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L'Unione informa |
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25 settembre 2009 - 7 Tishrì 5770 |
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alef/tav |
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Roberto Colombo, rabbino |
“Chi umilia pubblicamente una persona è come se la uccidesse e pertanto non ha parte nel mondo futuro” (Talmud).
Strano. Chi uccide materialmente non è escluso che possa entrare nel
mondo futuro mentre chi umilia ne è estromesso solo perché assomiglia a
un assassino. La differenza consiste nel fatto che chi uccide ha
maggiori possibilità di avere ripensamenti e rimorsi di colui che
mortifica in quanto nel secondo caso spesso non si comprende la gravità
dell’atto compiuto. E’ la capacità di teshuvà che determina
accettazione o il rifiuto di un ebreo davanti a Dio. (rav Wolbe)Chatimà Tovà |
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Che
violenza, razzismo, intolleranza diventino problemi trasversali, che
uniscono destra e sinistra, è giusto e importante. Così, ieri a Roma
trentamila persone, a partire dal sindaco Alemanno con Marrazzo,
Zingaretti e i rappresentanti di tutte le forze politiche, hanno
sfilato in una fiaccolata contro la violenza dilagante nella città,
contro gli attacchi sempre più frequenti ai gay, contro la
disgregazione sempre più rapida del tessuto sociale. Intanto, nel
centro sociale neofascista Casa Pound il senatore Dell'Utri faceva una
pubblica lettura dei "Diari" di Benito Mussolini.. Peccato che si
tratti di un falso clamoroso, di un bidone riconosciuto. Ma Dell'Utri
ha dichiarato che di questo "non gliene frega niente" - notate il
linguaggio, ricordate il "Me ne frego!" del fascismo? - ma che i
Diari lo commuovevano. A ognuno la sua ragione di commuoversi. Possiamo
suggerirgli, per la prossima lettura, un altro falso, ancora più noto
di questo, I protocolli dei Savi di Sion? |
Anna Foa,
storica |
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davar |
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Le donne portano la Kasherut fuori dalla cucina di casa
Le
ebree osservanti, le cuoche delle famiglie ortodosse, per lungo tempo
hanno regnato sulle cucine kasher e rivestito il ruolo di supervisori
informali per le loro famiglie e ospiti. Raramente, però, il ruolo di
mashgiach (il supervisore di professione della produzione di prodotti
kasher) viene loro affidato. Eppure qualcosa sta cambiando. Per la
prima volta, la Orthodox Union (OU) e la Star-K, due importanti
organizzazioni di certificazione kasher, stanno offrendo corsi per sole
donne sulla kasherut. Nonostante l’assenza di divieti religiosi a
riguardo, questi corsi, che hanno creato interrogativi e dibattiti
all’interno dei gruppi religiosi, non prepareranno le donne al ruolo di
mashgichot. In 25 si sono
ritrovate a New York nelle scorse settimane per frequentare un corso
avanzato di cinque giorni organizzato dall’OU. Il corso ha compreso
visite guidate a cucine kasher industriali e lezioni finalizzate a dare
“una panoramica comprensiva e dettagliata dell’intera industria kasher,
inclusa la cucina di casa” ha dichiarato il Rabbino Yosef Grossman,
direttore del dipartimento educazione dell’OU, la più grande
organizzazione responsabile per la kasherut negli Stati Uniti. Per
la prima volta, durante l’autunno, Star-K offrirà un corso, della
durata di due giorni, per “donne che hanno già esperienza nel campo
della kasherut; sarà per loro un’opportunità per approfondire” ha detto
Rabbi Mayer Kurcfeld, l’assistente al direttore della supervisione di
Star-K. Il rabbino ha aggiunto che le donne sono circa il 20 per cento
delle mashigot della sua organizzazione, impegnate a monitorare
attività commerciali come i ristoranti e gli ospedali. “La
finalità del corso è che le donne si occupino di kasherut per le
attività commerciali locali…Non affrontino laboriose discussioni
halakike sull’origine di ogni regola. Non vogliamo che vadano in giro a
dare sentenze halakike ma, piuttosto, che migliorino le loro capacità
sul lavoro” ha spiegato Kurcfeld. Le donne così non ispezioneranno
mattatoi, perché Star-K preferisce non mandare donne a lavorare nei
mattatoi kasher o a supervisionare grandi stabilimenti. L’OU offre
due corsi per uomini, uno della durata di una settimana e l’altro, più
approfondito, di tre settimane. Nessuno dei due corsi copre l’intero
curriculum di studi che bisogna completare per diventare mashghiach,
ma un’alta percentuale degli studenti finisce per diventare un
supervisore di professione nella comunità di provenienza. Quando gli è
stato chiesto se mai le donne potranno un giorno ricoprire questo
ruolo, Grossman si è immediatamente rimesso al giudizio del suo
superiore, Rabbi Moshe Elefant, il coordinatore rabbinico esecutivo e
capo delle operazioni dell’OU, che ha detto al Forward: “Al momento non
abbiamo nessuna donna in quel ruolo, ma ciò non vuole dire che non
siano adatte o che la situazione non possa cambiare. Non siamo contrari
all’idea di affidare a una donna questo incarico”. Di sicuro ci
sono donne interessate – come Ruth Greiter, chef di professione che
adesso fa la mamma a tempo pieno e, di frequente, intrattiene numerosi
ospiti. “Questo è solo l’inizio” dice a proposito del corso dell’OU
“Spero che sia promettente”. Quando le chiediamo se s’iscriverebbe ad
un corso per diventare mashgicha, risponde che “lo farebbe senza alcuna
esitazione”. Un’altra partecipante, che preferisce rimanere anonima per
timore che le sue dichiarazioni possano nuocere alla sua attività,
dice, “La Kasherut è un universo molto maschile, e sarà molto
interessante vedere se le donne potranno entrarci”. Alcune donne
ortodosse sostengono di essere in effetti molto meglio preparate
rispetto agli uomini per lavorare come supervisori, potendo contare
sulla loro esperienza in cucina. “Ci sono sviste che un uomo può
commettere perché non sa cosa cercare, perché non è stato allevato in
cucina. Le mie figlie lo sanno istintivamente. Gli uomini lo devono
imparare. Una donna lo sa già” sottolinea Greiter. Le sue compagne di
corso lo hanno ribadito durante una lezione da Dougies Barbecue, un
ristorante kasher nel quartiere ortodosso di Boro Park a Brooklyn. Il
gruppo di 25 partecipanti, gonne lunghe e le teste coperte, ascoltava
attentamente mentre il coordinatore rabbinico Dov Schreier, seduto a
capotavola, parlava loro delle sviste di uno dei mashghichim. Una
lo ha interrotto chiedendogli chi era quel supervisore, ma prima che il
Rabbino potesse rispondere, due sue compagne - in coro - hanno
commentato con convinzione “In questa occasione la presenza di una
donna avrebbe fatto la differenza”.
Devra Ferst , The Forward, 25 settembre 2009 (versione italiana di Rocco Giansante)
A Lizzie Doron il Premio letterario Adei Wizo
Quest’anno
alla premiazione che si terrà a Trieste del IX° Premio Letterario
ADEI-WIZO "Adelina Della Pergola" per il miglior romanzo di
argomento ebraico pubblicato in Italia saranno presenti due degli
autori che vanno a comporre la terzina vincente: Lizzie Doron (nella foto a fianco) con “Perché non sei venuta prima della guerra” vincitrice dell’edizione di quest’anno e Boris Zaidman classificatosi al terzo posto con il suo romanzo “Hemingway e la pioggia di uccelli morti”. Lizzie
Doron ha passato la sua infanzia in un quartiere della periferia sud di
Tel Aviv, una comunità che parlava la lingua Yiddish, composta per la
maggior parte da sopravvissuti alla Shoah. All’età di 18 anni, lasciò
la casa natale per andare a vivere in un Kibbutz sulle alture del
Golan, dove poter dimenticare quel mondo e l’inestinguibile tristezza
degli uomini sopravvissuti alla tragedia. Alla morte della madre
la scrittrice decise di voler esplorare le origini della sua famiglia,
da questa ricerca nacque il suo romanzo “Perché non sei venuta prima
della guerra”, un percorso a ritroso nel tempo, alla ricerca di alcuni
frammenti di vita. Il romanzo, pubblicato per la
prima volta in Israele nel 1998 e tradotto in italiano da Shulim
Vogelmann nel 2004 per la collana “Israeliana” de La Giuntina,
rappresenta un omaggio alla madre e ci dona un quadro esaustivo di una
generazione che ha cercato in Israele la realizzazione di un sogno
di libertà, un insieme di esistenze spezzate dalle barbarie, di
persone sopravvissute allo scempio, che giunte in Eretz Israel con un
indicibile bagaglio di sofferenze sono riuscite a smettere di
sopravvivere per tornare finalmente a vivere, come dice Elie Wiesel:
“facendo nascere ancora bambini ebrei in un mondo che li voleva tutti
morti”. Boris Zaidman attraverso il suo romanzo d’esordio, ci
mostra invece cosa voglia dire sentirsi e considerarsi un cittadino
israeliano e allo stesso tempo provenire da un mondo diametralmente
opposto per usi, costumi e storia: l’unione sovietica, con il suo
bagaglio di cultura e sogni di grandezza, e nonostante tutto
ancora inconsapevole delle sue innumerevoli contraddizioni. “Hemingway
e la pioggia di uccelli morti” è ambientato negli anni settanta e
racconta di un tredicenne Anatoly Schneidermann la cui difficile vita
in Unione Sovietica, che resa ancora pià complicata dal fatto di essere
ebreo in un paese che non ha mai visto di buon grado gli ebrei, viene
stravolta positivamente dalla decisione di lasciare la Moldavia per
emigrare in Israele insieme ai membri rimanenti della sua
famiglia cambiando completamente stile di vita, lingua e
generalità. Anatoly diventa Tal e Schneidermann diventa Shani, nome e
cognome che meglio si adatteranno alla nuova esistenza che gli si
prospetterà da lì in avanti. Vent'anni dopo, Tal, trasformatosi
ormai nel tipico trentenne in carriera della società bene israeliana -
fa ritorno nell'ex Urss, invitato a partecipare nella sua città natale
a una sorta di "Fiera della cultura israeliana",per parlare ai
candidati all'emigrazione verso Israele e per persuadere quante più
persone possibili a compiere l'aliah. Tal parte per promuovere la sua
nuova patria e finisce per ritrovare quella dimenticata, la sua città,
i propri ricordi e quel tredicenne che, bollato come "giudeo", sedeva
in un minuscolo appartamento convinto che i tedeschi sarebbero arrivati
da un momento all'altro per portarlo via, proprio come avevano fatto
con suo nonno. Hemingway nel romanzo non è semplicemente un
referente letterario, ma è quasi un personaggio vero e proprio.
Il bambino, protagonista del libro aspetta una persona che deve tornare
da un Gulag, nell’attesa si concentra sul suo ritratto,
sull’impronta mnemonica che ha serbato. Quell’immagine però è il
ritratto di Hemingway, autore che ama profondamente su cui il bambino
proietta tutte le sue emozioni. Hemingway è anche uno dei pochi autori
della letteratura americana che ha avuto una discreta diffusione nei
paesi influenzati dall’establishment culturale sovietico. Un libro
emozionante e allo stesso tempo ironico e struggente, tutto giocato sul
rapporto antitetico tra sogni di grandezza e misera esistenza
quotidiana.
Michael Calimani
Gli ebrei del litorale e il dibattito sulla laicità
La
recente sentenza del TAR del Lazio e la discussione sull’insegnamento
della religione cattolica nelle scuole pubbliche è uno dei temi della
puntata: una riflessione sull’organizzazione dell’ora alternativa, sul
rispetto dei diritti degli studenti, sui problemi degli insegnanti, sul
tema della laicità della scuola con Renzo Gattegna, Presidente
dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e Antonia Sani,
coordinatrice della Associazione Nazionale per la scuola della
Repubblica. Nella puntata anche una cronaca della presentazione
del progetto della nuova sinagoga di Ostia, con le voci delle autorità
intervenute e di alcuni ebrei che vivono sul litorale; la
manifestazione organizzata a Asti per la Giornata Europea con una
passeggiata letteraria lungo le strade del ghetto e un'intervista a
Gioele Dix con brani dello spettacolo “La Bibbia ha quasi sempre
ragione” presentato al Castello Svevo di Trani in occasione di Negba,
il festival di cultura ebraica.
La
puntata di Sorgente di vita va in onda su RAIDUE lunedì 28 e martedì 29
settembre alle 1,20 circa e in replica lunedì 5 ottobre alle ore 9,30
del mattino. I servizi di Sorgente di vita sono anche on line
p.d.s.
 Qui Tel Aviv - Il grande concerto di Leonard Cohen
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Fumetto - Racconti di guerra di Will Eisner
Nel
1942 Will Eisner viene arruolato. Aveva lasciato lo studio da lui
fondato Eisner & Iger nel 1939 per una nuova avventura
imprenditoriale e creativa e con alcuni fidati collaboratori aveva
iniziato la produzione di nuovi fumetti, tra cui The Spirit. È inutile
sottolineare i problemi organizzativi per uno studio creativo appena
fondato. Eisner dalle varie basi militari dove si trovava gestiva lo
studio, decideva le storie e così via. In quegli anni di servizio
militare avviò anche, in modo totalmente rivoluzionario ed innovativo,
un nuovo modo di informare e formare i soldati per la manutenzione dei
mezzi e delle armi. Così Eisner racconta “L’esercito, più meccanizzato
di quanto non fosse mai stato, era sensibile ai problemi di
malfunzionamento delle attrezzature, dovuto in gran parte a negligenza
e incuria. (...) Per me era ovvio che il fumetto sarebbe stato il modo
migliore per pubblicare informazioni sulle riparazioni da effettuare
sul campo e su come effettuarle da soli in condizioni di guerra”.
Nasce così Army Motors durante la Seconda Guerra Mondiale e dopo P.S.
Magazine durante le guerre della Corea e del Vietnam. Durante quegli
anni di servizio militare e di inviato come civile nelle discutibili
guerre del teatro asiatico, Eisner raccoglie racconti, conosce uomini e
racconta il modo con cui vengono mano tenuti i mezzi militari. Nel
2000 Will Eisner pubblica Last day in Vietnam, in Italia pubblicato in
questi giorni con il titolo Racconti di Guerra dalla Kappa Edizioni,
editore anche della edizione italiana degli Archivi di The Spirit.
Le
storie che sono state ispirate dai viaggi di Eisner come inviato delle
riviste di manutenzione hanno sempre un narratore che alza il sipario
per il lettore. E’ spesso frequente nella narrazione di Eisner avere un
tono o un passo narrativo quasi teatrale, e potremmo dire
shakespiriano. Nel primo racconto, L’ultimo giorno in Vietnam si tratta
di un ufficiale proprio nell’ultimo giorno di servizio, che viene
incaricato di accompagnare il fumettista. Proprio mentre si scatena
l’attacco vietnamita, Eisner disegna il dramma, ma anche la povertà
umana, di quell’ufficiale che non sa quasi niente della guerra, se non
recitare le mediocrità propagandistiche dell’esercito statunitense,
presentate con tono e sarcasmo grafico tale da far emergere la follia
di quella guerra. Anche gli altri narratori, un ragazzino vietnamita,
un altro ufficiale statunitense in Corea, un soldato addetto alle
salmerie, sono testimoni diretti, ecco perché parlano in prima persona
al lettore, della follia della guerra, di essere un luogo dove emergono
umanità bizzarre, drammatiche ed estreme. Solo l’ultimo racconto
non ha un narratore, Croce al merito per George, è la storia triste e
sfortunata di un soldato che da ubriaco presentava sempre la domanda di
trasferimento al fronte. Due sotto-ufficiali riescono sempre a far
sparire quella follia, finché per una serie di circostanze, quel
soldato, George, si trova a morire in Birmania. Eisner racconta
“Non posso parlare per i protagonisti di questa vicenda di cui fu
testimone, ma per quanto mi riguarda non ha mai abbandonato la mia
mente. Semplicemente non riesco a dimenticarla.” Leggetela per capire. Racconti
di guerra è semplicemente un altro tassello fondamentale della vita di
un uomo dedicata a raccontare con i fumetti storie, storie di uomini.
Sembrerà semplice o banale, ma allora perché ci riempie il cuore
leggere i fumetti di Will Eisner?
Andrea Grilli
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rassegna stampa |
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La
rassegna stampa di questo venerdì presenta pochi spunti di novità,
poiché le notizie che vi sono riportate rimandano a eventi trascorsi o
di rilevanza minore oppure - in ultimo - i cui effetti devono ancora
essere concretamente misurati (o sono così ovvi da risultare
anticipatamente prevedibili). Va in tal senso il mediocre, ancorché
prevedibile, show di Mahomud Ahmadinejad, che dal palco dell’Assemblea
delle Nazioni Unite ha tenuto una concione, l’ennesima, contro Israele.
Ci raccontano i dettagli al riguardo Alessandra Baldini su il Mattino, Marco Valsania per il Sole 24 ore, Francesco Semprini per la Stampa, Luca Geronico per Avvenire e Vincenzo Nigro sulla Repubblica.
Pur parlando davanti a una platea prontamente ridimensionatasi per
l’occasione (i diplomatici di alcuni paesi, tra cui il nostro, avevano
immediatamente levato le tende all’ingresso in sala del piccolo Cesare
di Teheran) non ha mancato di insultare brutalmente Gerusalemme,
indicata come responsabile di «politiche disumane contro i
palestinesi». Si tratta di una espressione sotto la quale si cela la
sua «odiosa e offensiva retorica antisemita», per usare le parole di
biasimo della delegazione americana. Il caso del dispotico leader
iraniano e del suo rutilante, ossessivo, defatigante ripetersi, è
infatti un esempio da manuale sulla rinnovabilità dei cliché con i
quali si costruisce la stigmatizzazione degli ebrei. Nulla di nuovo,
come si diceva in esordio, se non che è l’antisemitismo medesimo a
costituire un “evergreen”, una sorta di risentimento intramontabile,
comodo per lanciare campagne mediatiche sotto le quali celare i propri
effettivi intendimenti, come emerge dall’intervista di Francesco
Cannatà a Evgeny Satanoskij per il Riformista.
Non è di routine invece la notizia che ci racconta di come Barack
Obama, nel suo iperattivismo diplomatico, dispiegato a tutto campo, sia
riuscito a fare approvare all’unanimità dal Consiglio di sicurezza
dell’Onu una risoluzione che impegna l’Organizzazione a battersi per il
superamento degli arsenali nucleari. Sul nuovo trend
dell’amministrazione americana, e sulle sue sfaccettature politiche, ci
forniscono ragguagli Giampiero Giacomello, sempre per il Riformista, ma anche Arturo Zampaglione su la Repubblica, Paolo Valentino per il Corriere della Sera, Fabio Nicolucci sul Mattino così come il Foglio e il Tempo. È
certo che dietro questo affanno da parte americana ci sia il timore di
una proliferazione incontrollata, tanto più pericolosa poiché tra gli
impropri possessori, in un futuro oramai piuttosto
vicino, potrebbero esserci anche alcune organizzazioni
terroristiche. Ci siamo già occupati, e a più riprese, della crisi
afghana. Temiamo ci toccherà doverci tornare sopra a breve, qualora le
tensioni dovessero di nuovo produrre eventi drammatici. Oggi ce ne
parla, sia pure indirettamente, Paolo Petrillo su il Riformista,
commentando l’avvio delle operazioni di voto in Germania, sulle quali
si stende l’ombra del terrorismo internazionale. L’attentato in cui
sono rimasti vittime i sei militari italiani, nella settimana appena
trascorsa, si inserisce in una strategia della escalation praticata dai
ribelli talebani e condivisa, per cinico calcolo d’interesse, dai
signorotti feudali che controllano, direttamente o indirettamente,
buona parte delle province del paese. Di fatto le forze armate del
nostro paese, in deroga alla medesima norma costituzionale,
quell’articolo 11 che vieta tassativamente il ricorso alla via della
guerra per la soluzione dei conflitti (laddove il primo comma recita:
«l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli
altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali»), si trovano in una condizione non dichiarata di
belligeranza. La natura dell’avversario – le milizie fondamentaliste –
fa sì che il confronto abbia assunto quei caratteri di guerra
«asimmetrica» che da sempre contraddistingue la lotta tra due gruppi
eterogenei, in questo caso i reparti del nostro esercito impegnati sul
campo e i gruppi di ribelli, destinati questi ultimi in qualche modo a
prevalere. La percezione maturata anche a seguito degli ultimi
attentati è che le forze della Nato (così come i medesimi Stati Uniti,
che proprio in questi giorni, per bocca del loro comandante, hanno
esplicitato lo stato di difficoltà nel quale versa il contingente a
stelle e strisce), si trovino a dovere svuotare l’oceano con un
cucchiaino. L’inadeguatezza dell’impegno deriva dalla sua stessa
natura, pensato com’è per fare fronte all’eventualità di un conflitto
in campo aperto e non ad una spossante e interminabile guerra di
guerriglia. La forza dei talebani – non meno che del pulviscolo di
gruppi di insorgenti che si trova disseminato un po’ per tutto il
paese, ancorché molti tra di loro siano in competizione reciproca – sta
nella sua mobilità (elemento di natura tattica, che indica l’estrema
flessibilità operativa delle unità armate composte dai ribelli) e nella
continuità (fattore strategico, derivante dal controllo del territorio
afghano, dal quale traggono con costanza le risorse per la loro
sopravvivenza). Pensare ai talebani come a un gruppo omogeneo, mosso
unicamente da una ideologia religiosa, ci aiuta allora a capire solo
metà del problema, laddove questi sono portatori, oltre che di un
fanatismo irrecuperabile, anche della titolarità di interessi
specifici, a partire dal narcotraffico, del quale sono tra i maggiori
esponenti. Insomma, la loro lotta non avrebbe retto all’azione militare
alleata se dietro non ci fossero calcoli di natura economica che
premiano non tanto i singoli combattenti quanto le loro leadership. Che
comunque il problema della diffusione del fondamentalismo a matrice
religiosa sia questione aperta, chiamando in causa anche paesi
altrimenti insospettabili, come ad esempio l’Indonesia, ce lo ricorda
Stefano Vecchia su l’Avvenire.
Il quotidiano ci offre un inquietante spaccato della situazione
corrente, dove anche da Giacarta e Giava arrivano segnali poco
confortanti, indirizzati come sono nel senso della diffusione
dell’ideologia del «martirio» attraverso l’indottrinamento dei più
giovani. C’è di che pensare al riguardo poiché l’Indonesia è uno dei
più grandi paesi musulmani al mondo che, fino a non molto tempo fa, era
stato relativamente risparmiato dalle derive integraliste. Infine, per
aiutare il lettore a riprendersi da questa piccola slavina di notizie
non buone, ancorché di “conserva”, ci permettiamo di rimandare alla
lettura dell’articolo di Titti Marrone sul Mattino,
laddove l’autrice recensisce l’ultima opera di Philip Roth, il romanzo
«Indignazione», da molti critici segnalato come un piccolo capolavoro,
che fa seguito ad altre fatiche, come «Il lamento di Portnoy», già da
tempo accolte e condivise dai lettori. Claudio Vercelli
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notizieflash |
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Benyamin
Netanyahu alle Nazioni Unite
Maariv: “Una serata di orgoglio
nazionale” Tel Aviv, 25 set - Il
commentatore Ben Caspit su Maariv l'ha definita: "Una serata di
orgoglio nazionale e di fierezza". Un commentatore del Yadioth Ahronot
ha affermato che ieri il premier "era al meglio". Questi alcuni fra i
giudizi della stampa israeliana di oggi che plaudono al discorso del
premier israeliano, Benyamin Netanyahu, alle Nazioni Unite in cui ha
condannato il revisionismo storico del presidente iraniano Mahmud
Ahmadinejad, ha messo in guardia dai rischi di un Iran nucleare e ha
chiesto l'archiviazione del Rapporto Goldstone, che accusa Israele di
aver commesso crimini di guerra a Gaza. Ma non tutti sono dello stesso
avviso. Haaretz si dissocia dalla maggioranza entusiasta e critica
Netanyahu per aver ingaggiato con Ahmadinejad quella che al giornale
sembra una battaglia inutile sulla fondatezza storica della Shoah. La
pubblica esposizione di documenti nazisti è stata, secondo lo storico
Tom Segev, "superflua e imbarazzante". Di tutto altro avviso Ben Caspit
che su Maariv scrive: "Il premier ha strappato la maschera alle
espressioni di ipocrisia mondiale che inizia con gli applausi ad
Ahmadinejad e finisce nel Rapporto Goldstone". E ancora: “Il premier ha
rappresentato quasi tutti noi, gli israeliani razionali, dal Meretz
(sinistra sionista) fino a Beny Begin (destra del Likud)". Stessa
posizione per Yedioth Aharont che giudica il discorso di Netanyahu
"centrato e lucido” e afferma che il suo discorso “ha toccato tasti che
i mezzi di comunicazione internazionali non possono ignorare". |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
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offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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