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L'Unione informa
 
    25 settembre 2009 - 7 Tishrì 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto colombo Roberto Colombo,
rabbino
“Chi umilia pubblicamente una persona è come se la uccidesse e pertanto non ha parte nel mondo futuro” (Talmud). Strano. Chi uccide materialmente non è escluso che possa entrare nel mondo futuro mentre chi umilia ne è estromesso solo perché assomiglia a un assassino. La differenza consiste nel fatto che chi uccide ha maggiori possibilità di avere ripensamenti e rimorsi di colui che mortifica in quanto nel secondo caso spesso non si comprende la gravità dell’atto compiuto. E’ la capacità di teshuvà che determina accettazione o il rifiuto di un ebreo davanti a Dio. (rav Wolbe)Chatimà Tovà 
Che violenza, razzismo, intolleranza diventino problemi trasversali, che uniscono destra e sinistra, è giusto e importante. Così, ieri a Roma trentamila persone, a partire dal sindaco Alemanno con Marrazzo, Zingaretti e i rappresentanti di tutte le forze politiche, hanno sfilato in una fiaccolata contro la violenza dilagante nella città, contro gli attacchi sempre più frequenti ai gay, contro la disgregazione sempre più rapida del tessuto sociale. Intanto, nel centro sociale neofascista Casa Pound il senatore Dell'Utri faceva una pubblica lettura dei "Diari" di Benito Mussolini.. Peccato che si tratti di un falso clamoroso, di un bidone riconosciuto. Ma Dell'Utri ha dichiarato che di questo "non gliene frega niente" - notate il linguaggio, ricordate il "Me ne frego!" del  fascismo? - ma che i Diari lo commuovevano. A ognuno la sua ragione di commuoversi. Possiamo suggerirgli, per la prossima lettura, un altro falso, ancora più noto di questo, I protocolli dei Savi di Sion?  Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Le donne portano la Kasherut fuori dalla cucina di casa

KasherutLe ebree osservanti, le cuoche delle famiglie ortodosse, per lungo tempo hanno regnato sulle cucine kasher e rivestito il ruolo di supervisori informali per le loro famiglie e ospiti. Raramente, però, il ruolo di mashgiach (il supervisore di professione della produzione di prodotti kasher) viene loro affidato.
Eppure qualcosa sta cambiando. Per la prima volta, la Orthodox Union (OU) e la Star-K, due importanti organizzazioni di certificazione kasher, stanno offrendo corsi per sole donne sulla kasherut.
Nonostante l’assenza di divieti religiosi a riguardo, questi corsi, che hanno creato interrogativi e dibattiti all’interno dei gruppi religiosi, non prepareranno le donne al ruolo di mashgichot. In 25 si sono ritrovate a New York nelle scorse settimane per frequentare un corso avanzato di cinque giorni organizzato dall’OU. Il corso ha compreso visite guidate a cucine kasher industriali e lezioni finalizzate a dare “una panoramica comprensiva e dettagliata dell’intera industria kasher, inclusa la cucina di casa” ha dichiarato il Rabbino Yosef Grossman, direttore del dipartimento educazione dell’OU, la più grande organizzazione responsabile per la kasherut negli Stati Uniti.
Per la prima volta, durante l’autunno, Star-K offrirà un corso, della durata di due giorni, per “donne che hanno già esperienza nel campo della kasherut; sarà per loro un’opportunità per approfondire” ha detto Rabbi Mayer Kurcfeld, l’assistente al direttore della supervisione di Star-K. Il rabbino ha aggiunto che le donne sono circa il 20 per cento delle mashigot della sua organizzazione, impegnate a monitorare attività commerciali come i ristoranti e gli ospedali.
“La finalità del corso è che le donne si occupino di kasherut per le attività commerciali locali…Non affrontino laboriose discussioni halakike sull’origine di ogni regola. Non vogliamo che vadano in giro a dare sentenze halakike ma, piuttosto, che migliorino le loro capacità sul lavoro” ha spiegato Kurcfeld. Le donne così non ispezioneranno mattatoi, perché Star-K preferisce non mandare donne a lavorare nei mattatoi kasher o a supervisionare grandi stabilimenti.
L’OU offre due corsi per uomini, uno della durata di una settimana e l’altro, più approfondito, di tre settimane. Nessuno dei due corsi copre l’intero curriculum di studi che bisogna completare per diventare mashghiach, ma un’alta percentuale degli studenti finisce per diventare un supervisore di professione nella comunità di provenienza. Quando gli è stato chiesto se mai le donne potranno un giorno ricoprire questo ruolo, Grossman si è immediatamente rimesso al giudizio del suo superiore, Rabbi Moshe Elefant, il coordinatore rabbinico esecutivo e capo delle operazioni dell’OU, che ha detto al Forward: “Al momento non abbiamo nessuna donna in quel ruolo, ma ciò non vuole dire che non siano adatte o che la situazione non possa cambiare. Non siamo contrari all’idea di affidare a una donna questo incarico”.
Di sicuro ci sono donne interessate – come Ruth Greiter, chef di professione che adesso fa la mamma a tempo pieno e, di frequente, intrattiene numerosi ospiti. “Questo è solo l’inizio” dice a proposito del corso dell’OU “Spero che sia promettente”. Quando le chiediamo se s’iscriverebbe ad un corso per diventare mashgicha, risponde che “lo farebbe senza alcuna esitazione”. Un’altra partecipante, che preferisce rimanere anonima per timore che le sue dichiarazioni possano nuocere alla sua attività, dice, “La Kasherut è un universo molto maschile, e sarà molto interessante vedere se le donne potranno entrarci”. Alcune donne ortodosse sostengono di essere in effetti molto meglio preparate rispetto agli uomini per lavorare come supervisori, potendo contare sulla loro esperienza in cucina. “Ci sono sviste che un uomo può commettere perché non sa cosa cercare, perché non è stato allevato in cucina. Le mie figlie lo sanno istintivamente. Gli uomini lo devono imparare. Una donna lo sa già” sottolinea Greiter. Le sue compagne di corso lo hanno ribadito durante una lezione da Dougies Barbecue, un ristorante kasher nel quartiere ortodosso di Boro Park a Brooklyn.
Il gruppo di 25 partecipanti, gonne lunghe e le teste coperte, ascoltava attentamente mentre il coordinatore rabbinico Dov Schreier, seduto a capotavola, parlava loro delle sviste di uno dei mashghichim.
Una lo ha interrotto chiedendogli chi era quel supervisore, ma prima che il Rabbino potesse rispondere, due sue compagne - in coro - hanno commentato con convinzione “In questa occasione la presenza di una donna avrebbe fatto la differenza”.

Devra Ferst , The Forward, 25 settembre 2009
(versione italiana di Rocco Giansante)



A Lizzie Doron il Premio letterario Adei Wizo

lizzie doronQuest’anno alla premiazione che si terrà a Trieste del IX° Premio Letterario ADEI-WIZO "Adelina Della Pergola"  per il miglior romanzo di argomento ebraico pubblicato in Italia saranno presenti due degli autori che vanno a comporre la terzina vincente: Lizzie Doron (nella foto a fianco) con “Perché non sei venuta prima della guerra” vincitrice dell’edizione di quest’anno e Boris Zaidman classificatosi al terzo posto con il suo romanzo “Hemingway e la pioggia di uccelli morti”.
Lizzie Doron ha passato la sua infanzia in un quartiere della periferia sud di Tel Aviv, una comunità che parlava la lingua Yiddish, composta per la maggior parte da sopravvissuti alla Shoah. All’età di 18 anni, lasciò la casa natale per andare a vivere in un Kibbutz sulle alture del Golan, dove poter dimenticare quel mondo e l’inestinguibile tristezza degli uomini sopravvissuti alla tragedia.
Alla morte della madre la scrittrice decise di voler esplorare le origini della sua famiglia, da questa ricerca nacque il suo romanzo “Perché non sei venuta prima della guerra”, un percorso a ritroso nel tempo, alla ricerca di alcuni frammenti di vita. 
 Il romanzo, pubblicato per la prima volta in Israele nel 1998 e tradotto in italiano da Shulim Vogelmann nel 2004 per la collana “Israeliana” de La Giuntina, rappresenta un omaggio alla madre e ci dona un quadro esaustivo di una generazione che ha cercato in Israele la realizzazione di un sogno di  libertà, un insieme di esistenze spezzate dalle barbarie, di persone sopravvissute allo scempio, che giunte in Eretz Israel con un indicibile bagaglio di sofferenze sono riuscite a smettere di sopravvivere per tornare finalmente a vivere, come dice Elie Wiesel: “facendo nascere ancora bambini ebrei in un mondo che li voleva tutti morti”.
Boris Zaidman attraverso il suo romanzo d’esordio, ci mostra invece cosa voglia dire sentirsi e considerarsi un cittadino israeliano e allo stesso tempo provenire da un mondo diametralmente opposto per usi, costumi e storia: l’unione sovietica, con il suo bagaglio di cultura e sogni di grandezza, e nonostante tutto ancora inconsapevole delle sue innumerevoli contraddizioni.
“Hemingway e la pioggia di uccelli morti” è ambientato negli anni settanta e racconta di un tredicenne Anatoly Schneidermann la cui difficile vita in Unione Sovietica, che resa ancora pià complicata dal fatto di essere ebreo in un paese che non ha mai visto di buon grado gli ebrei, viene stravolta positivamente dalla decisione di lasciare la Moldavia per emigrare in Israele insieme ai membri rimanenti della sua famiglia  cambiando completamente stile di vita, lingua e generalità. Anatoly diventa Tal e Schneidermann diventa Shani, nome e cognome che meglio si adatteranno alla nuova esistenza che gli si prospetterà da lì in avanti.
Vent'anni dopo, Tal, trasformatosi ormai nel tipico trentenne in carriera della società bene israeliana - fa ritorno nell'ex Urss, invitato a partecipare nella sua città natale a una sorta di "Fiera della cultura israeliana",per parlare ai candidati all'emigrazione verso Israele e per persuadere quante più persone possibili a compiere l'aliah. Tal parte per promuovere la sua nuova patria e finisce per ritrovare quella dimenticata, la sua città, i propri ricordi e quel tredicenne che, bollato come "giudeo", sedeva in un minuscolo appartamento convinto che i tedeschi sarebbero arrivati da un momento all'altro per portarlo via, proprio come avevano fatto con suo nonno.
Hemingway nel romanzo non è semplicemente un referente letterario, ma è quasi un personaggio vero e proprio.  Il bambino, protagonista del libro aspetta una persona che deve tornare da un Gulag, nell’attesa si  concentra sul suo ritratto, sull’impronta mnemonica che ha serbato. Quell’immagine però  è il ritratto di Hemingway, autore che ama profondamente su cui il bambino proietta tutte le sue emozioni. Hemingway è anche uno dei pochi autori della letteratura americana che ha avuto una discreta diffusione nei paesi influenzati dall’establishment culturale sovietico. Un libro emozionante e allo stesso tempo ironico e struggente, tutto giocato sul rapporto antitetico tra sogni di grandezza e misera esistenza quotidiana.

Michael Calimani




sorgente di vitaGli ebrei del litorale e il dibattito sulla laicità

La recente sentenza del TAR del Lazio e la discussione sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche è uno dei temi della puntata: una riflessione sull’organizzazione dell’ora alternativa, sul rispetto dei diritti degli studenti, sui problemi degli insegnanti, sul tema della laicità della scuola con Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e Antonia Sani, coordinatrice della Associazione Nazionale per la scuola della Repubblica.
Nella puntata anche una cronaca della presentazione del progetto della nuova sinagoga di Ostia, con le voci delle autorità intervenute e di alcuni ebrei che vivono sul litorale; la manifestazione organizzata a Asti per la Giornata Europea con una passeggiata letteraria lungo le strade del ghetto e un'intervista a Gioele Dix con brani dello spettacolo “La Bibbia ha quasi sempre ragione” presentato al Castello Svevo di Trani in occasione di Negba, il festival di cultura ebraica.

La puntata di Sorgente di vita va in onda su RAIDUE lunedì 28 e martedì 29 settembre alle 1,20 circa e in replica lunedì 5 ottobre alle ore 9,30 del mattino.
I servizi di Sorgente di vita sono anche on line

p.d.s.
 


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Qui Tel Aviv - Il grande concerto di Leonard Cohen
 
 
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  the spiritFumetto - Racconti di guerra di Will Eisner

Nel 1942 Will Eisner viene arruolato. Aveva lasciato lo studio da lui fondato Eisner & Iger nel 1939 per una nuova avventura imprenditoriale e creativa e con alcuni fidati collaboratori aveva iniziato la produzione di nuovi fumetti, tra cui The Spirit. È inutile sottolineare i problemi organizzativi per uno studio creativo appena fondato. Eisner dalle varie basi militari dove si trovava gestiva lo studio, decideva le storie e così via. In quegli anni di servizio militare avviò anche, in modo totalmente rivoluzionario ed innovativo, un nuovo modo di informare e formare i soldati per la manutenzione dei mezzi e delle armi. Così Eisner racconta “L’esercito, più meccanizzato di quanto non fosse mai stato, era sensibile ai problemi di malfunzionamento delle attrezzature, dovuto in gran parte a negligenza e incuria. (...) Per me era ovvio che il fumetto sarebbe stato il modo migliore per pubblicare informazioni sulle riparazioni da effettuare sul campo e su come effettuarle da soli in condizioni di guerra”.  Nasce così Army Motors durante la Seconda Guerra Mondiale e dopo P.S. Magazine durante le guerre della Corea e del Vietnam. Durante quegli anni di servizio militare e di inviato come civile nelle discutibili guerre del teatro asiatico, Eisner raccoglie racconti, conosce uomini e racconta il modo con cui vengono mano tenuti i mezzi militari.
Nel 2000 Will Eisner pubblica Last day in Vietnam, in Italia pubblicato in questi giorni con il titolo Racconti di Guerra dalla Kappa Edizioni, editore anche della edizione italiana degli Archivi di The Spirit.

will eisnerLe storie che sono state ispirate dai viaggi di Eisner come inviato delle riviste di manutenzione hanno sempre un narratore che alza il sipario per il lettore. E’ spesso frequente nella narrazione di Eisner avere un tono o un passo narrativo quasi teatrale, e potremmo dire shakespiriano. Nel primo racconto, L’ultimo giorno in Vietnam si tratta di un ufficiale proprio nell’ultimo giorno di servizio, che viene incaricato di accompagnare il fumettista. Proprio mentre si scatena l’attacco vietnamita, Eisner disegna il dramma, ma anche la povertà umana, di quell’ufficiale che non sa quasi niente della guerra, se non recitare le mediocrità propagandistiche dell’esercito statunitense, presentate con tono e sarcasmo grafico tale da far emergere la follia di quella guerra. Anche gli altri narratori, un ragazzino vietnamita, un altro ufficiale statunitense in Corea, un soldato addetto alle salmerie, sono testimoni diretti, ecco perché parlano in prima persona al lettore, della follia della guerra, di essere un luogo dove emergono umanità bizzarre, drammatiche ed estreme.
Solo l’ultimo racconto non ha un narratore, Croce al merito per George, è la storia triste e sfortunata di un soldato che da ubriaco presentava sempre la domanda di trasferimento al fronte. Due sotto-ufficiali riescono sempre a far sparire quella follia, finché per una serie di circostanze, quel soldato, George, si trova a morire in Birmania.
Eisner racconta “Non posso parlare per i protagonisti di questa vicenda di cui fu testimone, ma per quanto mi riguarda non ha mai abbandonato la mia mente. Semplicemente non riesco a dimenticarla.” Leggetela per capire.
Racconti di guerra è semplicemente un altro tassello fondamentale della vita di un uomo dedicata a raccontare con i fumetti storie, storie di uomini. Sembrerà semplice o banale, ma allora perché ci riempie il cuore leggere i fumetti di Will Eisner?

Andrea Grilli

 
 
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rassegna stampa    
 
 
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La rassegna stampa di questo venerdì presenta pochi spunti di novità, poiché le notizie che vi sono riportate rimandano a eventi trascorsi o di rilevanza minore oppure - in ultimo - i cui effetti devono ancora essere concretamente misurati (o sono così ovvi da risultare anticipatamente prevedibili). Va in tal senso il mediocre, ancorché prevedibile, show di Mahomud Ahmadinejad, che dal palco dell’Assemblea delle Nazioni Unite ha tenuto una concione, l’ennesima, contro Israele. Ci raccontano i dettagli al riguardo Alessandra Baldini su il Mattino, Marco Valsania per il Sole 24 ore, Francesco Semprini per la Stampa, Luca Geronico per Avvenire e Vincenzo Nigro sulla Repubblica. Pur parlando davanti a una platea prontamente ridimensionatasi per l’occasione (i diplomatici di alcuni paesi, tra cui il nostro, avevano immediatamente levato le tende all’ingresso in sala del piccolo Cesare di Teheran) non ha mancato di insultare brutalmente Gerusalemme, indicata come responsabile di «politiche disumane contro i palestinesi». Si tratta di una espressione sotto la quale si cela la sua «odiosa e offensiva retorica antisemita», per usare le parole di biasimo della delegazione americana. Il caso del dispotico leader iraniano e del suo rutilante, ossessivo, defatigante ripetersi, è infatti un esempio da manuale sulla rinnovabilità dei cliché con i quali si costruisce la stigmatizzazione degli ebrei. Nulla di nuovo, come si diceva in esordio, se non che è l’antisemitismo medesimo a costituire un “evergreen”, una sorta di risentimento intramontabile, comodo per lanciare campagne mediatiche sotto le quali celare i propri effettivi intendimenti, come emerge dall’intervista di Francesco Cannatà a Evgeny Satanoskij per il Riformista. Non è di routine invece la notizia che ci racconta di come Barack Obama, nel suo iperattivismo diplomatico, dispiegato a tutto campo, sia riuscito a fare approvare all’unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’Onu una risoluzione che impegna l’Organizzazione a battersi per il superamento degli arsenali nucleari. Sul nuovo trend dell’amministrazione americana, e sulle sue sfaccettature politiche, ci forniscono ragguagli Giampiero Giacomello, sempre per il Riformista, ma anche Arturo Zampaglione su la Repubblica, Paolo Valentino per il Corriere della Sera, Fabio Nicolucci sul Mattino così come il Foglio e il Tempo. È certo che dietro questo affanno da parte americana ci sia il timore di una proliferazione incontrollata, tanto più pericolosa poiché tra gli impropri possessori, in un futuro oramai piuttosto vicino, potrebbero esserci anche alcune organizzazioni terroristiche. Ci siamo già occupati, e a più riprese, della crisi afghana. Temiamo ci toccherà doverci tornare sopra a breve, qualora le tensioni dovessero di nuovo produrre eventi drammatici. Oggi ce ne parla, sia pure indirettamente, Paolo Petrillo su il Riformista, commentando l’avvio delle operazioni di voto in Germania, sulle quali si stende l’ombra del terrorismo internazionale. L’attentato in cui sono rimasti vittime i sei militari italiani, nella settimana appena trascorsa, si inserisce in una strategia della escalation praticata dai ribelli talebani e condivisa, per cinico calcolo d’interesse, dai signorotti feudali che controllano, direttamente o indirettamente, buona parte delle province del paese. Di fatto le forze armate del nostro paese, in deroga alla medesima norma costituzionale, quell’articolo 11 che vieta tassativamente il ricorso alla via della guerra per la soluzione dei conflitti (laddove il primo comma recita: «l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»), si trovano in una condizione non dichiarata di belligeranza. La natura dell’avversario – le milizie fondamentaliste – fa sì che il confronto abbia assunto quei caratteri di guerra «asimmetrica» che da sempre contraddistingue la lotta tra due gruppi eterogenei, in questo caso i reparti del nostro esercito impegnati sul campo e i gruppi di ribelli, destinati questi ultimi in qualche modo a prevalere. La percezione maturata anche a seguito degli ultimi attentati è che le forze della Nato (così come i medesimi Stati Uniti, che proprio in questi giorni, per bocca del loro comandante, hanno esplicitato lo stato di difficoltà nel quale versa il contingente a stelle e strisce), si trovino a dovere svuotare l’oceano con un cucchiaino. L’inadeguatezza dell’impegno deriva dalla sua stessa natura, pensato com’è per fare fronte all’eventualità di un conflitto in campo aperto e non ad una spossante e interminabile guerra di guerriglia. La forza dei talebani – non meno che del pulviscolo di gruppi di insorgenti che si trova disseminato un po’ per tutto il paese, ancorché molti tra di loro siano in competizione reciproca – sta nella sua mobilità (elemento di natura tattica, che indica l’estrema flessibilità operativa delle unità armate composte dai ribelli) e nella continuità (fattore strategico, derivante dal controllo del territorio afghano, dal quale traggono con costanza le risorse per la loro sopravvivenza). Pensare ai talebani come a un gruppo omogeneo, mosso unicamente da una ideologia religiosa, ci aiuta allora a capire solo metà del problema, laddove questi sono portatori, oltre che di un fanatismo irrecuperabile, anche della titolarità di interessi specifici, a partire dal narcotraffico, del quale sono tra i maggiori esponenti. Insomma, la loro lotta non avrebbe retto all’azione militare alleata se dietro non ci fossero calcoli di natura economica che premiano non tanto i singoli combattenti quanto le loro leadership. Che comunque il problema della diffusione del fondamentalismo a matrice religiosa sia questione aperta, chiamando in causa anche paesi altrimenti insospettabili, come ad esempio l’Indonesia, ce lo ricorda Stefano Vecchia su l’Avvenire. Il quotidiano ci offre un inquietante spaccato della situazione corrente, dove anche da Giacarta e Giava arrivano segnali poco confortanti, indirizzati come sono nel senso della diffusione dell’ideologia del «martirio» attraverso l’indottrinamento dei più giovani. C’è di che pensare al riguardo poiché l’Indonesia è uno dei più grandi paesi musulmani al mondo che, fino a non molto tempo fa, era stato relativamente risparmiato dalle derive integraliste. Infine, per aiutare il lettore a riprendersi da questa piccola slavina di notizie non buone, ancorché di “conserva”, ci permettiamo di rimandare alla lettura dell’articolo di Titti Marrone sul Mattino, laddove l’autrice recensisce l’ultima opera di Philip Roth, il romanzo «Indignazione», da molti critici segnalato come un piccolo capolavoro, che fa seguito ad altre fatiche, come «Il lamento di Portnoy», già da tempo accolte e condivise dai lettori.
 
Claudio Vercelli

 
 
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Benyamin Netanyahu alle Nazioni Unite                                           Maariv: “Una serata di orgoglio nazionale”
Tel Aviv, 25 set -
Il commentatore Ben Caspit su Maariv l'ha definita: "Una serata di orgoglio nazionale e di fierezza". Un commentatore del Yadioth Ahronot ha affermato che ieri il premier "era al meglio". Questi alcuni fra i giudizi della stampa israeliana di oggi che plaudono al discorso del premier israeliano, Benyamin Netanyahu, alle Nazioni Unite in cui ha condannato il revisionismo storico del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, ha messo in guardia dai rischi di un Iran nucleare e ha chiesto l'archiviazione del Rapporto Goldstone, che accusa Israele di aver commesso crimini di guerra a Gaza. Ma non tutti sono dello stesso avviso. Haaretz si dissocia dalla maggioranza entusiasta e critica Netanyahu per aver ingaggiato con Ahmadinejad quella che al giornale sembra una battaglia inutile sulla fondatezza storica della Shoah. La pubblica esposizione di documenti nazisti è stata, secondo lo storico Tom Segev, "superflua e imbarazzante". Di tutto altro avviso Ben Caspit che su Maariv scrive: "Il premier ha strappato la maschera alle espressioni di ipocrisia mondiale che inizia con gli applausi ad Ahmadinejad e finisce nel Rapporto Goldstone". E ancora: “Il premier ha rappresentato quasi tutti noi, gli israeliani razionali, dal Meretz (sinistra sionista) fino a Beny Begin (destra del Likud)". Stessa posizione per Yedioth Aharont che giudica il discorso di Netanyahu "centrato e lucido” e afferma che il suo discorso “ha toccato tasti che i mezzi di comunicazione internazionali non possono ignorare".
 
 
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