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19
ottobre
2010 - 11 Cheshvan 5771 |
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![Roberto Della Rocca](http://www.moked.it/unione_informa/101019/dellarocca.jpg) |
Roberto
Della Rocca,
rabbino
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La
radicalità con cui Avrahàm decide di separarsi dal suo amato nipote Lot
(Genesi; 13,9 ) ci lascia in verità piuttosto perplessi. Proprio
l’accogliente Avrahàm, colui che più di ogni altro lancia il progetto
fratellanza con ogni individuo, si mostra assai risoluto nei confronti
del suo consanguineo che privilegia un modello di vita diverso dal suo
anteponendo la dimensione dell’avere allo sviluppo dell’essere
indicatogli dal Maestro. Lot infatti è il paradigma di colui che indugia, vaitmamà (Genesi; 19, 16 e che non riesce a raggiungere la dimensione del procedere - camminare, lech lechà
(Genesi; 12, 1) che caratterizza Avraham. Il distacco tuttavia è senza
pathos, ma anche senza alcuna condanna, Avrahàm sembra
non perseguire alcun tentativo di riunificazione. Non possono
esserci compromessi e accomodamenti quando le scelte di vita divengono
inconciliabili. E’ altrettanto vero però, come scriveva rav Carucci
Viterbi, che quando Lot, il discepolo che si allontana, diviene “prigioniero”
dei nemici della Torah, Avrahàm mette in gioco se stesso e la sua
scuola per andare a liberarlo. Avrahàm, il primo educatore della storia
ebraica, ci fa capire che perfino in un assimilato come Lot si trova quella scintilla di kedushà da cui discenderà Rùth, la madre del Mashiakh.
Non c’è persona più lontana di una persona vicina che si allontana, ma
non c’e' persona più vicina di una persona lontana che si
avvicina.
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Vittorio
Dan
Segre,
pensionato
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Se potessimo buttare i problemi personali in una fossa comune,
probabilmente ci riprenderemmo i nostri.
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Le sfide di Israele e il nuovo antisemitismo
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"Le sfide di Israele. Lo
Stato ponte tra Occidente e Oriente", questo il titolo dell'ultimo
libro del professore David Meghnagi, direttore del Master
internazionale di secondo livello in didattica della Shoah, presentato
alla Camera dei deputati, nella Sala delle Colonne.
Relatori del convegno organizzato per l'occasione sono stati, oltre
all'autore del volume, la professoressa Dina Porat, dell'Università di
Tel Aviv nonché direttrice dell'istituto Stephen Ruth, che studia
l'antisemitismo e il razzismo contemporanei, e il professore Govanni
Sabbatucci, insegnante di Storia contemporanea all'Università La
Sapienza di Roma. A coordinare gli interventi l'onorevole Fiamma
Nirenstein, vicepresidente della Commissione Affari Esteri della
Camera.
La presentazione del libro è stata l'occasione anche per porre
l'accento sul nuovo antisemitismo il cui soggetto è Israele.
"Perché l'antisemitismo è come un mostro multiforme che si modifica e
trasforma nel corso del tempo ma non scompare", così la Nirenstein, nel
presentare gli interventi ha definito l'argomento di studio.
"Sono molti i libri che parlano di Israele ma quello che presentiamo
oggi è diverso. E' diverso perché è il libro di David", con queste
parole l'onorevole ha aperto le considerazioni sulla nuova
pubblicazione. "Di David - ha spiegato - sta a significare che l'autore
attraverso la sua storia vissuta, racconta di Israele e del conflitto
Mediorientale. Con un occhio interiore, da ebreo, che è dovuto fuggire
a causa delle persecuzioni in Libia, quindi un ebreo diasporico, ma
anche con una forte vicinanza a Israele, viste le sue conoscenze e le
frequentazioni dovute anche a motivi familiari. Un ebreo che conosce
l'arabo e l'ebraico. David è un uomo pratico, guarda alle cose nella
sua cruda realtà ma sul conflitto nonostante tutto nutre ancora una
speranza, che definirei necessaria visto che rispecchia la sua storia
personale e anche un po' il suo stesso conflitto interiore fra mondo
arabo e israeliano. Quello di cui stiamo parlando non è un libro che
tratta di politica, ma un libro che cela esperienze vissute".
"Non è un libro dove trovare delle risposte, dove trovare una soluzione
al conflitto, è un libro che stimola la riflessione", ha affermato dal
canto suo il professore Sabbatucci. E proprio sulle tante domande
scaturite dalla lettura del libro si concentra il professore de' La
Sapienza: "Le sfide di Israele. Lo Stato ponte tra Occidente e Oriente
pone domande che tutti dovrebbero porsi. Non è un libro di storia. Non
segue infatti quel filo sistematico caratteristico di tali volumi bensì
è un aiuto a riflettere su Israele e la sua storia". "Perché Israele, a
più di sessant'anni dalla sua nascita è l'unico Stato che deve ancora
giustificare non le sue scelte politiche ma la sua esistenza"?, "Perché
Israele se affronta una guerra sa di giocarsi tutto mentre i suoi
avversari non dovrebbero giocarsi nulla"?, "Perché i verdetti della
Seconda guerra mondiale, definitivi e irrevocabili ovunque, non lo sono
in Medio Oriente"?, "Perché la nascita di Israele è percepita come
ultima coda del colonialismo quando in realtà alla nascita fu percepita
come esempio di anticolonialismo"?. Questi sono solo alcuni degli
spunti di riflessioni proposti da Sabbatucci, che conclude il suo
intervento con questa domanda: "Perché Israele nato con la vocazione a
essere ponte fra Occidente e Oriente, in realtà si è trasformato in una
'Testa di ponte', per riprende il gergo militare (ultimo avamposto
oltre le linee nemiche)"?.
Dina Porat invece concentra il suo intervento sulla storia del nuovo
antisemitismo, formatosi negli ultimi dieci anni, un antisemitismo che
nasce da una serie di false associazioni, a partire da quella che vede
l'ebreo identificato con l'israeliano, senza alcuna distinzione. Un
antisemitismo che propagato da una parte del mondo islamico, quello più
estremista, viene raccolto dalle fazioni politiche di estrema sinistra
dell'Europa occidentale e del Nord America, che sono anti-americane,
perciò vicine alle posizioni islamiche, e se uno è anti-americano è
quindi per loro necessariamente anti-israliano”. Fra le varie altre
considerazioni fatte dalla professoressa israealiana la spiegazione di
come non sia il negazionismo a fare paura: “Grazie anche ai Paesi che
ritengono questo un reato i negazionisti possono essere processati ma
cosa ben più grave oggi è la banalizzazione della Shoah, la
trasposizione di alcuni concetti, che fa comodo a molti, forse per
ripulire la propria immagine dagli errori storici, che forzano
l'associazione dell'ebreo al nazista, anche in questo consiste il nuovo
antisemitismo”. “La Shoah quindi non ha fatto scomparire
l'antisemitismo ma gli ha dato una nuova forma”. La professoressa Porat
conclude con una nota di speranza: "Ci sono già nel mondo intellettuali
e politici che hanno ottimi rapporti con Israele ma bisogna analizzare
i recenti sviluppi dell'antisemitismo e combatterli per cambiare le
cose".
David Meghnagi ha preso per ultimo la parola e dopo aver spiegato
quanto sia difficile scrivere un libro sul Medio Oriente visto che “le
parole che ruotano attorno a questo mondo sono malate” spiega al
pubblico l'intento del suo libro: “Analizzare queste parole malate”.
“Il mio pensiero da analista - ha spiegato - è che le parole possono
guarire le persone”. Meghnagi ha poi proseguito definendo Israele come
“un'isola accerchiata da un oceano arabo e islamico che vorrebbe
sommergerlo e non un ponte”, come il titolo del suo scritto vorrebbe
far credere “Ma io - tiene a precisare - non ho smesso di sognare,
proprio come lo Stato d'Israele, la cui sopravvivenza è legata alla
speranza di un futuro migliore. La forza dello Stato israeliano
consiste proprio in questo: nell'immaginare un futuro diverso. Finché
tiene la visione futura l'angoscia del popolo israeliano resterà in
secondo piano e non prenderà il sopravvento. Israele sopravvivrà solo
se i suoi cittadini continueranno a sperare. Ci vorrà molto tempo prima
che si raggiunga la pace e per far questo Israele deve rafforzare
politicamente le amicizie e aprirsi al mondo arabo, che non avrebbe
vita senza Israele. Se Israele smettesse di esistere il mondo arabo
continuerebbe a combattere al suo interno. Dal canto suo lo Stato
israeliano è condannato a vincere sempre perché se perdesse sarebbe
destinato alla scomparsa”.
Sull'angoscia degli israeliani ha ripreso la parola la professoressa
Porat rafforzando le parole di Meghnagi: “Da cittadina israeliana
confermo che la mia città è una città vibrante, vedo nel mio popolo la
voglia di vivere”. Ma su un aspetto corregge Meghnagi “Israele non è
un'isola perché in Israele è forte il sentimento di far parte del
mondo, con i suoi scrittori tradotti in tutte le lingue, le invenzioni
mediche e tecnologiche”. Fiamma Nirenstein chiude il convegno e la
presentazione del libro menzionando l'ultimo sondaggio promosso dalla
radio israeliana: “In Israele l'80 per cento dei cittadini si dice
soddisfatto della sua vita - fa notare l'onorevole - proprio mentre
Ahmadinejad scrutava i confini inneggiando alla violenza verso lo Stato
israeliano”.
Valerio Mieli
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Quel mondo sommerso che si rivolge a noi
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Le vicende dei marrani
continuano a destare l'interesse dell'Italia ebraica. Torino ha
dedicato un convegno, organizzato dalla Comunità locale insieme
all'Amicizia ebraico-cristiana, il cui intento era anche quello - come
ricorda in un saluto introduttivo il presidente Tullio Levi - di
celebrare il cinquecentesimo anniversario del Gherush degli ebrei
dell'Italia meridionale.
Due illustri studiosi, Cesare Colafemmina, docente di letteratura
ebraica, e Marco Morselli, studioso di filosofia delle religioni, hanno
guidato un lungo percorso di riflessioni sulla storia delle
persecuzioni, degli esili, delle conversioni forzate degli ebrei del
Mezzogiorno, e sulle problematiche che tali vicende pongono ancora
oggi. Ad affiancarli erano presenti due rabbini, il rav Luciano Caro e
il rav Scialom Bahbout, entrambi conoscitori del Sud ebraico e
impegnati nelle relazioni con esso, nonché un rappresentante laico
delle istituzioni dell'ebraismo italiano, il consigliere UCEI con
delega alla cultura Victor Magiar.
Apre i lavori un intervento - quello del professor Colafemmina - di
carattere prettamente storico.
“Il 1510, di cui quest'anno ricorre il cinquecentenario - chiarisce il
professore - è una data più che altro simbolica, perché in realtà la
cacciata degli ebrei del Meridione fu un processo durato molti
decenni”. Cominciato dal 1492, quando gli spagnoli, strappata Granada
ai mori, decisero di unificare il loro regno, se non per quanto
riguarda la lingua, per lo meno “d'arme e d'altar”; tale processo si
protrasse fino almeno alla metà del sedicesimo secolo.
“Cacciati dalla Sicilia - spiega Colafemmina, eseguendo, a suffragio
della sua lezione, letture in lingua originale delle prammatiche
dell'amministrazione partenopea dei primi del '500 - gli ebrei
trovarono accoglienza presso Ferrante I, re di Napoli”. I tempi duri
arrivarono poco dopo. “Ferdinando il Cattolico - continua il professore
- decise di estendere l'Inquisizione e la sua politica di epurazione
religiosa a tutta l'Italia del sud: nel novembre 1510 fece giungere a
Napoli disposizioni per cui, entro sei mesi, tutti gli ebrei e i
neofiti, i conversos, avrebbero dovuto abbandonare il regno e non farvi
ritorno mai più. Queste misure servivano a preservare la fedelissima
città di Napoli e la sua santa fede cattolica”.
A conclusione del suo intervento il professore Colafemmina legge alcune
pagine di una Haggadah di Pesach scritta in dialetto pugliese, o
meglio, in caratteri ebraici che traslitterano il volgare parlato nel
tacco dello stivale cinque secoli fa.
Intorno alle vestigia dell'ebraismo del Meridione parla anche rav Caro,
rabbino capo di Ferrara e cittadino onorario di Siracusa. “Se è vero
che stiamo riscoprendo importanti tracce della presenza ebraica in
Sicilia, come le molte case di Salemi con l'incavo per la mezuzah, per
fare un esempio, su parte dei ritrovamenti io nutro seri dubbi”. I
dubbi di rav Caro riguardano soprattutto i molti mikvè, le vasche per i
bagni rituali, rinvenuti di recente in Sicilia. “In quella meravigliosa
isola c'è molto da lavorare, per chi vuole studiare la presenza
ebraica, ma bisogna anche fare attenzione a persone poco competenti,
oppure interessate ad attirare attenzione e turismo”. In forza del suo
lungo impegno sul territorio siciliano, rav Caro ha potuto raccontare -
destando la curiosità del pubblico - di numerosi incontri interessanti,
aneddoti e scoperte della gente del luogo con supposte ascendenze
ebraiche: “Un tale di un paesino dell'entroterra siculo mi ha
raccontato che sua nonna, il sabato sera, accendeva le candele. La cosa
interessante è che la nonna diceva sempre ai suoi nipoti di non parlare
fuori casa di questa usanza: questa autocensura prova che si trattava
proprio di un retaggio di un'abitudine segretamente mantenuta dai
marrani”.
Rav Bahbout, dopo aver introdotto al pubblico le problematiche di
carattere alakhico sollevate da coloro che a distanza di molte
generazioni rivendicano, presso un'autorità rabbinica, la loro identità
ebraica, ha lanciato una provocazione. “Se vogliamo recuperare
l'ebraismo del Mezzogiorno, il lavoro da fare al sud è molto grande, ci
vuole un progetto che coinvolga storici, antropologi, ricercatori e
rabbini. Siamo ancora molto lontani da un tale obiettivo. Temo - ha
dichiarato, scettico, il rav Bahbout - che all'ebraismo italiano
manchino le risorse umane per rispondere adeguatamente a questa sfida”.
A prendere la parola subito dopo è il consigliere UCEI Victor Magiar,
che da due anni lavora su questo fronte. “Esiste un mondo sommerso -
dice il consigliere - che si rivolge a noi con domande e richieste.
Questo mondo sommerso è fatto di persone che, comunque le vogliamo
chiamare, in qualunque categoria le vogliamo inserire, sentono di far
parte del popolo ebraico e della sua storia”.
“Di fronte a ciò - prosegue Magiar - le istituzioni ebraiche non
possono, né vogliono, rimanere indifferenti”. Ha poi espresso
l'auspicio che “questa importante sfida sia giocata dell'ebraismo
italiano a fianco del Meridione, delle sue università”. “È un impegno
che deve coinvolgere tutti, non solo noi ebrei - ha concluso il
consigliere UCEI - perché riguarda un pezzo della storia d'Italia,
della storia del Mediterraneo, la quale, segnata da una straordinaria
promiscuità di culture, lingue e religioni, può ancora oggi insegnarci
qualcosa sul vivere insieme”.
Manuel
Disegni
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Milano - In ricordo di Astorre Mayer
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Astorre Mayer è stato un
personaggio fondamentale della storia della Comunità ebraica di Milano.
Nato nel 1906, laureato in ingegneria al Politecnico di Milano, Astorre
Mayer si dedicò alla sua professione di industriale. E all’indomani
della Seconda guerra mondiale fu la figura capace di guidare l’ebraismo
milanese fuori dagli anni bui, grazie alla sua instancabile attività.
Alla Società Umanitaria è stato presentato il volume che raccoglie gli
atti del convegno “Per ricostruire e ricostruirsi. Astorre Mayer e la
rinascita ebraica tra Italia e Israele”, Franco Angeli Edizioni 2010, a
cura di Marco Paganoni. A introdurre il tema è stato il giornalista e
studioso Arturo Colombo. “Astorre Mayer ha trascorso tutta la vita
senza mai dimenticare i suoi confratelli – ha ricordato il professor
Colombo - Non dimentichiamo che la Comunità ebraica di Milano nel
Dopoguerra era passata da 7 o 8 mila persone a circa 4500, a cui si
aggiungevano i profughi, ospitati nel palazzo Odescalchi di via Unione
5. Astorre Mayer si occupò di tutti loro. Ma non si limitò a questo:
come disse Spadolini, Astorre Mayer fu sempre presente al cuore dei
milanesi”. Sono state poi messe in evidenza le grandi capacità
diplomatiche di Mayer, che fu il primo console onorario di Israele a
Milano. E che, ha ricordato Morris Ghezzi della Lega internazionale per
i diritti dell’uomo, dimostrò di saper leggere il momento storico
fondamentale del processo di rinnovamento che stava vivendo la Chiesa.
“Astorre Mayer ebbe stretti rapporti sia con Giovanni XXIII sia con
l’Arcivescovo di Milano Giovanni Montini, prima che salisse al soglio
pontificio come Paolo VI. Non è un caso che fu proprio con questi papi
che la Chiesa si aprì alla questione sociale e al dialogo
interreligioso” ha spiegato il professor Ghezzi. Infine Maria Luisa
Cicalese, ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università
Statale di Milano, si è soffermata sul filantropismo di Mayer, tanto
nei confronti dei suoi correligionari, quanto verso i suoi operai e i
cittadini milanesi “perché Mayer ripeteva sempre che occorre ‘lavorare
con le nostre mani e non aspettare inerti l’aiuto altrui” ha concluso
la professoressa.
Rossella
Tercatin
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Qui
Milano - All’Adeissima 2010 Rita
“la migliore voce femminile israeliana”
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Autunno, tempo di Adeissima,
l’evento benefico organizzato dall’Adei-Wizo, che da oltre vent’anni
raccoglie fondi per le campagne dell’associazione nello Stato
d’Israele. Dopo il successo della passata edizione, che aveva visto il
cantante Idan Raichel catturare con i suoi ritmi l’affollatissima
platea dell’Auditorium di Milano, quest’anno sarà star d’eccezione
Rita, nominata “la migliore voce femminile israeliana di tutti i tempi”
nel corso delle celebrazioni del sessantesimo anniversario dello Stato
d’Israele. “Dopo lo scorso anno tenevamo particolarmente a proporre un
programma dello stesso livello - spiega Susanna Shakì, presidente della
sezione italiana del Women International Zionist Organization da due
anni - Siamo particolarmente felici di avere con noi Rita per questa
Adeissima anche per celebrare la Comunità persiana, che rappresenta una
delle colonne dell’ebraismo milanese”. Rita infatti, nome d’arte di
Rita Yahan-Farouz, classe 1962, è nata a Teheran ed è emigrata con la
famiglia in Israele solo nel 1970. La vocazione artistica l’ha scoperta
durante il servizio di leva, quando è entrata a far parte della banda
musicale dell’esercito. Da lì in poi un continuo crescendo di successi.
I suoi album hanno venduto in patria oltre un milione di copie, e più
volte Rita ha rappresentato Israele all’Eurovision. Nel 1998 è stata
scelta per cantare l’HaTikwa durante i festeggiamenti ufficiali per i
cinquant’anni di Israele. La sua fama è arrivata fino agli Stati Uniti,
dove il suo singolo Love Has Begun le ha fatto guadagnare il titolo di
Artista rivelazione dell’anno 2009 della rivista New Music Weekly.
L’appuntamento con Rita all’Adeissima è per mercoledì 20 ottobre al
Teatro Smeraldo. E il ricavato della serata sarà devoluto a favore dei
bambini etiopi di Pardes Katz, sobborgo degradato alle soglie di Benè
Berak. “A Pardes Katz vivono molte famiglie arrivate dall’Etiopia da
poco - racconta ancora Susanna Shakì - A loro e ai loro bambini manca
tutto. L’Adei vuole sostenere questi bambini, portare loro pasti caldi,
giocattoli e materiale scolastico. Perché è da queste piccole cose che
comincia la vera integrazione”.
r.t |
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Legge e negazionismo,
“Interveniamo sull'insegnamento”
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Insieme a molti altri - assai
più autorevoli del sottoscritto - nei giorni scorsi ho avanzato alcune
perplessità sulla proposta di una legge contro il negazionismo. Sia ben
chiaro che tutti riteniamo aberrante negare o ridurre la tragedia della
Shoah. Si tratta però di un problema assai complesso: i reati di
opinione sono una materia delicatissima, e non è affatto detto che
processando questi personaggi senza nessuna credibilità li si
indebolisca. Anzi. Oltre a farne - come molti hanno sottolineato - dei
potenziali martiri della libertà di espressione, ho forti dubbi sulla
punibilità reale di alcune affermazioni. Ad esempio, se qualcuno
sostiene che le vittime ebree nei lager non sono state sei milioni, ma
meno, quale giudice potrebbe comminargli una sentenza? E immaginiamo
cosa accadrebbe se un personaggio del genere venisse assolto!
Dal punto di vista generale c’è un terzo problema. Una legge di questo
tipo dovrebbe necessariamente comprendere anche altre vicende storiche.
Sarebbe accettabile, per esempio, un professore che negasse l’utilizzo
da parte degli italiani dei gas durante la guerra di Etiopia? O che
sostenesse che le foibe non sono mai esistite? Chi può arrogarsi il
diritto di decidere chi sta dentro e chi sta fuori dal perimetro della
legge?
Tuttavia il senso della proposta non sfugge. Riccardo Pacifici si è
fatto interprete di un sentimento di rabbia e frustrazione che riguarda
tutti noi, soprattutto a poche ore di distanza dall’anniversario del 16
ottobre 1943. Qualcosa occorre fare.
Personalmente ritengo che bisognerebbe intervenire sull’insegnamento,
per impedire che persone così screditate possano insegnare nelle scuole
o nelle università. Come? Si potrebbe forse istituire una commissione
ministeriale - in modo che siano tutelate le varie categorie
professionali, composta da membri di chiara fama - che, dotata di
poteri reali e capace di muoversi in tempi ragionevolmente brevi, possa
comminare sanzioni (sospensione, espulsione, spostamento) e
ripristinare un insegnamento corretto e rispettoso della storia e della
dignità delle vittime.
Tobia
Zevi, Associazione Hans Jonas
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Legge e negazionismo,
"Perché bisogna punire"
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Nell’apprestarmi ad affrontare
questo argomento, difficilmente riesco a liberare La mia mente da
quell’assordante “silenzio” di mia nonna, Marisa Di Porto, deportata ad
Auschwitz il 23 marzo del 1943 (A5361) e che qualcuno, con “impavida”
serenità, vuol far credere che abbia vissuto per diversi mesi in un
“villaggio vacanze”.
La proposta di introdurre anche in Italia il reato di “negazionismo”- è
voluta, come appresso si vedrà, la decisione quadro del Consiglio
d’Europa 2008/913/GAI (GU L.328 del 6.12.2008), sulla lotta contro
talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto
penale, ha aperto in seno al mondo ebraico, e non solo, un forte
dibattito sull’opportunità o meno di una legge di tale portata.
Alcuni, ritengono che, come si è potuto leggere sui giornali e sul
Portale dell'ebraismo italiano moked.it nei giorni scorsi, “penalizzare
il negazionismo non può essere la soluzione dei problemi. Non fosse
altro perché il negazionismo è un male sociale e culturale. Va dunque
affrontato con anticorpi culturali e sociali, non attraverso la
repressione giudiziaria”. “Si rischierebbe di farne (i negazionisti)
dei martiri della libertà di pensiero”.
A mio avviso questa retorica sprovveduta non è altro che un artificio
ipocrita con cui un certo ebraismo è da sempre incline ad approcciare
alcune tematiche di rilevanza concreta, volendo dimostrare di essere
sempre “migliore” degli altri.
Sull’argomento vanno sottolineati due aspetti dai quali non si può
prescindere se non si vuol essere, per l’appunto, retorici: il primo è
relativo alla definizione stessa di negazionismo; il secondo accede
alle implicazioni pericolose che questo fenomeno produce sull’esistenza
stessa del popolo ebraico come “nazione”.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la negazione della Shoah deve
essere definita come una forma di propaganda antisemita che nega
l’evidenza dei fatti storici per fini ideologici e politici. Infatti,
la ragione predominante dell’antisemitismo contemporaneo è ancora
quella di una cospirazione ebraica. Non nuovi sono gli assunti secondo
cui gli ebrei controllerebbero tutto ciò che accade nel mondo, o
tramite la loro potenza finanziaria o tramite i media, condizionando in
maniera occulta la politica internazionale. Qui la negazione della
Shoah gioca un ruolo cruciale. Si presume che la Shoah non abbia mai
avuto luogo a che l’ala ebraica, sfruttando lo status di vittime,
utilizzi la “menzogna di Auschwitz” per esercitare una pressione morale
sui principali governi europei per ottenere lauti risarcimenti o
politiche di favore agli interessi del “gruppo”.
Quindi, il negazionismo non è altro che una forma più o meno
“mascherata” di antisemitismo. A questo punto si potrebbe obiettare che
l’ordinamento nazionale già prevede delle norme che sanzionano chi
diffonde o incita in qualsiasi modo a commettere atti di
discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi
(vedasi la L.654/1975 di Ratifica ed esecuzione della Convenzione
internazionale di New York sull'eliminazione di tutte le forme di
discriminazione razziale, ovvero, la più nota “legge Mancino” - L.
65/1993 - entrambe modificate dalla più recente L. 85/2006 del Governo
Berlusconi). In realtà, nessuna di queste norme potrebbe essere
applicata per chi, proteggendosi dietro lo schermo della ricerca
storiografica (guai al dare degli antisemiti a personaggi come Claudio
Moffa o Carlo Mattogno, si rischierebbe una querela per diffamazione!)
propugni tesi ed idee il cui fine ultimo e reale non è solo quello
discriminatorio ma quello ben più grave di delegittimazione di un
intero popolo.
Quanto al secondo aspetto, che si ricongiunge al primo, non possiamo
non evidenziare come la “menzogna di Auschwitz” metta in discussione il
diritto di Israele ad esistere. Qui ha avuto luogo un processo
cognitivo, nel quale il pensiero “negazionista”, propagandato da pseudo
intellettuali europei è stato adottato da molte realtà islamiche.
L’influenza di queste idee è supportata da un numero di confutatori
occidentali dell’Olocausto, quali Jurgen Graf, Gerd Honsiik, Wolfgang
Frohlich e Roger Graudy, che sono stati accolti come eroi in molti
paesi del Medio Oriente. Tutto ciò per dire che negando la Shoah, che
per molti è ancora l’elemento di legittimazione dello stato di Israele,
si può essere “legittimati” a programmarne la distruzione reale, così
come ribadito con cadenza quasi quotidiana da Mahmud Ahmadinejad.
Purtroppo, la diffusione delle idee negazioniste nelle scuole coraniche
e nelle moschee, così come la diffusione dei Protocolli degli Anziani
di Sion, si muovono nella stessa direzione: gli ebrei sono in perenne
complotto per la conquista del mondo e la Shoah è una loro invenzione.
Non si comprende, quindi, perché una legge sul negazionismo, debba
essere considerata dai soliti “ben pensanti” una legge liberticida,
esclusivamente tesa a limitare la libertà di espressione del pensiero.
Il negazionismo, come detto, non è ricerca scientifica e non ha nulla a
che fare con l’analisi storica, questa ultima da ritenersi
insostituibile e necessaria per approfondire tutti gli aspetti della
Shoah nel contesto socio-culturale in cui si è realizzata.
Per questi motivi ritengo che le condotte dei negazionisti non debbano
trovare alcuna forma di legittimazione in ragione di un presunto
esercizio del diritto alla libera espressione del pensiero, e ciò non
solo quando sia evidente la strumentalità ideologica dell’apparente
critica storiografica ufficiale, ma anche in quei casi, e soprattutto
in quei casi, in cui sia immediatamente manifesta la finalità di
propaganda antisemita.
In tal senso si è pronunciata la Corte Europea dei diritti dell’Uomo
(sez. IV, 24/06/2003 - Roger Garaudy c. Francia - in Giur. It., 2005,
2241), secondo la quale “è irricevibile il ricorso di un cittadino che
lamenta la lesione del proprio diritto di espressione a causa della
condanna penale inflittagli dalle autorità nazionali per aver
manifestato opinioni negazioniste della Shoah. Tale condotta, sostiene
la Corte, integra un abuso del diritto di espressione previsto
dall’art.10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo, giacché, sostenendo la negazione o la revisione dei fatti
storici definitivamente stabiliti, si rimettono in causa i valori che
fondano la lotta contro il razzismo e l’antisemitismo e ciò comporta un
pericolo per l’ordine pubblico. Conseguentemente, il suo perseguimento
da parte della legislazione nazionale costituisce un’ingerenza
legittima ed una misura necessaria in una società democratica”.
Da ciò ne discende che il diritto alla libera manifestazione del
pensiero, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, non giustifica
comportamenti che, pur esternando convinzioni personali, ledano altri
principi di rilevanza costituzionale. Pertanto, dal momento che le
norme per la repressione delle forme di discriminazione razziale sono
in attuazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della
Carta Costituzionale, le eventuali limitazioni ad esse imposte,
risulterebbero ampiamente giustificate.
Si evidenzia in ultimo, come il Consiglio d’Europa il 28 novembre 2008,
ha adottato la Decisione quadro 2008/913/GAI (GU L. 328 del 6.12.2008),
che fa seguito all'azione comune 96/443/GAI, sulla lotta contro talune
forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto
penale. Tale Decisione prevede che i comportamenti razzisti e xenofobi
debbano costituire un reato in tutti gli Stati membri ed essere
passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive. Tra
le condotte considerate punibili, in quanto reati penali, determinanti
atti commessi con intento razzista o xenofobo, la Decisione,
esplicitamente vi fa rientrare “la pubblica apologia, la negazione o la
minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio o contro l'umanità,
i crimini di guerra, quali sono definiti nello Statuto della Corte
penale internazionale (articoli 6, 7 e 8) e i crimini di cui
all’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale,
quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare
alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo
membro”. Detta decisione dovrà essere trasposta negli Stati membri, tra
cui l’Italia, entro la data del 28 novembre 2010.
Auspico che l’Italia non perda questa occasione per mettersi al pari di
Austria, Francia, Germania e Belgio nel recepire e adottare una
normativa che in modo organico reprima qualsiasi atto teso
all’istigazione e/o alla violenza per ragioni culturali, sociali,
etniche, religiose, sessuali, anche quando gli stessi atti vengono
attuati mediante la negazione o la minimizzazione dei crimini di
genocidio.
Joseph
Di Porto, avvocato
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Celebrazioni per Yitzhak Rabin, quest’anno saranno le ultime
Tel Aviv, 19 ottobre
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Leggi la rassegna |
“Sulla
figura del premier Yitzhak Rabin, che firmò gli accordi di
riconoscimento reciproco con l'Olp di Yasser Arafat i militari di leva
hanno oggi idee molto approssimative”. A divulgare la notizia, frutto
di un sondaggio fra i militari di leva israeliani, è stato il
quotidiano Yediot Aharont. In questo contesto è giunta la proposta di
una parlamentare laburista, Einat Wilf, di rimuovere dalla sala della
lista alla Knesset un grande quadro che mostra Rabin, per sostituirlo
con una raffigurazione di David Ben Gurion, il fondatore dello Stato di
Israele. La decisione definitiva spetta all'attuale leader laburista
Ehud Barak che, ha detto la Wilf, non si è ancora pronunciato. »
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Due i temi fondamentali
della rassegna di oggi, entrambi relativi al mondo cattolico. Il primo
è la dichiarazione intermedia del Sinodo dei vescovi del Medio Oriente,
che badando bene a distinguersi dall’antisemitismo vero e proprio si
schierano a favore dei palestinesi: il “fondamentalismo” (espressione
eufemistica per indicare terrorismo e intolleranza che attraversano le
società della ragione) sarebbe una conseguenza dell’”occupazione” (e
non si capisce se si sta parlando dello Stato di Israele in quanto tale
o della Giudea e Samaria). »
Ugo Volli
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