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7 marzo 2012- 13 Adar 5772
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david sciunnach David
Sciunnach,
rabbino 

Nella Parashà di questa settimana, la Parashà di Kitissà si parla del Shemèn ha-mishchà - l’olio d’unzione. Quell’olio che serviva per consacrare a Dio gli utensili per il Mishkàn - il Tabernacolo, ed i Cohanim – i Sacerdoti. È interessante notare che le lettere di queste due parole solo le stesse delle parole Neshem Simchà – spirito di gioia. Da questo si può così dedurre che se una persona vuole consacrare se stesso a Dio deve avere uno spirito di gioia. Così come ci insegnano i nostri Maestri che il Ruach ha Kodesh – lo spirito di santità, non discende se non su chi vive con gioia.

 Davide  Assael,
ricercatore



davide Assael
Pochi giorni fa, in una trasmissione televisiva, ho sentito Fausto Bertinotti dichiararsi “territorialista”. Ora, lasciando da parte l’intricatissimo rapporto filosofico fra l’universalismo comunista ed il riconoscimento di specificità locali, stupisce l’approdo a posizioni dichiaratamente cavalcate dalla destra europea più nazionalista e xenofoba. Un monito che dovrebbe far riflettere anche coloro che, fra noi, utilizzano la specificità ebraica in funzione antiglobalizzazione; non vorrei che a furia di vituperare chi pratica l’ “odio di sé” ci si ritrovasse fra coloro che certo non ci amano.


davar
Dovlatov, maestro del paradosso
In occasione della festa di Purim Pagine Ebraiche offre per il secondo anno consecutivo ai suoi lettori alcune pagine speciali dedicate all'umorismo ebraico. Uno spaccato semiserio che cerca di far luce su una realtà complessa capace di influenzare tanta letteratura e produzione artistica di valore.

Tra i massimi studiosi internazionali delle dinamiche della risata, Laura Salmon, slavista e docente dell’Università di Genova, è autrice di Meccanismi dell’umorismo. Sull’opera di Sergej Dovlatov (Mosca, 2008), lavoro frutto di 20 anni di ricerche che è stato recentemente pubblicato in Russia e che dovrebbe arrivare presto anche in Italia, nella sua componente prettamente ebraica, grazie alla casa editrice Giuntina. “Si fa un gran parlare di umorismo ebraico – spiega la professoressa ai nostri lettori – ma spesso questo avviene a sproposito. Per molti, anche tra gli addetti ai lavori, gli ebrei sono ‘quelli che raccontano tante barzellette’. Un’affermazione che non rende giustizia a una tradizione dissacrante ed eversiva che ha contaminato tanta letteratura di valore del Novecento”.
Professoressa Salmon, sui giornali, nei libri, al cinema va sempre più di moda la risata ‘ebraica’. Sgombriamo il campo da equivoci, cosa rappresenta questo particolarissimo genere nel vasto panorama dello humour?
Partirei da un presupposto che ritengo essenziale: quello che definiamo con il termine humour è in realtà una macrocategoria in cui rientrano fenomeni molto differenti. In questa diversità spicca in particolare il dualismo comicità-umorismo scettico. Da una parte un modello verticale, dall’altro un sistema di tipo orizzontale. È un binomio da tenere bene a mente per non cadere in fraintendimenti purtroppo comuni.
Qual è la differenza tra i due generi?
Tutte le forme di comicità richiedono un atteggiamento di superiorità da parte di chi fa la battuta. Si tende quindi a denigrare, a deridere la vittima della nostra arroganza. L’umorismo scettico ha invece come oggetto non una persona e neppure una categoria di persone. Ad essere messo in crisi è un determinato modello, un sistema di valori. Lo scopo è quello di condividere la consapevolezza della paradossalità della vita umana.
L’umorismo ebraico appartiene alla seconda categoria?
Certamente nella sua componente più specifica. Gli ebrei, legati da una parte alla loro singolare e instabile vicenda diasporica attraverso i secoli e dall’altra all’assenza di posizioni dogmatiche, di verità indiscutibili, sono senza dubbio dei maestri capaci nel trovare, grazie a questa sospensione, a questo processo di ricerca perennemente incompiuto, una vera e propria solidità nell’assurdo. L’umorismo ebraico, quello specifico, quello che non è vittima di banalizzazioni e distorsioni, si basa sulla comprensione dell’assurdità che ci circonda e sulla condivisione di questa scoperta con chi ci è vicino. Un umorismo quindi fortemente empatico e basato sulla caduta di barriere e pregiudizi. Un modo per dire ‘Siamo tutti dei disgraziati, rendiamoci conto di questo e facciamoci una risata perché altro da fare non ci resta’. La contrapposizione è evidente: la comicità tradizionale ti dà un pugno, l’umorismo ebraico una mano. Parlando in altri termini la comicità, che serve a rafforzare gli stereotipi su cui fa leva, è definibile come un’azione conservativa-reazionaria. L’umorismo è invece eversivo, un’acutissima presa in giro, spesso in forma aforistica, con poche ma pungenti parole, del sistema binario buono/cattivo – bello/brutto assai diffuso nella nostra società. Una tra le tante spiegazioni per le feroci persecuzioni antiebraiche nel passato e per il disagio che ancora oggi suscita in alcuni questo approccio rivoluzionario e destabilizzante.
Qual è la consapevolezza complessiva di questa peculiarità umoristica?
Scarsa in modo impressionante, purtroppo anche tra gli addetti ai lavori. La percezione generale è che gli ebrei sono ‘quelli che raccontano tante barzellette’. È un peccato perché un approccio differente permetterebbe di cogliere l'essenza particolare di questa sofisticata tipologia di humour. Non si tratta comunque di un appannaggio facile: per arrivarci sembra necessario un lungo e consapevole addestramento che tenga lontani dai cliché. In fondo è anche questo il segreto del suo fascino perché, in chi ne è appassionato cultore, tende a radicarsi la sensazione di appartenere a una specie di ‘èlite’. Si trasforma la paura della precarietà in quella che definirei ‘euforia da montagne russe’: la condizione di vertigine, oscillando tra un paradosso all’altro, rappresenta infatti un’esperienza che rende divertente la sospensione esistenziale.
Dovendo spiegare una tipica situazione di umorismo ebraico ai suoi studenti quale figura, quale momento utilizzerebbe come esempio?
Senz’altro la famosa scena della patata nel film ‘Ogni cosa è illuminata’, scena che ci porta a vedere come personaggi in partenza antitetici diventino a un certo punto come fratelli. Il meccanismo di condivisione tra i due parte proprio da una risata: si ride della mancanza di senso, dell'incomprensione latente. Tra gli autori inserisco a pieno titolo Sergej Dovlatov, scrittore russo di cui ho avuto la fortuna di tradurre il vasto corpus letterario. Dovlatov è un personaggio emblematico: ebreo per i non ebrei, non ebreo per gli ebrei. Halakhicamente un goy, ci ha lasciato in eredità alcune pagine straordinarie e inequivocabili di umorismo ebraico. Tutta la sua opera è infatti protesa eversivamente a farci vedere l’amico nel nemico e l’intimo nel lontano. Dovlatov ci comunica che nella disavventura siamo tutti uguali senza distinzione di razza, colore, religione. La sua è un’operazione che porta al dissolvimento di ogni certezza, che ci fa vedere il mondo da un punto di vista differente da quello propugnato dall'ideologia, dal dogma. È il ridere nel pianto di pirandelliana memoria, il witz scettico freudiano e la ‘chochma’ ebraica.

Adam Smulevich, Pagine Ebraiche marzo 2012 - twitter @asmulevichmoked


Qui Milano - Un dibattito sui temi caldi
Una lunga riunione di Consiglio, quella di ieri sera, nettamente suddivisa in due momenti. Un primo nel quale è stata esaminata la fase iniziale dei lavori delle quattro neonate commissioni volte alla risoluzione mirata dei principali problemi della Comunità; una seconda parte invece tutta incentrata sulla risposta di rav Alfonso Arbib alla lettera aperta scritta dal consigliere Stefano Jesurum e accompagnata da un’altra quarantina di firme comparsa sull’ultimo numero del Bollettino.
Nell’esposizione punto per punto delle prime proposte delle commissioni, di quelle operative per la riscossione dei tributi e per le iscrizioni scolastiche prima, e subito dopo di quelle strategiche per la riorganizzazione della scuola e per i servizi alla Comunità, è possibile individuare due denominatori comuni. Il primo è sicuramente l’aspetto del recupero di coloro che si sono allontanati dalla comunità per i più svariati motivi, che non soltanto rappresentano la perdita di una risorsa a livello umano, ma soprattutto la privano di un apporto importante ai campi esaminati da tutte e quattro le commissioni, a partire dai contributi, passando per le iscrizioni a scuola, fino alla partecipazione ai momenti collettivi, anche nelle sinagoghe. E qui si arriva al secondo punto che, almeno a livello teorico, è condiviso da tutte le commissioni: per risolvere questo problema è necessario un forte miglioramento nel campo della comunicazione, che si deve tradurre sia in un rapporto diretto con chi è più determinato ad abbandonare la comunità, magari avendo già fatto richiesta di dissociazione, sia in un migliore sfruttamento dei social network e dei media ebraici tra cui Pagine Ebraiche e Moked. Ha creato invece qualche dissenso il dettagliato progetto studiato dalla commissione per la riorganizzazione della scuola che prevede lo stanziamento di un budget abbastanza alto appunto per il miglioramento della comunicazione.
La seconda fase della riunione si è poi aperta con un lungo intervento di rav Arbib, che ha voluto in primo luogo mettere in luce quali siano le sue prerogative e i suoi doveri in quanto rabbino capo. Riprendendo e ampliando la trattazione di alcuni temi delicati toccati da Stefano Jesurum e da lui stesso nella sua replica, ha posto in evidenza che la prima mitzvà che un ebreo, e quindi ancor di più un rabbino capo, deve rispettare è quella di impedire a un altro ebreo di commettere una averà. Tutti questi punti, ha affermato rav Arbib, costituiscono un peccato dal punto di vista dell’Halachà: un rabbino capo non può assolutamente discostarsene e per questo motivo deve prendere decisioni che possono anche apparire antipatiche a qualcuno, ma che sono e devono restare inappellabili. Si sono quindi succedute una dopo l’altra, in un confronto serrato, le opinioni in merito dei consiglieri: tutti hanno messo in luce l’importanza dell’apertura di un dibattito su questi temi caldi. Ha fatto però discutere la presenza delle firme di nove consiglieri di maggioranza in calce all’articolo, fatto che alcuni consiglieri dell’opposizione hanno configurato, insieme alla scelta di pubblicare l'intervento sul Bollettino senza così dare la possibilità a rav Arbib di una risposta immediata, come un attacco minaccioso e violento. C'è stato chi ha dato una lettura politica di questa mossa sostenendo che rappresenti una presa di posizione della lista Ken, che non ha concesso all’opposizione la possibilità di ribattere.
La seduta del Consiglio si è conclusa con un colpo di scena: il consigliere Rami Galante si è alzato a consegnare una lettera di dimissioni, adducendo come motivazione lo scarso rispetto mostrato da alcuni membri del Consiglio nei confronti del rabbino capo. Una decisione che ha suscitato lo stupore del presidente Jarach e di altri consiglieri.

Francesca Matalon


pilpul
La stella di Shel
Francesco LucreziCome molti italiani della mia generazione (sono del ’54), da adolescente fui affascinato dalla musica e dal messaggio dei Rokes, il popolare gruppo inglese che, giunto in Italia, conquistò il nostro pubblico giovanile con suggestive canzoni, cantate in italiano, tanto da restare nel nostro Paese per lunghi anni, segnati da continui successi. Molte persone della mia età ricordano i contenuti poetici e ispirati dei loro testi, che parlavano di fratellanza, partecipazione, speranza, futuro, indicando una possibile “terza via” tra i soliti temi dell’amore “a due” e quelli, un po’ barbosi, dell’impegnativa militanza politica. Nel mio caso, la passione per il brillante gruppo fu accesa e alimentata da un mio cugino, Massimo Lucrezi, eccellente musicista, ancora in attività, che tanto li ammirava da avere poi intrecciato, dopo lo scioglimento della band, una frequentazione personale con ciascuno di loro, che dura tuttora. Leader indiscusso dei Rokes, com’è noto, era l’altissimo David Shapiro, idolo delle ragazzine, in arte Shel Carson, che scelse poi, credo per la felice assonanza tra il suo cognome originale e il nome d’arte, di farsi chiamare Shel Shapiro. Rimasto a vivere in Italia, è tuttora un musicista, produttore musicale e, talvolta, attore di successo. Quando è venuto a Napoli, un paio d’anni fa, è stato per me un particolare piacere andarlo a salutare – ovviamente, accompagnato da Massimo - e scambiare con lui due chiacchiere, che me ne hanno confermato, anche sul piano personale, la carica di simpatia e comunicativa.
Ho letto con accentuato interesse, perciò, l’intervista a Shel apparsa sul numero di febbraio di Pagine Ebraiche, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia “Io sono immortale”, nella quale il musicista parla della sua identità ebraica e delle avventurose peripezie attraversate dalla sua famiglia di ebrei sefarditi fuggiti dalla Russia. A colpirmi, in particolare, è stata una confessione fatta da Shel a proposito della stella di Davide da lui portata al collo. L’idea di indossare tale simbolo, spiega, gli venne quando assisté alle riprese di un crudo episodio di cronaca di trent’anni fa, che vide alcuni sodati israeliani in divisa accanirsi a picchiare un uomo indifeso. “Io mi vergognai – scrive Shel – della capacità di tutti noi di essere senza compassione umana, della nostra stupidità. Mi sono messo la stella di Davide per dire: parliamone… sono pronto a discutere”.
Anche se Shel non lo dice con esattezza (e nonostante alcune piccole discordanze: sono passati ventidue anni, anziché trenta, e le vittime erano due, non una), l’episodio a cui si riferisce è, quasi sicuramente, quello di una ripresa, fatta circolare nel 1990, ove si assisteva al brutale pestaggio di due arabi inermi da parte di alcuni uomini di Tsahal, che parevano accanirsi sui malcapitati con meticolosa, studiata ferocia. Le immagini fecero il giro del mondo, tutti i telegiornali vi dedicarono lunghi servizi di apertura, ricordo benissimo il titolone a tutta pagina di Repubblica: “orrore in Israele”, con il lunghissimo articolo che si chiudeva con la constatazione che la memoria della Shoah era ormai definitivamente infangata. Nell’Università “la Sapienza” di Roma, occupata dagli studenti (organizzati nel movimento della cd. “Pantera”), le immagini furono proiettate no stop, giorno e notte, per intere settimane. Il mondo, insomma, ebbe un’endovena di antisemitismo di proporzioni davvero speciali.
Quasi nessuno – a quanto pare, neanche Shel -, circa un anno dopo, fece caso a un minuscolo trafiletto di due-tre righe pubblicate, in pagina interna, da qualche giornale, dove si informava che le riprese erano in realtà una finzione, recitata a bella posta da comparse a pagamento, a beneficio di un reporter senza scrupoli, in cerca di un falso scoop. Cose che capitano. Ma, stavolta, niente telegiornali, niente titoloni, niente “riparazione” della memoria, niente Pantera. Il mondo voleva l’endovena, non certo l’antidoto.
Ma quello che mi piace segnalare, di questo triste episodio, è la particolare nobiltà della reazione di Shel. Tutti gli ebrei, di fronte al finto video, si saranno indignati, condannando e prendendo le distanze. Molti avranno manifestato stupore, incredulità, sconcerto. Qualcuno, che già portava al collo la stella di David, può forse avere avuto la tentazione, almeno per qualche giorno, di nasconderla. Ma nessuno, che già non la indossasse, avrebbe scelto proprio quei giorni lì di cominciare a esibirla, rivendicando così pubblicamente quella difficile, scomoda appartenenza, e difendendo così quel simbolo che vedeva, da altri, vilipeso. Nessuno, tranne Shel. Che ha confermato, anche in quell’episodio, di avere un cuore.

Francesco Lucrezi, storico

notizieflash   rassegna stampa
L’arte di Luzzati a Tel Aviv
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È stata inaugurata ieri sera all’Old Jaffa Museum of Antiquities una mostra omaggio al grande artista ebreo genovese Emanuele Luzzati. Organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv e dal Museo Umberto Nahon di Arte Ebraica italiana di Gerusalemme, la mostra ha avuto il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia in Israele e resterà aperta al pubblico fino a domenica 25 marzo. All’inaugurazione, svoltasi alla presenza di un pubblico folto, hanno partecipato tra gli altri l’ambasciatore d’Italia in Israele Luigi Mattiolo, le curatrici Andreina Contessa e Noemi Tedeschi Blankett, la sorella dell’artista Gabriella Luzzati Hadar, i vertici della Hevrat Yehudè Italia (l’associazione degli italiani di Gerusalemme), e il presidente del Comites Israele Beniamino Lazar.

 

Guerra sì? Guerra no? Guerra quando? I giornali di tutto il mondo si pongono oggi questa terribile domanda. Intanto la diplomazia continua per la sua strada.

Emanuel Segre Amar











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