraiche: “Un tale di un paesino dell'entroterra siculo mi ha raccontato che sua nonna, il sabato sera, accendeva le candele. La cosa interessante è che la nonna diceva sempre ai suoi nipoti di non parlare fuori casa di questa usanza: questa autocensura prova che si trattava proprio di un retaggio di un'abitudine segretamente mantenuta dai marrani”.
Rav Bahbout, dopo aver introdotto al pubblico le problematiche di carattere alakhico sollevate da coloro che a distanza di molte generazioni rivendicano, presso un'autorità rabbinica, la loro identità ebraica, ha lanciato una provocazione. “Se vogliamo recuperare l'ebraismo del Mezzogiorno, il lavoro da fare al sud è molto grande, ci vuole un progetto che coinvolga storici, antropologi, ricercatori e rabbini. Siamo ancora molto lontani da un tale obiettivo. Temo - ha dichiarato, scettico, il rav Bahbout - che all'ebraismo italiano manchino le risorse umane per rispondere adeguatamente a questa sfida”.
A prendere la parola subito dopo è il consigliere UCEI Victor Magiar, che da due anni lavora su questo fronte. “Esiste un mondo sommerso - dice il consigliere - che si rivolge a noi con domande e richieste. Questo mondo sommerso è fatto di persone che, comunque le vogliamo chiamare, in qualunque categoria le vogliamo inserire, sentono di far parte del popolo ebraico e della sua storia”.
“Di fronte a ciò - prosegue Magiar - le istituzioni ebraiche non possono, né vogliono, rimanere indifferenti”. Ha poi espresso l'auspicio che “questa importante sfida sia giocata dell'ebraismo italiano a fianco del Meridione, delle sue università”. “È un impegno che deve coinvolgere tutti, non solo noi ebrei - ha concluso il consigliere UCEI - perché riguarda un pezzo della storia d'Italia, della storia del Mediterraneo, la quale, segnata da una straordinaria promiscuità di culture, lingue e religioni, può ancora oggi insegnarci qualcosa sul vivere insieme”.

Manuel Disegni


Qui Milano - In ricordo di Astorre Mayer
libroAstorre Mayer è stato un personaggio fondamentale della storia della Comunità ebraica di Milano. Nato nel 1906, laureato in ingegneria al Politecnico di Milano, Astorre Mayer si dedicò alla sua professione di industriale. E all’indomani della Seconda guerra mondiale fu la figura capace di guidare l’ebraismo milanese fuori dagli anni bui, grazie alla sua instancabile attività. Alla Società Umanitaria è stato presentato il volume che raccoglie gli atti del convegno “Per ricostruire e ricostruirsi. Astorre Mayer e la rinascita ebraica tra Italia e Israele”, Franco Angeli Edizioni 2010, a cura di Marco Paganoni. A introdurre il tema è stato il giornalista e studioso Arturo Colombo. “Astorre Mayer ha trascorso tutta la vita senza mai dimenticare i suoi confratelli – ha ricordato il professor Colombo - Non dimentichiamo che la Comunità ebraica di Milano nel Dopoguerra era passata da 7 o 8 mila persone a circa 4500, a cui si aggiungevano i profughi, ospitati nel palazzo Odescalchi di via Unione 5. Astorre Mayer si occupò di tutti loro. Ma non si limitò a questo: come disse Spadolini, Astorre Mayer fu sempre presente al cuore dei milanesi”. Sono state poi messe in evidenza le grandi capacità diplomatiche di Mayer, che fu il primo console onorario di Israele a Milano. E che, ha ricordato Morris Ghezzi della Lega internazionale per i diritti dell’uomo, dimostrò di saper leggere il momento storico fondamentale del processo di rinnovamento che stava vivendo la Chiesa. “Astorre Mayer ebbe stretti rapporti sia con Giovanni XXIII sia con l’Arcivescovo di Milano Giovanni Montini, prima che salisse al soglio pontificio come Paolo VI. Non è un caso che fu proprio con questi papi che la Chiesa si aprì alla questione sociale e al dialogo interreligioso” ha spiegato il professor Ghezzi. Infine Maria Luisa Cicalese, ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università Statale di Milano, si è soffermata sul filantropismo di Mayer, tanto nei confronti dei suoi correligionari, quanto verso i suoi operai e i cittadini milanesi “perché Mayer ripeteva sempre che occorre ‘lavorare con le nostre mani e non aspettare inerti l’aiuto altrui” ha concluso la professoressa.

Rossella Tercatin


Qui Milano - All’Adeissima 2010 Rita
“la migliore voce femminile israeliana”
RitaAutunno, tempo di Adeissima, l’evento benefico organizzato dall’Adei-Wizo, che da oltre vent’anni raccoglie fondi per le campagne dell’associazione nello Stato d’Israele. Dopo il successo della passata edizione, che aveva visto il cantante Idan Raichel catturare con i suoi ritmi l’affollatissima platea dell’Auditorium di Milano, quest’anno sarà star d’eccezione Rita, nominata “la migliore voce femminile israeliana di tutti i tempi” nel corso delle celebrazioni del sessantesimo anniversario dello Stato d’Israele. “Dopo lo scorso anno tenevamo particolarmente a proporre un programma dello stesso livello - spiega Susanna Shakì, presidente della sezione italiana del Women International Zionist Organization da due anni - Siamo particolarmente felici di avere con noi Rita per questa Adeissima anche per celebrare la Comunità persiana, che rappresenta una delle colonne dell’ebraismo milanese”. Rita infatti, nome d’arte di Rita Yahan-Farouz, classe 1962, è nata a Teheran ed è emigrata con la famiglia in Israele solo nel 1970. La vocazione artistica l’ha scoperta durante il servizio di leva, quando è entrata a far parte della banda musicale dell’esercito. Da lì in poi un continuo crescendo di successi. I suoi album hanno venduto in patria oltre un milione di copie, e più volte Rita ha rappresentato Israele all’Eurovision. Nel 1998 è stata scelta per cantare l’HaTikwa durante i festeggiamenti ufficiali per i cinquant’anni di Israele. La sua fama è arrivata fino agli Stati Uniti, dove il suo singolo Love Has Begun le ha fatto guadagnare il titolo di Artista rivelazione dell’anno 2009 della rivista New Music Weekly.
L’appuntamento con Rita all’Adeissima è per mercoledì 20 ottobre al Teatro Smeraldo. E il ricavato della serata sarà devoluto a favore dei bambini etiopi di Pardes Katz, sobborgo degradato alle soglie di Benè Berak. “A Pardes Katz vivono molte famiglie arrivate dall’Etiopia da poco - racconta ancora Susanna Shakì - A loro e ai loro bambini manca tutto. L’Adei vuole sostenere questi bambini, portare loro pasti caldi, giocattoli e materiale scolastico. Perché è da queste piccole cose che comincia la vera integrazione”.

r.t

 
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pilpul
Legge e negazionismo, “Interveniamo sull'insegnamento”
Tobia ZeviInsieme a molti altri - assai più autorevoli del sottoscritto - nei giorni scorsi ho avanzato alcune perplessità sulla proposta di una legge contro il negazionismo. Sia ben chiaro che tutti riteniamo aberrante negare o ridurre la tragedia della Shoah. Si tratta però di un problema assai complesso: i reati di opinione sono una materia delicatissima, e non è affatto detto che processando questi personaggi senza nessuna credibilità li si indebolisca. Anzi. Oltre a farne - come molti hanno sottolineato - dei potenziali martiri della libertà di espressione, ho forti dubbi sulla punibilità reale di alcune affermazioni. Ad esempio, se qualcuno sostiene che le vittime ebree nei lager non sono state sei milioni, ma meno, quale giudice potrebbe comminargli una sentenza? E immaginiamo cosa accadrebbe se un personaggio del genere venisse assolto!
Dal punto di vista generale c’è un terzo problema. Una legge di questo tipo dovrebbe necessariamente comprendere anche altre vicende storiche. Sarebbe accettabile, per esempio, un professore che negasse l’utilizzo da parte degli italiani dei gas durante la guerra di Etiopia? O che sostenesse che le foibe non sono mai esistite? Chi può arrogarsi il diritto di decidere chi sta dentro e chi sta fuori dal perimetro della legge?
Tuttavia il senso della proposta non sfugge. Riccardo Pacifici si è fatto interprete di un sentimento di rabbia e frustrazione che riguarda tutti noi, soprattutto a poche ore di distanza dall’anniversario del 16 ottobre 1943. Qualcosa occorre fare.
Personalmente ritengo che bisognerebbe intervenire sull’insegnamento, per impedire che persone così screditate possano insegnare nelle scuole o nelle università. Come? Si potrebbe forse istituire una commissione ministeriale - in modo che siano tutelate le varie categorie professionali, composta da membri di chiara fama - che, dotata di poteri reali e capace di muoversi in tempi ragionevolmente brevi, possa comminare sanzioni (sospensione, espulsione, spostamento) e ripristinare un insegnamento corretto e rispettoso della storia e della dignità delle vittime.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas 


Legge e negazionismo, "Perché bisogna punire"
Nell’apprestarmi ad affrontare questo argomento, difficilmente riesco a liberare La mia mente da quell’assordante “silenzio” di mia nonna, Marisa Di Porto, deportata ad Auschwitz il 23 marzo del 1943 (A5361) e che qualcuno, con “impavida” serenità, vuol far credere che abbia vissuto per diversi mesi in un “villaggio vacanze”.
La proposta di introdurre anche in Italia il reato di “negazionismo”- è voluta, come appresso si vedrà, la decisione quadro del Consiglio d’Europa 2008/913/GAI (GU L.328 del 6.12.2008), sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale, ha aperto in seno al mondo ebraico, e non solo, un forte dibattito sull’opportunità o meno di una legge di tale portata.
Alcuni, ritengono che, come si è potuto leggere sui giornali e sul Portale dell'ebraismo italiano moked.it nei giorni scorsi, “penalizzare il negazionismo non può essere la soluzione dei problemi. Non fosse altro perché il negazionismo è un male sociale e culturale. Va dunque affrontato con anticorpi culturali e sociali, non attraverso la repressione giudiziaria”. “Si rischierebbe di farne (i negazionisti) dei martiri della libertà di pensiero”.
A mio avviso questa retorica sprovveduta non è altro che un artificio ipocrita con cui un certo ebraismo è da sempre incline ad approcciare alcune tematiche di rilevanza concreta, volendo dimostrare di essere sempre “migliore” degli altri.
Sull’argomento vanno sottolineati due aspetti dai quali non si può prescindere se non si vuol essere, per l’appunto, retorici: il primo è relativo alla definizione stessa di negazionismo; il secondo accede alle implicazioni pericolose che questo fenomeno produce sull’esistenza stessa del popolo ebraico come “nazione”.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la negazione della Shoah deve essere definita come una forma di propaganda antisemita che nega l’evidenza dei fatti storici per fini ideologici e politici. Infatti, la ragione predominante dell’antisemitismo contemporaneo è ancora quella di una cospirazione ebraica. Non nuovi sono gli assunti secondo cui gli ebrei controllerebbero tutto ciò che accade nel mondo, o tramite la loro potenza finanziaria o tramite i media, condizionando in maniera occulta la politica internazionale. Qui la negazione della Shoah gioca un ruolo cruciale. Si presume che la Shoah non abbia mai avuto luogo a che l’ala ebraica, sfruttando lo status di vittime, utilizzi la “menzogna di Auschwitz” per esercitare una pressione morale sui principali governi europei per ottenere lauti risarcimenti o politiche di favore agli interessi del “gruppo”.
Quindi, il negazionismo non è altro che una forma più o meno “mascherata” di antisemitismo. A questo punto si potrebbe obiettare che l’ordinamento nazionale già prevede delle norme che sanzionano chi diffonde o incita in qualsiasi modo a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (vedasi la L.654/1975 di Ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale di New York sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, ovvero, la più nota “legge Mancino” - L. 65/1993 - entrambe modificate dalla più recente L. 85/2006 del Governo Berlusconi). In realtà, nessuna di queste norme potrebbe essere applicata per chi, proteggendosi dietro lo schermo della ricerca storiografica (guai al dare degli antisemiti a personaggi come Claudio Moffa o Carlo Mattogno, si rischierebbe una querela per diffamazione!) propugni tesi ed idee il cui fine ultimo e reale non è solo quello discriminatorio ma quello ben più grave di delegittimazione di un intero popolo.
Quanto al secondo aspetto, che si ricongiunge al primo, non possiamo non evidenziare come la “menzogna di Auschwitz” metta in discussione il diritto di Israele ad esistere. Qui ha avuto luogo un processo cognitivo, nel quale il pensiero “negazionista”, propagandato da pseudo intellettuali europei è stato adottato da molte realtà islamiche. L’influenza di queste idee è supportata da un numero di confutatori occidentali dell’Olocausto, quali Jurgen Graf, Gerd Honsiik, Wolfgang Frohlich e Roger Graudy, che sono stati accolti come eroi in molti paesi del Medio Oriente. Tutto ciò per dire che negando la Shoah, che per molti è ancora l’elemento di legittimazione dello stato di Israele, si può essere “legittimati” a programmarne la distruzione reale, così come ribadito con cadenza quasi quotidiana da Mahmud Ahmadinejad.
Purtroppo, la diffusione delle idee negazioniste nelle scuole coraniche e nelle moschee, così come la diffusione dei Protocolli degli Anziani di Sion, si muovono nella stessa direzione: gli ebrei sono in perenne complotto per la conquista del mondo e la Shoah è una loro invenzione.
Non si comprende, quindi, perché una legge sul negazionismo, debba essere considerata dai soliti “ben pensanti” una legge liberticida, esclusivamente tesa a limitare la libertà di espressione del pensiero. Il negazionismo, come detto, non è ricerca scientifica e non ha nulla a che fare con l’analisi storica, questa ultima da ritenersi insostituibile e necessaria per approfondire tutti gli aspetti della Shoah nel contesto socio-culturale in cui si è realizzata.
Per questi motivi ritengo che le condotte dei negazionisti non debbano trovare alcuna forma di legittimazione in ragione di un presunto esercizio del diritto alla libera espressione del pensiero, e ciò non solo quando sia evidente la strumentalità ideologica dell’apparente critica storiografica ufficiale, ma anche in quei casi, e soprattutto in quei casi, in cui sia immediatamente manifesta la finalità di propaganda antisemita.
In tal senso si è pronunciata la Corte Europea dei diritti dell’Uomo (sez. IV, 24/06/2003 - Roger Garaudy c. Francia - in Giur. It., 2005, 2241), secondo la quale “è irricevibile il ricorso di un cittadino che lamenta la lesione del proprio diritto di espressione a causa della condanna penale inflittagli dalle autorità nazionali per aver manifestato opinioni negazioniste della Shoah. Tale condotta, sostiene la Corte, integra un abuso del diritto di espressione previsto dall’art.10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, giacché, sostenendo la negazione o la revisione dei fatti storici definitivamente stabiliti, si rimettono in causa i valori che fondano la lotta contro il razzismo e l’antisemitismo e ciò comporta un pericolo per l’ordine pubblico. Conseguentemente, il suo perseguimento da parte della legislazione nazionale costituisce un’ingerenza legittima ed una misura necessaria in una società democratica”.
Da ciò ne discende che il diritto alla libera manifestazione del pensiero, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, non giustifica comportamenti che, pur esternando convinzioni personali, ledano altri principi di rilevanza costituzionale. Pertanto, dal momento che le norme per la repressione delle forme di discriminazione razziale sono in attuazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Carta Costituzionale, le eventuali limitazioni ad esse imposte, risulterebbero ampiamente giustificate.
Si evidenzia in ultimo, come il Consiglio d’Europa il 28 novembre 2008, ha adottato la Decisione quadro 2008/913/GAI (GU L. 328 del 6.12.2008), che fa seguito all'azione comune 96/443/GAI, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale. Tale Decisione prevede che i comportamenti razzisti e xenofobi debbano costituire un reato in tutti gli Stati membri ed essere passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive. Tra le condotte considerate punibili, in quanto reati penali, determinanti atti commessi con intento razzista o xenofobo, la Decisione, esplicitamente vi fa rientrare “la pubblica apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio o contro l'umanità, i crimini di guerra, quali sono definiti nello Statuto della Corte penale internazionale (articoli 6, 7 e 8) e i crimini di cui all’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro”. Detta decisione dovrà essere trasposta negli Stati membri, tra cui l’Italia, entro la data del 28 novembre 2010.
Auspico che l’Italia non perda questa occasione per mettersi al pari di Austria, Francia, Germania e Belgio nel recepire e adottare una normativa che in modo organico reprima qualsiasi atto teso all’istigazione e/o alla violenza per ragioni culturali, sociali, etniche, religiose, sessuali, anche quando gli stessi atti vengono attuati mediante la negazione o la minimizzazione dei crimini di genocidio.

Joseph Di Porto, avvocato

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notizieflash   rassegna stampa
Celebrazioni per Yitzhak Rabin,
quest’anno saranno le ultime 

Tel Aviv, 19 ottobre 
 
Leggi la rassegna

“Sulla figura del premier Yitzhak Rabin, che firmò gli accordi di riconoscimento reciproco con l'Olp di Yasser Arafat i militari di leva hanno oggi idee molto approssimative”. A divulgare la notizia, frutto di un sondaggio fra i militari di leva israeliani, è stato il quotidiano Yediot Aharont. In questo contesto è giunta la proposta di una parlamentare laburista, Einat Wilf, di rimuovere dalla sala della lista alla Knesset un grande quadro che mostra Rabin, per sostituirlo con una raffigurazione di David Ben Gurion, il fondatore dello Stato di Israele. La decisione definitiva spetta all'attuale leader laburista Ehud Barak che, ha detto la Wilf, non si è ancora pronunciato. 
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Due i temi fondamentali della rassegna di oggi, entrambi relativi al mondo cattolico. Il primo è la dichiarazione intermedia del Sinodo dei vescovi del Medio Oriente, che badando bene a distinguersi dall’antisemitismo vero e proprio si schierano a favore dei palestinesi: il “fondamentalismo” (espressione eufemistica per indicare terrorismo e intolleranza che attraversano le società della ragione) sarebbe una conseguenza dell’”occupazione” (e non si capisce se si sta parlando dello Stato di Israele in quanto tale o della Giudea e Samaria). »

Ugo Volli




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