Qui Milano – Identità e vita ebraica. Opinioni a confronto

Una lunga riunione di Consiglio, quella di ieri sera, nettamente suddivisa in due momenti. Un primo nel quale è stata esaminata la fase iniziale dei lavori delle quattro neonate commissioni volte alla risoluzione mirata dei principali problemi della Comunità; una seconda parte invece tutta incentrata sulla risposta di rav Alfonso Arbib alla lettera aperta scritta dal consigliere Stefano Jesurum e accompagnata da un’altra quarantina di firme comparsa sull’ultimo numero del Bollettino.
Nell’esposizione punto per punto delle prime proposte delle commissioni, di quelle operative per la riscossione dei tributi e per le iscrizioni scolastiche prima, e subito dopo di quelle strategiche per la riorganizzazione della scuola e per i servizi alla Comunità, è possibile individuare due denominatori comuni. Il primo è sicuramente l’aspetto del recupero di coloro che si sono allontanati dalla comunità per i più svariati motivi, che non soltanto rappresentano la perdita di una risorsa a livello umano, ma soprattutto la privano di un apporto importante ai campi esaminati da tutte e quattro le commissioni, a partire dai contributi, passando per le iscrizioni a scuola, fino alla partecipazione ai momenti collettivi, anche nelle sinagoghe. E qui si arriva al secondo punto che, almeno a livello teorico, è condiviso da tutte le commissioni: per risolvere questo problema è necessario un forte miglioramento nel campo della comunicazione, che si deve tradurre sia in un rapporto diretto con chi è più determinato ad abbandonare la comunità, magari avendo già fatto richiesta di dissociazione, sia in un migliore sfruttamento dei social network e dei media ebraici tra cui Pagine Ebraiche e Moked. Ha creato invece qualche dissenso il dettagliato progetto studiato dalla commissione per la riorganizzazione della scuola che prevede lo stanziamento di un budget abbastanza alto appunto per il miglioramento della comunicazione.
La seconda fase della riunione si è poi aperta con un lungo intervento di rav Arbib, che ha voluto in primo luogo mettere in luce quali siano le sue prerogative e i suoi doveri in quanto rabbino capo. Riprendendo e ampliando la trattazione di alcuni temi delicati toccati da Stefano Jesurum e da lui stesso nella sua replica, ha posto in evidenza che la prima mitzvà che un ebreo, e quindi ancor di più un rabbino capo, deve rispettare è quella di impedire a un altro ebreo di commettere una averà. Tutti questi punti, ha affermato rav Arbib, costituiscono un peccato dal punto di vista dell’Halachà: un rabbino capo non può assolutamente discostarsene e per questo motivo deve prendere decisioni che possono anche apparire antipatiche a qualcuno, ma che sono e devono restare inappellabili. Si sono quindi succedute una dopo l’altra, in un confronto serrato, le opinioni in merito dei consiglieri: tutti hanno messo in luce l’importanza dell’apertura di un dibattito su questi temi caldi. Ha fatto però discutere la presenza delle firme di nove consiglieri di maggioranza in calce all’articolo, fatto che alcuni consiglieri dell’opposizione hanno configurato, insieme alla scelta di pubblicare l’intervento sul Bollettino senza così dare la possibilità a rav Arbib di una risposta immediata, come un attacco minaccioso e violento. C’è stato chi ha dato una lettura politica di questa mossa sostenendo che rappresenti una presa di posizione della lista Ken, che non ha concesso all’opposizione la possibilità di ribattere.

La seduta del Consiglio si è conclusa con un colpo di scena: il consigliere Rami Galante si è alzato a consegnare una lettera di dimissioni, adducendo come motivazione lo scarso rispetto mostrato da alcuni membri del Consiglio nei confronti del rabbino capo. Una decisione che ha suscitato lo stupore del presidente Jarach e di altri consiglieri.

Francesca Matalon

Care amiche e cari amici, è il momento di provare, per una volta, ad affrontare alcuni fondamentali temi non prettamente economico-finanziari,-però ad essi strettamente legati-, che hanno animato in questi mesi il dibattito comunitario. A convincerci di ciò sono i risultati della ricerca condotta da Roberto Liscia e dal suo gruppo di lavoro (La scuola Ebraica di Milano – Progetto di sviluppo). Da quella analisi emerge che uno dei nodi problematici è la evidente non omogeneità tra le diverse aspettative che la varie componenti della Comunità hanno rispetto all’educazione dei propri figli. Una educazione che, a nostro avviso, significa cultura condivisa, o meglio ancora culture condivise. Questa delle culture condivise è stata ed è la base della sfida che la lista Ken e i suoi amici promisero di far volare alta, un tema essenziale -se non addirittura “il tema”-, per il futuro non soltanto della scuola bensì dell’intera Kehillah milanese.
Occorre quindi un dibattito libero e aperto, e io vengo a proporlo. Non parliamo di edot, non diamo (come sempre più spesso accade), al termine “ebrei vicini” il significato di “ebrei buoni” e a “ebrei lontani” quello di “ebrei cattivi”. Parliamo -per dirla all’anglosassone-, di ebraismo come jewry, complesso di persone viventi, e non di ebraismo come judaism, complesso di contenuti normativi. Dobbiamo fermare le emorragie, recuperare intelligenze che si sono perdute, ricostruire momenti e percorsi di appartenenza per il maggior numero possibile di ebree e di ebrei di ogni età. Vogliamo ridurre gli steccati.
Stiamo insomma parlando -concetto semplice ma non banale-, dell’essere ebrei, non tutti allo stesso modo, non con la medesima storia, provenienti da diaspore differenti. Non stiamo e non vogliamo parlare di Halakah, tematica che compete ai rabbini, agli organismi religiosi e alle loro dispute. Neppure stiamo parlando e non vogliamo parlare di fede, che attiene alle singole coscienze. I molteplici e variegati modi di essere ebrei, invece, appartengono a ognuno di noi singolarmente e a tutti noi collettivamente. Qualcuno chiama questo identità, parola che però non rappresenta la vita -la vita reale, sentimentale, relazionale di ognuno di noi e di voi-.
Nell’ultimo numero de La rassegna mensile di Israel Sergio Della Pergola ben spiega che le generalizzazioni tipo “religiosi” e “laici” o “comunitari” e “assimilati”, sono superficiali e fuorvianti. «Le fondamenta dell’identità ebraica si articolano attorno a due assi di appartenenza: il primo coinvolge la presenza, rilevanza, centralità, valenza positiva, predominanza relativa (o l’assenza) nella coscienza dell’individuo di contenuti normativi e culturali tipici dell’ebraismo e diversi da quelli della società circostante; il secondo asse coinvolge la natura delle reti sociali dell’individuo, primariamente vincolato nel quotidiano ad altre persone o istituzioni della stessa appartenenza (o meno)…». È sulle varie combinazioni possibili di queste due dimensioni che si fonda una comunità. Questo mix, questo equilibrio tra differenti modi di essere ebrei è, fin dal Medio Evo, caratteristica di numerosi ebraismi. Che vanno rispettati, anzi sollecitati, e il più possibile “accontentati”. Sta qui la chiave con cui aprire o meno la porta della sopravvivenza futura.
Lo spartiacque non è, appunto, tra “religiosi” e “laici”, lo è semmai tra un approccio chiuso e uno aperto, tra una visione integrale e una pluralista. Se i nostri studenti vanno in gita, chessò, a Firenze non possono essere obbligati a visitare e studiare il Brunelleschi di Santa Croce, però chi vorrà farlo non è ammissibile che sia neanche lontanamente sfiorato dal sospetto dell’accusa di idolatria. Se così invece fosse…, da un lato è palese perché molte famiglie non lascino i figli nelle classi superiori della scuola, dall’altro ci chiediamo dove sia finito l’ebraismo italiano.
Anni fa, rav Elio Toaff mi raccontava -con commozione e orgoglio-, di quando, alla morte di suo padre Alfredo Sabato, rabbino di Livorno, le campane delle chiese cittadine suonarono tutte insieme per rendergli omaggio e dargli l’ultimo saluto. Non è forse quello un segno forte da ricordare e intorno a cui raccoglierci? Noi non siamo stati eletti anche a difesa di questa tradizione?
E quando fatichiamo a darci delle risposte faremmo bene a seguire l’esortazione di rabbi Hillel che, se non ricordo male, diceva di «guardare a cosa fanno gli ebrei», ovvero di cercare la risposta nelle consuetudini.
Ma le consuetudini di ebrei italiani, milanesi, non sono di vietare un catering kasher per il motivo che il matrimonio celebrato è “misto”. Dove sta lo spirito ebraico nell’impedire a ebrei che lo vogliono di comportarsi da ebrei? Non è così che ci terremo stretti i figli di matrimoni “misti”. Non buttiamo via altre intelligenze, altre donne e altri uomini che sono il futuro di tutti noi. A chi dice che “aprendoci” si perdono i “vicini”, quelli “buoni”, noi rispondiamo con forza che non è vero. Mentre di “lontani” ne abbiamo già persi moltissimi, troppi.
Oggi c’è probabilmente chi pensa che abbandonare quelle nostre consuetudini, cancellare dalle nostre radici gli Ernesto Nathan e i Primo Levi, Amelia Pincherle Rosselli, i Sereni e i Rosselli, i garibaldini, gli Isacco Artom, Giorgina Arian Levi, i nostri “vecchi” che hanno fatto il Risorgimento, difeso la patria, combattuto per la libertà, la giustizia, la democrazia, sia un passo verso l’“integrità”.
Le amnesie in cerca dell’“integrità” ebraica a noi non piacciono, e crediamo non piacciano ai moltissimi che ci hanno votato. Perché vogliamo -e vogliono- che i nostri nipoti e i nipoti dei nostri nipoti abbiano la possibilità, domani, di trovare ancora una Comunità ebraica di Milano a cui iscriversi.

Stefano Jesurum

Contrariamente alle mie abitudini interverrò sull’articolo del consigliere Stefano Jesurum. Lo faccio perché alcune delle cose dette mi riguardano direttamente e riguardano più in generale il Rabbinato e il ruolo di un rabbino nella comunità ebraica.
Jesurum insiste molto sul concetto di accoglienza e conclude il suo articolo dicendo “vogliamo che i nostri nipoti e i nipoti dei nostri nipoti abbiano la possibilità, domani, di trovare ancora una Comunità ebraica di Milano a cui iscriversi”. Sono perfettamente d’accordo, il problema è come si ottiene questo risultato. Lo si ottiene sicuramente accogliendo le persone, creando occasioni di incontro fra persone di origine e idee diverse, aprendo le proprie case, creando la possibilità di vivere insieme momenti significativi di vita ebraica e rafforzando i luoghi tradizionali di aggregazione della comunità il tempio e la scuola. Nel mio piccolo ho tentato sempre di farlo. La domanda però è se l’atteggiamento di accoglienza implichi il dire sempre di sì e non esprimere mai il proprio dissenso o la propria disapprovazione. Io credo che dire sempre di sì sia profondamente sbagliato. Qualunque educatore (un rabbino dovrebbe essere innanzitutto un educatore) sa che i no aiutano a crescere.
Veniamo alle contestazioni specifiche che Jesurum fa, che riguardano decisioni rabbiniche.
Il suo primo riferimento è al divieto durante le gite scolastiche di entrare nelle chiese. Questo divieto stabilito da Rav Laras fu ribadito da me quando divenni Rabbino Capo. Il divieto è la semplice applicazione di una norma di halakhà. Questa norma può essere sicuramente spiegata e mi è capitato di farlo ad alcuni genitori, non ritengo però che ci sia lo spazio sufficiente per farlo in un breve articolo. Ritengo però che sia il caso di ribadire che l’applicazione di una norma halakhica da parte di un rabbino sia un diritto e un dovere. Negare questo diritto/dovere significa negare la funzione stessa del rabbino.
La seconda delle decisioni a cui fa riferimento Jesurum è una mia decisione. Si tratta del rifiuto di fornire il controllo del Rabbinato per un ricevimento di un matrimonio misto. Anche in questo caso mi sono limitato ad applicare una norma halakhica, una norma che vieta di collaborare al compimento di una trasgressione (questa norma mi fu insegnata circa 30 anni fa da Rav Toaff a cui posi una domanda su un caso simile a quello che ho dovuto affrontare in questi giorni). Ma il problema non è solo halakhico, il problema è che atteggiamento avere nei confronti del matrimonio misto: Negli ultimi anni si è andato affermando un atteggiamento di accettazione o legittimazione di questo fenomeno. È un atteggiamento relativamente nuovo, fino a non molto tempo fa il matrimonio misto era rifiutato, non solo nel mondo religioso ma anche in buona parte dall’ebraismo laico, perché era ritenuto un pericolo per la sopravvivenza delle comunità e del popolo ebraico in generale. Essere ebrei è difficile, trasmettere l’identità ebraica è complicato per tutti. la sopravvivenza del popolo ebraico in mezzo a culture diverse e preponderanti è un miracolo della storia umana.
Gli ebrei si sono resi sempre conto della difficoltà dell’identità e hanno sempre ritenuto che la famiglia ebraica fosse l’elemento fondamentale di questa trasmissione. Ovviamente non ci sono garanzie, ci sono famiglie interamente ebraiche che non riescono a trasmettere l’identità ma il matrimonio misto rende tutto ciò di una difficoltà estrema.
Alcune ricerche americane presentano dati spaventosi sulla continuità ebraica delle famiglie miste e anche i dati che possiamo dedurre dalla situazione dell’ebraismo italiano non sono certo incoraggianti. Per questi motivi io credo che sia un dovere di tutti noi fare ogni sforzo affinché si formino famiglie ebraiche, per fare ciò è però necessario dire parole chiare sulla contrarietà al matrimonio misto. Se il messaggio non è chiaro i nostri sforzi rischiano di essere inutili. Come facciamo a dire ai nostri figli o ai nostri fratelli o ai nostri amici che è fondamentale fondare una famiglia ebraica se poi collaboriamo a organizzare un matrimonio misto o vi partecipiamo? Ci troveremmo davanti a quello che in educazione si chiama “doppio messaggio”, da una parte ci opponiamo a qualcosa, dall’altra dimostriamo con i fatti di approvarla. Un certificato di kashrùt dato al cibo che viene servito in un ricevimento è anche nei fatti un certificato di kashrùt a quel matrimonio e credo che ogni tanto bisogna avere il coraggio di dire di no.
Si tratta di un atteggiamento antipatico? Sicuramente sì, ma anche scrivere su un pacchetto di sigarette che il fumo fa male è antipatico. Ma evidentemente si ritiene che per la tutela della salute valga la pena di essere ogni tanto antipatici e credo che questo valga anche per la difesa della continuità ebraica.
Jesurum dice anche citando una frase di Hillel di “vedere cosa fanno gli ebrei”. Questa frase citata fuori contesto ha il vago sapore di un invito al conformismo: Ho sempre avuto una grande considerazione di ciò che fanno gli ebrei ma credo che anche gli ebrei commettano ogni tanto degli errori e quando sbagliano sarebbe bene non prenderli ad esempio. Hillel, nel trattato di Berakhòt (63A) dice una cosa molto diversa, dice che quando una generazione ha la tendenza ad aprire bisogna mettere dei limiti, quando la tendenza è quella di chiudere bisogna essere capaci di aprire. Jesurum contrappone apertura e chiusura dando un significato completamente positivo alla prima e uno completamente negativo alla seconda. Quello dell’apertura e della chiusura rischia di diventare uno slogan. Ognuno di noi sa che nella vita reale la situazione è un po’ più complessa. Nelle nostre vite private, nei rapporti all’interno delle famiglie, nei rapporti con gli altri si alternano aperture e chiusure. Nella vita comunitaria è fondamentale aprire molte porte ma non tutte le aperture sono positive. Se apro un rubinetto d’acqua posso dare da bere a moltissime persone ma se lo lascio costantemente aperto rischio di provocare un disastro.
Io non credo che le categorie dell’apertura e della chiusura siano utili per capire una comunità e agire in essa. Ne propongo un’altra, tipicamente ebraica, quella della ghemilùt chassadìm. La ghemilùt chassadìm è uno dei tre pilastri su cui, secondo i Pirkè Avòt, poggia il mondo. Fare ghemilùt chassadìm significa tentare di occuparsi delle necessità del prossimo, tentando di capire i suoi problemi, i suoi bisogni ma tentando anche di aiutarlo a correggere i suoi difetti. Il rapporto all’interno di una comunità è un rapporto tra fratelli e in un rapporto tra fratelli non è ammessa l’indifferenza. Dobbiamo essere capaci di aiutare i nostri fratelli sia materialmente sia spiritualmente. Il Talmùd dice che tutti gli ebrei sono garanti uno per l’altro e ciò significa che un’azione positiva compiuta da un altro ha un effetto anche su di me ma anche un’azione negativa commessa da me può avere un effetto sugli altri.
Per concludere, un’ultima osservazione. Nell’articolo si dice che non ci si vuole occupare di problemi halakhici che sono di competenza rabbinica. Dopo però si affrontano due problemi squisitamente halakhici. Io credo che si sia trattato di un errore in buona fede, che non ci si sia accorti di essere entrati nel campo della Halakhà. Credo che questo errore vada volto in chiave positiva. Uno degli elementi centrali di ogni comunità ebraica è sempre stato lo studio della Torà. Studiare Torà e non genericamente cultura ebraica è fondamentale e può essere un elemento di coesione. Studiare Torà significa costruire un linguaggio comune, fare in modo che si discuta di qualcosa sapendo di che cosa si sta discutendo. Io spero ardentemente che questo possa essere uno dei risultati del dibattito comunitario.

Rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano

Quale futuro? Rav Della Rocca: “Il bene dell’ebraismo italiano lo si fa con uno sforzo di unità. E anche di fantasia”

Nascondersi che l’ebraismo italiano rischia di dividersi su alcuni problemi sarebbe ipocrisia. Una qualche forma di divisione si è già di fatto realizzata e la lettera di Stefano Jesurum ne è una testimonianza. Si tratta ora di vedere se faccia bene a un ebraismo di poco più di 25.000 iscritti dividersi e dare l’avvio a nuove polemiche e a nuove fratture. Il bene dell’ebraismo italiano lo si fa probabilmente con uno sforzo di unità e, in questo intento, con un grande sforzo di fantasia.
I problemi caldi che assillano l’ebraismo italiano, in forte crisi di identità, sono spesso affrontati da un’angolazione troppo ideologica e autoreferenziale tale da generare polemiche improduttive spesso inficiate da logiche di schieramento e da etichette preconfezionate.
Dovremmo trattare questi delicati argomenti come temi di studio, con contributi di esperti per poter affrontare, con cognizione di causa e con maggiore consapevolezza, non solo dibattiti e discussioni, ma anche e soprattutto proposte e percorsi di soluzione. Le situazioni di tensione verificatesi in questi ultimi tempi e lo scadimento dei principi di vita ebraica nelle nostre Comunità ci dicono con sempre maggiore chiarezza che nessuno può starsene alla finestra profferendo giudizi dall’alto. Impegno e responsabilità significano che ciascuno deve fare la sua parte: i singoli come le istituzioni, ciascuno per quel che gli compete e per quel che gli è possibile.
In questi ultimi anni siamo stati testimoni di lacerazioni e allontanamenti, ma anche di percorsi di impegno e di consapevolezza. Per molti l’osservanza e lo studio della Torah non sono più appannaggio esclusivo di poche persone dalle quali si differenziava un gruppo di dirigenti illuminati che eccellevano nella vita commerciale e intellettuale della società civile. Rispetto a trenta anni fa si è più coscienti che tutta la Comunità ha gli stessi diritti e doveri e che i rabbini si devono distinguere soprattutto come Maestri e che la loro funzione principale è quella di guidare e incentivare questo percorso di riappropriazione di un’identità consapevole.
E’ indubbio che il rabbinato italiano stia attraversando oggi una fase di profondo cambiamento. C’è stato in gran parte delle istituzioni comunitarie un notevole ricambio generazionale: la maggior parte dei nuovi leader è nata dopo la guerra, non ha vissuto l’esperienza delle persecuzioni, né la nascita dello Stato di Israele e ha come modelli di riferimento realtà non soltanto italiane. Tutto ciò sta avendo conseguenze innegabili: l’ebraismo non è visto più come cultura di reazione rispetto agli stimoli negativi e distruttivi del mondo esterno; si tende a uscire dagli schemi del provincialismo, che è stato, ed è tuttora, un difetto diffuso dell’ebraismo italiano. Si sono delineati nuovi modelli di riferimento negli studi e nelle altre attività di competenza rabbinica. Tutto questo crea anche tensioni, in particolare per ciò che riguarda l’adozione degli standard di applicazione della Halakhah, la Legge ebraica.
Dal punto di vista concettuale, nel momento in cui ci si riferisce alla Tradizione intesa nella sua accezione più ampia, ognuno può scegliere la sua strada.
Basti ricordare la conclusione celeste alle discussioni tra la scuola di Hillel e la scuola di Shammai: ” …queste e quelle sono le parole del Dio Vivente, ma la Halakhah è secondo la scuola di Hillel….”. La prassi quotidiana, e non solo l’etica e la storia, è ciò che permette di chiamare ebraismo quel fenomeno di cui stiamo parlando. L’etica, innanzitutto, non è certo retaggio esclusivo del popolo ebraico. Io ritengo la Halakhah il punto di partenza; certo non l’unico elemento su cui si fonda l’identità ebraica, ma sicuramente il punto di partenza. Credo che la Halakhah sia la garanzia della stessa pluralità di approcci garantita dall’ ebraismo e nell’ ebraismo; certamente non la negazione di questi.
Se si vuole individuare fra i vari aspetti dell’ebraismo un momento unitario, e non solo in prospettiva storica o etica, si deve trovare un qualche punto di incontro nella prassi.
Ma la Tradizione per quanto venga dal Cielo, non sta in Cielo; è strumento duttile, è un percorso che si rinnova quotidianamente grazie all’uomo. L’idea della Halakhah, lungi dall’essere una cornice soffocante, è la giustificazione per un’evoluzione in una continua dinamica creativa. Non è detto però che questo dinamismo debba sempre tradursi in una soluzione su misura a un problema personale.
Credo che anche questo ritornare più volte sul concetto di pratica vista come forma vuota sia da approfondire, anche in termini puramente semiotici: nessuna pratica, ovvero nessun segno può mai essere vuoto perché inevitabilmente veicolo di significato ; il contrasto tra contenuto e forma, tra dentro e fuori non mi sembra essere uno schema di interpretazione ebraico degli avvenimenti e delle azioni.
L’interiorizzazione pura e semplice della Tradizione altro non è che la sua abolizione, ed è esattamente ciò che propugnarono tutte quelle correnti antinomistiche (il Cristianesimo, il Sabbatianesimo e più tardi la Riforma) che finirono poi tutte per distaccarsi dall’ebraismo.
Presentare l’ebraismo come un complesso di valori implica a mio avviso un altro errore: l’ebraismo è una realtà collettiva, un uomo non può essere ebreo in quanto individuo a se; egli è viceversa ebreo in quanto appartenente alla comunità del popolo che vive una Tradizione come pratica condivisa. La conoscenza, la percezione, i valori appartengono a una dimensione generalmente soggettiva, che non lascia necessariamente spazio al rapporto collettivo e prescinde dalla necessità della comunicazione e dell’ interazione.
Quel che è percepito dal singolo è realtà soggettiva e non è oltretutto comunicabile agli altri, poiché il linguaggio non è coestensivo con i sentimenti e non sa comunicare emozioni e percezioni. Su concetti, percezioni e sentimenti non si può fondare il senso della collettività, che si attualizza piuttosto nella sfera dell’azione e della soluzione su misura a un problema personale realizzazione comuni, ossia nella prassi oggettivata delle mitzwòt.
La Halakhah continua pertanto a rappresentare il limite tra un ebraismo che è cultura e vita proiettato nel futuro e un ebraismo che si rifugia eccessivamente nella contemplazione del proprio passato. Le tradizioni proprie della nostra storia non possano essere considerate soltanto folklore, esse hanno un valore storico, di identità e, non ultimo, legittimazione halakhica.
Non possiamo individuare nella tradizione italiana un valore assoluto, al solo scopo di crearci un alibi per la mancanza di studio. Quello italiano si è ridotto a un ebraismo troppo etico e storico, ma privo del legame con i suoi testi originari.
E’ su questo poi che si gioca il vero confronto tra l’ebraismo italiano attuale e altre Comunità nel mondo.
Nel pianeta dei media è impensabile l’isolamento, sarebbe un atto di presunzione che potrebbe comportare l’emarginazione dall’ebraismo mondiale.
E d’ altra parte i grandi Maestri dell’ebraismo italiano tra l’Ottocento e il Novecento ( Margulies, Chajes, Elbogen ), sono la cifra dello sforzo cosciente che fece quell’ebraismo di mantenere una valenza europea non restando ancorato ai miti del passato ( Shadal, Reggio, Benamozegh ).
Anche il mio Maestro, Rav Elio Toaff Shlita, talvolta un pò troppo strumentalizzato, una cinquantina di anni fa passò per un integralista agli occhi di alcuni ebrei romani che si videro abolire, dall’allora giovane neorabbino capo, l’uso dell’organo di shabat, consuetudine così tanto amata e ancora molto rimpianta dagli ebrei della Capitale e che allora vide addirittura l’allontanamento dal Tempio Maggiore di alcuni assidui frequentatori !

rav Roberto Della Rocca

Stefano Jesurum ha lanciato su Mosaico un appello per l’unità dell’ebraismo e per l’abbattimento degli steccati. E ritorna infine motivatamente l’attenzione sul problema, vero e ineccepibile, dei ghiurim. L’ebraismo italiano si sta dibattendo da tempo fra i due estremi dell’integralismo religioso e della ricerca di una identità più sfumata. Mantenersi in equilibrio non è facile. Quella dell’ebraismo italiano è crisi profonda, e a risolverla non saranno né le siepi rigoriste e fondamentaliste, che questa crisi hanno avviato, né la corsa alle sacre aspersioni d’ufficio, che risolvono la questione del riconoscimento formale ma non garantiscono assunzione consapevole di identità. Ci si potrebbe allora chiedere che cosa significhi essere ebrei, fare figli ebrei, o fare ebrei i propri figli. Perché si può riconoscere, con un po’ di coraggio, che affermando il valore della continuità biologica – della comunità, della famiglia – si rischia di assumere una posizione che rasenta il razzismo. E, per non rasentarlo, bisogna ammettere che essere ebreo è assunzione di responsabilità culturale e di una pur variabile e ‘negoziabile’ ortoprassi. Fare ebrei i figli, senza dare loro kiddush, shabbat, casheruth, studio e cultura della Torah, pur in misure argomentabili, vuol dire accettare di veder morire il loro ebraismo con la generazione successiva, facendogli l’unico dono sgradito dell’antisemitismo. Tanto vale avere il coraggio dell’eutanasia. Un’immagine troppo forte e sgradevole a cui l’animo di chi legge si ribella? Bene. Si ribella anche la coscienza di chi, a cadenza regolare, sente che si cerca di risolvere la questione individuale del ghiur attraverso un movimento di coscienze collettivo, una moderna class action. Come se l’adesione all’ebraismo non fosse problema culturale e di vita del singolo, ma pura questione di ‘omogeneità’ famigliare. Se si ha a cuore la sopravvivenza di un ebraismo più forte e coeso non se ne sacrificano le fondamenta alla soluzione della crisi personale. La proposta di qualcosa di più meditato e credibile non può che passare attraverso il previo riconoscimento della nostra crisi. Che non è crisi delle modalità di conversione. La soluzione non la si può cercare solo nella trattativa con il rabbinato, da cui ci si potrebbe attendere un po’ più d’apertura e, magari, un po’ più di impegno. Forse il primo spiraglio di soluzione lo si dovrebbe individuare nella trattativa con la propria coscienza ebraica e con la coscienza ebraica dei propri figli.

Dario Calimani