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    16 febbraio 2009 - 22 Shevat 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
Nelle cronache di questi giorni si parla con grande evidenza di episodi di violenza sessuale e non è facile capire se vi sia effettivamente una recrudescenza di questo odioso reato o se vi sia un'intenzione mediatica di sottolinearlo. Sappiamo dalle nostre fonti più antiche che il fenomeno non era affatto raro; la Torà e la legge rabbinica ne hanno prescritto le sanzioni che non sono corporali, ma prevedono il compenso economico alla vittima per "la vergogna, il dolore e le spese mediche". La tradizione però non si limita a questo aspetto giuridico, perché ne sottolinea l'estrema pericolosità sociale; nella Bibbia vi sono tre casi di violenza sessuale con risultati disastrosi: la violenza subita da Dina, figlia di Giacobbe, che determina la distruzione di un'intera città; la violenza subita dalla concubina a Ghivà al tempo dei Giudici, che scatena una guerra civile contro la tribù di Beniamino; la violenza subita da Tamar, che porta alla morte del violentatore Amnon e alla rivolta familiare contro il re David. 
I raid punitivi che si moltiplicano in questa nostra Italia di violenze e stupri sono un segnale molto brutto e pericoloso di degrado e di deriva civile. Sono la volontà di vendetta che si sostituisce a quella di giustizia, la rappresaglia che prende il posto della ricerca del colpevole. Sono intrinsecamente e profondamente razzisti non perché siano mossi dalla volontà di aggredire l'immigrato di un colore diverso, ma perché se la prendono con gli "zingari", i "rumeni", gli "immigrati", indipendentemente da quello di cui ogni individuo è responsabile, solo perché viene inserito in una categoria generale considerata tutta pericolosa. Questi comportamenti indicano la rinuncia ad ogni legalità e sono quindi, più degli stupri, più dei furti, più degli omicidi, un rischio per l'intera società. Una società che si fa giustizia da sola, e in questo modo assurdo, è fuori dalla legge e dalla civiltà.  Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Edna Calò LivneDonne d'Israele 4 - Edna Calò Livne
La pace inizia dai ragazzi


“Quando mio marito Yehuda partì per la guerra del Libano, nell’82, ero incinta del nostro primo figlio. ‘Tu non dovrai mai andare in guerra’, ripetevo a quel bimbo dentro di me. Ma le cose purtroppo sono andate in modo assai diverso”. Solo pochi giorni fa Angelica Edna Calò Livne, romana di nascita, dal 1975 in Israele, ha visto partire per il corso ufficiali il suo terzo figlio. E prima di lui era stata la volta degli altri suoi due ragazzi. Ma la speranza di pace di questa signora, che ha superato i 50 e sembra una ragazzina, non è affatto spenta.
Nel nord d’Israele, dal kibbutz di Sasa, Edna, ricci neri a cascata, un’energia e un’allegria invidiabili, continua a coltivare nei suoi ragazzi i valori della convivenza, del dialogo, del rispetto, l’amore per l’ambiente, il senso dell’arte. Strumento principale, il Rainbow theatre che dal 2001 vede recitare insieme, con grande libertà creativa, ragazzi ebrei e arabi, cristiani, drusi e circassi, religiosi e laici. E accanto al teatro una radio, The all peace radiostation, anch’essa multiculturale; la formazione per i ragazzi che a loro volta vogliono farsi educatori dei coetanei; una squadra di calcio; incontri e conferenze e, a breve, un nuovo progetto nel campo dell’ecologia. Il tutto sotto il cappello di una fondazione, “Beresheet la Shalom – Un inizio di pace” che oggi coinvolge in Israele quasi 800 ragazzi di religioni ed etnie diverse. Una realtà che tanti italiani hanno ormai imparato a conoscere anche attraverso il Diario dalla Galilea che per alcuni anni Edna Calò ha tenuto su Repubblica e da poco è divenuto un libro (Proedi editore).
Edna, come inizia l’avventura di Beresheet la Shalom?
E’ nata sull’onda della seconda intifada. Il primo dei miei figli era in esercito. Ero preoccupata, per un anno sono stata malissimo. Poi ho accompagnato in Italia, a una colonia dell’Ose (Organizzazione sanitaria ebraica), un gruppo di bimbi israeliani vittime del terrorismo. Lì mi sono resa conto che bisognava fare qualcosa per promuovere la pace. Mi occupavo da anni di teatro creativo e sociale, avevo insegnato in molte scuole. Così ho pensato di mettere insieme bambini ebrei e arabi per farli lavorare insieme.
Quale accoglienza ha trovato il tuo progetto in Israele?
Non è stato facile. Ho incontrato dei no sia al kibbutz sia al Regional council cui avevo chiesto di metterci a disposizione una struttura per gli incontri. Ma ho deciso di andare avanti lo stesso. Così ho chiamato i ragazzi arabi che lavoravano nelle cucine e li ho fatti incontrare con coetanei ebrei e cristiani. L’esperienza è cresciuta al punto che oggi il teatro copre la regione da Nahariya fino oltre Zfat. Vi partecipano, ogni lunedì circa 30 giovani per un totale che finora è di quasi 150 ragazzi.
Negli anni il tuo progetto si è sviluppato anche nelle modalità. Tanto che dopo la radio, il calcio e la formazione adesso è in arrivo anche un progetto legato all’ambiente.
L’idea è di dare vita a un centro ecologico, in collaborazione con il sistema dei parchi naturali, per educare i ragazzi alla pace attraverso le arti e l’ecologia. I giovani devono riuscire a trovare le risorse dentro se stessi realizzando un’armonia con le persone e con l’ambiente che li circondano. Solo così possiamo pensare di costruire il futuro.
Quest’accelerazione delle iniziative significa che le diffidenze iniziali sono state superate?
In parte sì. Tante delle cose che facciamo arrivano in modo naturale. Spesso ho la sensazione di navigare su una bella barca. Scivolo accanto alle persone, tendo la mano e loro salgono a bordo. A volte siamo controcorrente e tantissimi ostacoli ci s’infrangono addosso. Ma quando mi sembra d’affondare l’acqua d’improvviso si calma.
Perché la scelta del teatro per lavorare con i ragazzi?
Il teatro è uno strumento potente. Recitando si entra in un altro personaggio. Si allarga il proprio repertorio e s’interpreta ciò che si ha dentro, senza sentirsi minacciati. E quando vedi che gli altri ti accettano prendi coraggio e vai avanti. Più in generale il progetto di Beresheet la Shalom ha successo perché parliamo ai ragazzi di comunità, di ciò che dà speranza. Questo li rende più forti e li fa sentire profondamente partecipi.
Come avete vissuto, nel vostro gruppo, il periodo della guerra di Gaza?
Sono stati momenti molto difficili. Per questo abbiamo cercato di parlarne. Ci siamo seduti in cerchio e abbiamo cercato di capire come ci sentivamo. Avevamo tutti le lacrime agli occhi. La cosa straordinaria è che nessuno dei ragazzi ha accusato la controparte o ha avuto parole di opposizione, di scontro. Hanno parlato tutti di speranza e d’amicizia esprimendo la loro profonda preoccupazione.
Quale riscontro può avere adesso in Israele un’iniziativa come Beresheet la Shalom?
In Israele oggi c’è molta sfiducia e delusione. La gente non crede molto in progetti come il nostro. Ma poi ci vengono a vedere e quando si rendono conto che la cosa funziona davvero si emozionano tantissimo.
In tutti questi anni hai mai avuto paura?
Solo una volta. Quando al tempo dell’intifada decidemmo di incontrarci nei territori con un gruppo palestinese per la giornata dedicata al pane della pace. Qualche giorno prima ebbi un attacco d’ansia spaventoso. Poi di shabbat, al Tempio italiano di Gerusalemme, mi capitò tra le mani la parashà della settimana in cui si parlava proprio di pane, di pace e di serenità. Per me fu un segno: dovevamo andare avanti e così facemmo. Non accadde nulla a nessuno di noi.
Edna, l’intero progetto è nato dal pensiero dei tuoi figli. Loro come vivono quest’impegno per la pace?
Abbiamo fatto tutto insieme. Il piccolo, Or, partecipa agli spettacoli da quando ha quattro anni. I primi due, Gal e Yotam, oggi sono alla guida dei nostri progetti. Il terzogenito Kfir è stato tra i primi a partecipare al Rainbow theatre. All’inizio non voleva perché la regista era sua madre. Lo provocai chiedendogli se non si rifiutava di recitare per la presenza di ragazzi arabi. Così ci venne a vedere e alla prima occasione salì in scena. Da quel giorno fu uno dei personaggi principali. Di recente, quando si è arruolato, mi ha detto che una delle cose più belle che gli sono capitate è stata proprio l’esperienza del Rainbow theatre. E’ stata per me una soddisfazione immensa.

Daniela Gross


Israele al voto 4 - Yaakov Andrea Lattes
"Per la pace ci vuole un partner consenziente"


Israele ha votato, e i risultati delle elezioni presentano alcuni fenomeni assai interessanti. Questi fenomeni, o meglio gli aspetti da analizzare, sono sostanzialmente tre: il crollo della sinistra storica che comprendeva i due partiti dell'Avodà e di Meretz, l'ascesa del Likud di Netanyahu, e l'ascesa di Israel Betenu guidato da Liebermann.
Per poter analizzare questi tre movimenti di voto, è necessario tener presente la situazione in cui la popolazione israeliana si è trovata in questi ultimi anni, e comprendere che questo voto è stato sostanzialmente un voto di protesta. I cittadini israeliani difatti si sono trovati durante i passati anni a subire quasi come cavie esperimenti politici che non hanno portato a nessun risultato, ma anzi sono falliti clamorosamente. Questi esperimenti come gli accordi firmati con Arafat e il ritiro unilaterale da Gaza, hanno causato quasi esclusivamente atti di terrorismo contro la popolazione civile, con autobus pubblici che esplodevano per strada e missili caduti su scuole e abitazioni, sia del Nord provenienti dal Libano sia del Sud provenienti da Gaza, assommati a notevoli problemi sociali quali il sempre maggiore divario economico fra ricchi e poveri, e infine il tracollo del sistema educativo pubblico (Israele è stata classificata al 26° posto su 32 nell'ultima statistica sull'educazione dell'OCSE, cioè al settimo posto dalla fine). Questa situazione ha portato la popolazione all'esasperazione, che ha quindi reagito nella più democratica delle maniere: andando a votare.
Ma torniamo ai fenomeni di cui si diceva. Il primo risultato di queste elezioni è il tracollo dei partiti della sinistra storica (l'Avodà che è scesa da 19 a 13, e il Meretz che è sceso da 5 mandati a 3 soltanto), e contemporaneamente la discesa di Kadima della Livni da 29 mandati nelle elezioni del 2006 a 28 mandati di oggi. E` facile notare quindi come i due partiti della sinistra storica siano stati abbandonati da gran parte del proprio elettorato, che è passato invece a votare Kadima. La Livni infatti pur di ottenere i voti della sinistra si era collocata nelle sue dichiarazioni durante la campagna elettorale, su quelle che erano le posizioni storiche di quei partiti, oltre a sviluppare un atteggiamento di forte antagonismo verso Netanyahu e quello che era il suo precedente partito, il Likud. Di conseguenza questo elettorato, che è sempre stato ostile a Netanyahu, ha preferito concedere il proprio voto a chi riteneva avesse possibilità di bloccarne l'ascesa. Da qui si deduce fra l'altro, come la campagna elettorale appena passata sia stata in sostanza alquanto superficiale, la maggior parte dei partiti non abbia espresso posizioni ideologiche, e il voto sia stato dato soprattutto in base a simpatie personali.
Il secondo aspetto che bisogna analizzare è la forte ascesa del Likud di Netanyahu, che è passato da 12 mandati nel 2006 a 27 oggi. Il Likud, essendo l'alternativa storica ai partiti di Avodà e Meretz ha tratto vantaggio dalla protesta della popolazione, esausta degli attacchi missilistici provenienti da Gaza e durati mesi, a cui il governo soltanto ultimamente ha reagito. Ugualmente ha guadagnato la lista di Liebermann, che esprimendo durante la campagna elettorale slogan populisti, ha facilmente attirato i voti di chi era scontento del passato governo. Per di più Liebermann è riuscito a raccogliere i voti di gran parte della popolazione emigrata dall'ex Unione Sovietica, che solitamente vota appunto propri rappresentanti. Questi due fattori messi assieme hanno promosso l'Israel Betenu a 15 mandati.
I risultati del voto a Sderot, la cittadina tartassata dai missili di Gaza, confermano questa analisi, nonostante tale località sia per tradizione appannaggio del Likud. Difatti lì il voto era così suddiviso: 33% Likud, 23% Israel Betenu (Liebermann), Shas 13%, Kadima 12%, Avoda 5% e Meretz 1%. A Ashkelon, non distante da lì i risultati del voto sono stati simili.
La conclusione a cui si giunge è che la popolazione israeliana vuole effettivamente vivere in pace, ma che questa pace gli arabi e Hamas in particolare non la possono ottenere attraverso attacchi terroristici e missilistici. Gli israeliani hanno imparato a proprie spese che per fare la pace, come per fare l'amore, è necessario avere un partner consenziente, e guai se non c'è il suo consenso sincero. 
 
 
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  Donatella Di CesareKant, Lévinas e la stretta via
per conquistare una Pace autentica


La guerra? Un rimedio inevitabile, il farmaco più o meno amaro di una umanità periodicamente malata. Questa sembra essere, oggi più che mai, la concezione quasi ovvia. E la pace, d’altra parte, continua ad essere definita in negativo, come una sconfitta temporanea della guerra, una rivalsa provvisoria dell’etica sulla politica; perciò non potrebbe mai essere raggiunta in un tempo futuro, ma solo perseguita all’infinito. Anche Kant, che scrive sulla “pace perpetua”, vede il male come condizione del bene, la guerra come condizione della pace.
Il “pacifismo” non fa eccezione e pensa sempre la pace come rifiuto della guerra – un rifiuto che appare ingenuo e volontaristico, perché alla volontà di potere che afferma la guerra oppone una volontà (non meno violenta) di potere che afferma la pace. È questo lo svantaggio del pacifismo: non uscire dal circolo per cui si cerca la pace preparando la guerra.
Ma si può pensare altrimenti? Il pensiero ebraico più recente ha cercato di rispondere a questa domanda che, dopo Auschwitz, ha assunto un rilievo del tutto diverso. Perché la Shoah, il baratro che si apre tra le due grandi guerre del Novecento, ha mutato l’esperienza e il concetto di “guerra” che è divenuta “guerra totale”. L’annientamento del popolo ebraico ha mostrato – per Lévinas – che non c’è più un “Me al di là della guerra”. Nessuno sfugge più alla furia sterminatrice della nuova guerra totale e totalizzante.
Si dischiude allora un varco? Si apre una via d’uscita dalla logica totalitaria della guerra che, nella sua tragicità, ha ritmato la storia dell’occidente? Basterà capovolgere la prospettiva, pensare cioè che la pace viene prima della guerra, per scoprire che non è l’io, ma è l’altro a portare al di là della guerra. Non è la preoccupazione per me, ma è la preoccupazione per l’altro il gesto etico dell’evasione e dell’esodo. Il che vuol dire anche che la pace non va rinviata ad una fine di là da venire. Il circolo si spezza e la guerra è interrotta da una pace altra, una pace più antica della guerra e del suo ordine: non la pace della non aggressione, ma la pace che non è indifferente alla differenza dell’altro.
In questa torsione dell’io verso l’altro si compie ogni volta, nel suo incondizionato valore etico, l’obbligo della Torah: “non ucciderai”.

Donatella Di Cesare, filosofa


"Nel discorso di Benedetto XVI dobbiamo riuscire
a vedere il bicchiere mezzo pieno"


L'analisi di David Bidussa del discorso di Benedetto XVI (è un discorso e non sono parole, cioè una breve dichiarazione), mi trovano in totale dissenso, sia sul piano del contenuto ma sopratutto del metodo: mi sarei aspettato una analisi del testo (ma lo ha letto per intero il discorso?) e non una serie di affermazioni apodittiche e indimostrate. Proverò a riassumere i punti salienti e i concetti contenuti nel discorso:
1) Si afferma la condivisione della fede in Abramo, unico sostegno durante la Shoah per il popolo ebraico.
2) Si conferma la volontà di sterminare l'intero popolo ebraico da parte del Terzo Reich, già espressa ad Auschwitz-Birkenau.
3) Nonostante le radici comuni delle due fedi, con l'innesto dei rami di olivo selvatico dei Gentili sul buon albero di olivo che è Israele, la storia bimillenaria dei rapporti fra l'ebraismo e la Chiesa cattolica sono dolorosi da ricordare, Ora che possiamo incontrarci in spirito di riconciliazione non dobbiamo permettere alle difficoltà passate di trattenerci dal porgerci reciprocamente le mani dell'amicizia.
4) Sulla base di "Nostra Aetate", che è una pietra miliare lungo il cammino verso la riconciliazione, la Chiesa è profondamente e irrevocabilmente impegnata a rifiutare ogni forma di antisemitismo.
5) Nel ricordo del viaggio di Giovanni Paolo II a Gerusalemme il papa rinnova la richiesta di perdono e rinnova l'impegno ad una autentica fratellanza col popolo dell'alleanza
6) Nel respingere l'odio e il disprezzo (quindi teologia della sostituzione e politica del disprezzo) si riafferma che la Shoah è un crimine contro Dio e l'umanità e al contempo si respinge qualsiasi negazione o minimizzazione di questo terribile crimine.
7) Il ricordo, visto come memoria futura, deve farci lottare per una completa riconciliazione e ricostruzione di ponti di duratura amicizia e confermare la determinazione a guarire le ferite che da troppo tempo affliggono le relazioni fra cristiani ed ebrei.
8) Conclude il papa "Desidero sinceramente che la nostra amicizia divenga sempre più forte affinché l'impegno irrevocabile della Chiesa per relazioni rispettose e armoniose con il popolo dell'Alleanza porti frutti abbondanti".
Vorrei da ultimo ricordare che il prof. Ratzinger e l'ultimo e più importante allievo di Romano Guardini, il più grande teologo tedesco del Novecento, punto di riferimento dei giovani della Rosa Bianca e tenace oppositore del nazismo.
Forse da inguaribile ottimista sono abituato a vedere il bicchiere mezzo pieno. David invece quello mezzo vuoto. Debbo dire onestamente che in questo discorso non vedo nulla a cui ci aveva abituato il socialismo reale, come ritiene David, ma molto di positivo su cui costruire un rapporto positivo fra i credenti delle due tradizioni.

Guido Guastalla  
 
 
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Le notizie oggi sono poche e non troppo nuove. La maggior parte dei giornali (per esempio Andrea Tornielli sul Giornale, Cristina Nadotti su Repubblica) riporta il programma del viaggio del papa in Giordania e in Israele a maggio. Molti riferiscono di un  rifiuto di Tzipi Livni di fare il vice di Netanyau nel prossimo governo israeliano (Alberto Stabile su Repubblica, Francesco Battistini sul Corriere), ma in realtà le trattative non sono ancora incominciate davvero, tant’è vero che il terzo incomodo fra i due grandi partiti, Liebermann di Yisrael Beitenu se ne sta in vacanza. Che sia andato a riposarsi in Bielorussia, paese russofono come lui che dichiara di amare, invece che alle Seichelles o a St. Moritz, dovrebbero essere fatti suoi; ma Battistini in un articolo siglato sul Corriere lo usa come ciliegina per la vera e propria campagna di diffamazione che la stampa internazionale sta usando contro di lui: Lieberman è in Bielorussia, il presidente della Bielorussia è il dittatoriale Lukashenko, dunque anche Lieberman è un dittatore in potenza. E’ un sillogismo che non regge all’analisi logica, ma non importa: la calunnia è un venticello, diceva don Bortolo nel Barbiere di Siviglia.
Nessuna critica invece per la decisione del Dubai (paese arabo “moderato”) di non concedere il visto alla campionessa israeliana di tennis Shahar Peer, che si era conquistata sul campo il diritto di partecipare al torneo, anzi sui giornali c’è l’aria di dire che se lo fosse meritato, lei avendo fatto il servizio militare e Israele essendo quello che è. Davide Frattini sul Corriere racconta con un certo compiacimento la notizia che la stessa Shahar aveva subito un tentativo di boicottaggio nel torneo di Auckland, raccogliendo senza commenti le dichiarazione del boicottatore. Repubblica lamenta che “alle motivazioni politiche del boicottaggio è rimasta completamente sorda la World Tennis Association” che ha reagito con una minaccia molto generica (in seguito a questo fatto l’anno prossimo riconsidereremo l’inserimento del torneo nel calendario).
Concludo questa rassegna segnalando un’opinione di Pierluigi Battista sul Corriere, come sempre molto lucida e interessante. Battista se la prende con l’uso di paragoni impropri e “banalizzanti” fra la Shoà e la situazione politica attuale: un tema cui il mondo ebraico non ha dedicato sufficiente attenzione.

Ugo Volli 

 
 
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Ehud Omert e gli obiettivi di Israele                                                     
Gerusalemme, 15 feb -
Al primo posto fra le esigenze dello Stato israeliano la liberazione del caporale Gilad Shalit, più importante degli obiettivi che Israele si era prefissato sferrando l'offensiva contro Hamas nella Striscia di Gaza. Questo quanto dichiarato dal primo ministro uscente Ehud Olmert nel corso di un intervento a Gerusalemme davanti alla Conferenza dei presidenti delle organizzazioni ebraiche americane. Al secondo posto sarebbe invece l'obiettivo di porre fine al contrabbando di armi dall'Egitto verso la Striscia e, come terzo punto, un cessate il fuoco totale.


Primo passo verso la realizzazione di nuovi insediamenti presso Gerusalemme
Tel Aviv, 16 feb -
Israele – Un nuovo insediamento di coloni ebrei in Cisgiordania è stato formalizzato con l'acquisizione al patrimonio pubblico dell Stato di 17 ettari di terreno in prossimità di Gerusalemme. A fornire la notizia il sito del giornale Haaretz.
L'atto riguarda la zona nord dell'insediamento di Efrat, dichiarata patrimonio pubblico dall'amministrazione civile locale dopo il rigetto di una serie di ricorsi contro l' iniziativa presentati da cittadini e istituzioni palestinesi.
Efrat rappresenta già oggi, con 9 mila abitanti circa, l'insediamento di coloni ebrei più grande nell'area detta Gush Etzion.
Tale acquisizione potrà condurre nel medio lungo termine (operazione resa più laboriosa da alcune norme approvate di recente) alla lottizzazione dell'area, una volta ottenute le autorizzazioni degli uffici del primo ministro e del dicastero della Difesa, oltre che di quello dell'Edilizia.
L'Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente moderato, Abu Mazen (Mahmud Abbas), considera la politica israeliana sugli insediamenti in Cisgiordania il principale ostacolo al rilancio del processo di pace. E ha accusato di recente anche il governo centrista del premier uscente, Ehud Olmert, di aver proseguito nell'ampliamento delle colonie a dispetto degli impegni. 
 
 
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