Qui Tel Aviv – Il grande concerto di Leonard Cohen

E’ finito come a Venezia, lo scorso tre agosto in piazza San Marco, in una serata tiepida ma graziata dalla pioggia che aveva smesso di cadere solo pochi minuti prima dell’inizio del concerto. Leonard Cohen (nell’immagine) – quasi tre ore dopo aver salito in perfetto orario il palco e dato inizio alla festa con una delle sue canzoni più romantiche, “Dance Me To The End Of Love” – benedice in ebraico il pubblico, recitando una versione abbreviata della Birkat ha Kohanim.

Più di cinquantamila persone non possono trattenere l’emozione: il silenzio che accoglie la benedizione, e l’applauso che saluta l’uscita dei musicisti è più di una forma di ringraziamento, è una adesione.

Lo stadio di Ramat Gan a Tel Aviv era andato esaurito in mezza giornata quando, pochi mesi fa – dopo annunci e smentite, petizioni sulla Rete, controversie e dichiarazioni avventate – erano stati messi in vendita i biglietti. La decisione di Cohen di “non voler portar fuori dal Paese un singolo sheckel guadagnato dal concerto”, e di voler devolvere dunque l’incasso a un Fondo costituito per l’occasione “impegnato a spendere le proprie attività a sostegno delle famiglie israeliane e palestinesi che hanno pagato un prezzo personale al conflitto in corso, e rifiutano di abbandonare la speranza di una riconciliazione” – come si legge nello statuto dell’organizzazione – aveva sollevato le immaginabili polemiche. E anche un tentativo di boicottaggio che la stampa ha enfatizzato maliziosamente, ma che si è rivelato di nessuna importanza.

Chi volesse saperne di più può ricorrere all’ottimo articolo di Ben Jacobson, sul Jerusalem Post del 21 settembre, “Nothing on his tongue but ‘Hallelujah’ ”, che ricostruisce con completezza il percorso politico e spirituale del poeta ebreo canadese Leonard Cohen, cantante “dalla voce d’oro” per forza maggiore, uomo di carnali e spirituali amori, poeta vero, insomma.

Resta solo da aggiungere, per la cronaca, che poco prima del concerto il Fund For Reconciliation, Tolerance and Peace ha tenuto una breve conferenza stampa di presentazione della propria attività. Lo scrittore David Grosmann (nell’immagine a fianco) ha sostenuto con la sua nota ferma gentilezza le ragioni di un tale proposito, e ringraziato chi lo aveva voluto e sostenuto ( oltre a Cohen hanno aderito il suo Manager Robert Kory, la AEG Live e la Sony Music ).

Il resto – il tutto – è stato musica, è stato parola.

Visione estatica e durezza , amor carnale e spirituale, socialismi ed egoismi… I temi dei testi di Cohen sembrano contraddittori, talvolta. In realtà sono consapevoli. Come sa il Saggio, ma non il Sapiente, anche Leonard Cohen sa – e accetta in sé quanto in chiunque Altro – che ogni momento ha la sua verità, e che le umane esperienze individuali e sociali spesso confliggono con le leggi e la morale comune.

Non una lezione dalla cattedra, dunque, è la sua poetica, ma piuttosto una ispirata serie di esempi in forma di racconto, quasi un’haggadah moderna narrata in musica semplice e coinvolgente, che non ha paura di servirsi delle forme tradizionali della ballata, del blues o del walzer.

Come nell’incantevole “Take This Waltz “, canzone d’amore disperato la cui voluttuosa e straniante atmosfera hispanico-viennese pare sollevare l’intero stadio di Ramat Gan in un giro di walzer collettivo. Pare accada come racconta Alejandro Jodorowsky nel suo “ Quando Teresa si arrabbiò con Dio “ (Feltrinelli ) : il fervore della preghiera del venerdì sera – cantata dagli ebrei veneziani del medioevo – sollevava il Tempio nel Ghetto e lo trasportava – letteralmente – a Gerusalemme.

O come nella stranota “Halleluiah”, non la sua migliore ma certamente una delle sue più interpretate canzoni, che sin dal principio cita quel “segreto accordo che David sapeva suonare per compiacere il Signore”, ma che ben presto diventa una struggente canzone d’amor profano, una specie di versione libera e moderna del Cantico dei Cantici.

E si potrebbe continuare. In molte (in tutte?) le opere poetiche, artistiche e musicali di Leonard Cohen si possono trovare tracce della sua ebraicità. Questo fa di Cohen “il più ebreo dei cantanti di oggi? “ come si è chiesta ( sollevando una babele di commenti – fra il compilatorio, il divertito e lo sdegnato) una trasmissione radiofonica disponibile in podcast curata dal The Guardian. “Sound Jewish” è sin dal titolo una provocazione, ma stavolta la domanda non era oziosa. Secondo me la vita e le opere di Leonard Cohen sono ebraiche nella espressione, nelle citazioni, nei riferimenti. Non potrebbe esser diverso, vista la sua formazione giovanile a Montreal, le letture, gli studi. Ma sbaglierebbe chi definisse soltanto ebraiche le sue tematiche, il suo approccio spirituale ed etico, la sua aspirazione più intima. Oserei dire, augurandomi – e soprattutto in questi giorni! – di non offendere alcuno, che ciò che Leonard Cohen rappresenta nelle sue canzoni è l’immagine di come ogni essere umano vorrebbe essere, ma spesso non può, non sa essere: in questo senso di consapevolezza oltre ogni limite, e di accettazione culturale di una elezione che è soprattutto responsabilità sta, secondo me, una delle principali ragioni dell’ebraismo. E Cohen questo è: un uomo, nato e cresciuto ebreo, che onora la vita di ogni essere umano. Ascoltate bene “Anthem” , ( il cd e dvd “Live in London” lo permette anche a chi non ha avuto il piacere e l’emozione di ascoltarlo di persona): la ferita cui allude – e attraverso la quale passa la luce – è esperienza comune, indistinguibile fra individui, nazionalità, religioni o razze. Che Cohen, dunque, sia un artista nato e cresciuto nell’ebraismo è ragione di ispirazione più che di vanto, e senza dimenticare che essere incompresi è la paga di ogni coraggio, da principio.

Dopotutto, per tornare al Concerto di Tel Aviv, non sarà senza ragione che Leonard Cohen ha voluto si chiamasse “How the light gets in” il Fondo cui sono andati i vari milioni di dollari che il concerto di ieri sera ha incassato.

La scaletta è stata senza sorprese per i ben informati spettatori, che cantavano quasi ogni verso, spesso anticipandolo. Gente di ogni età, più giovani di quanti ne abbia visti a Venezia, e molte donne la cui evidente espressione del volto tradiva la seduzione che, ancora oggi a 75 anni appena compiuti, questo “vecchio amante mascherato” sa produrre.

Non sono mancati i successi eclatanti come “Suzanne”, “First We Take Manhattan” ( nel corso della quale le luci verdi fluorescenti ritmavano ogni battuta come creste di onde illuminate sul mare nero del pubblico nello stadio ), “ I’m Your Man “ ( il sogno di ogni amato, la vana promessa di ogni amante ), “Marianne” ( cantata tutta a squarciagola anche da chi, come me ma non ero l’unico, è alquanto stonato ), “Bird On A Wire… Ma anche altre meno eseguite, più discrete canzoni, come “Famous Blue Raincot” ( dietro a me una ragazza si abbracciava da sola, dondolando e piangendo, pensando – chissà? – ai suoi abbandoni, alle sue storie d’amore perfette perché mancate ), o come “Chelsea Hotel”, che ogni volta che la ascolto mi pare faccia giustizia dell’immagine estrema e popolare di Janis Joplin, cui è ispirata…

Insomma, gran bel concerto, speciale sempre e più speciale ancora qui, dove certe allusioni non hanno bisogno di venir spiegate, dove di ferite e coraggio, di sofferenza e determinazione, di verde strappato al deserto e di innovazione scientifica, di miracoli cui non si può non credere si vive ogni giorno da 5770 anni…

La sola barriera possibile, quella linguistica, è stata superata (ma non credo ce ne fosse poi tanto bisogno, è stata una delicatezza di Cohen) con i sottotitoli che traducevano le canzoni in inglese sugli schermi giganti che hanno reso possibile una perfetta visione anche ai più lontani dal palcoscenico. Suono eccellente, come promesso.

E’ finito con una benedizione, quella che un Cohen può dare, ma che Leonard Cohen non aveva mai dato prima, tranne che a Venezia (mi sono documentato: c’è una rete di appassionati Coheniani che lo segue sistematicamente e non risultano altre occasioni): mi piace pensare che questo unisca il mio Paese natale e quello spirituale, se non altro per il fatto che è stato il Concerto di Cohen a portare il vostro cronista improvvisato in Israele per la prima volta in 55 anni…

C’è un Tempo per… – sapete a cosa alludo.

Scrivo queste note a Tel Aviv, ho passato fantastici emozionanti giorni a Gerusalemme, su a Sde Elyyahu dai miei carissimi zii Nurit e Giovannino (nell’immagine), tra poco parto per il Negev…

Ma queste sono altre storie, anzi no: è la stessa storia in altre forme. Una sorta di ritorno a casa, in una casa che non si sapeva di aver abitato già solo perché si stava altrove.

Valerio Fiandra