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L'Unione informa
 
    25 giugno 2010 - 13 Tamuz 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  roberto colombo Roberto Colombo,
rabbino 
Rav Di Segni nella newsletter di lunedì scorso ha parlato della fine della Parashà di Balàk e del popolo pronto a unirsi con le donne non ebree di Moav. Figura centrale di quell’episodio è Zimrì, il capo della tribù di Shimòn, il quale, nel corso della rivolta scoppiata in seno ad Israele, presenta una principessa midianita a Moshè e agli anziani del tribunale per poi unirsi a lei pubblicamente. Rabbì Moshè Borenshtein, nella sua opera Shem Mishmuèl, ritiene che Zimrì sia stato spinto sicuramente da buone intenzioni. Se gli ebrei si sposano con donne non ebree, per Zimrì, la soluzione è quella di portare la donna dal Capo Rabbino Moshè e dal suo Tribunale per chiederne la conversione d’ufficio. I figli nati saranno così ebrei, anche se con un’identità un tantino debole, e gli iscritti alla Comunità d’Israele aumenteranno di numero. Idea grandiosa. Peccato che i 24000 ebrei che seguirono questa teoria in poco tempo scomparvero dal popolo ebraico. 
Buonsenso e nozioni apprese nei corsi di psicologia spesso inducono gli insegnanti a pensare che i problemi famigliari di uno studente siano i veri distrattori dai quali originano i suoi  problemi attentivi a loro volta generatori di scarsi risultati scolastici. A fronte di tali situazioni i docenti, sensibili e appassionati decidono di fare del loro meglio per alleviare le carenze affettive degli allievi dedicando loro il massimo grado di attenzione e cercando di aiutarli in ogni modo. Ma tali scelte talvolta perpetuano i problemi anziché attenuarli e, in sede di scrutini e di valutazioni finali, il “come prima, più di prima” esprime tutta la frustrazione dei docenti accompagnata da una lunga disamina delle ragioni per cui allievo e  insegnante siano imprigionati in una situazione che ha prodotto effetti negativi. In tali contesti gli esperti della teoria del cambiamento suggeriscono uno spostamento verso ciò che apparentemente vìola il  senso comune: un pizzico di benefica disattenzione trattando l’allievo più o meno come gli altri scolari e una riflessione circoscritta al cosa sta accadendo a scuola e non al perché della dinamica relazionale dal momento che, come scrive  Wittengstein: “d’una risposta che non si può formulare non può formularsi neppure una domanda”.     Sonia
Brunetti Luzzati,

pedagogista
sonia brunetti  
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  Libertà per Gilad - Roma capitale della pace e dei diritti umani

RomaA poche centinaia di metri l’Arco di Tito, simbolo di sottomissione del popolo ebraico alla Roma imperiale. Di fronte il Colosseo, monumento per eccellenza di un mondo in cui uomini privi di diritti combattevano per il piacere e il sollazzo di barbari istruiti. A distanza di due millenni, una moltitudine di cittadini liberi chiede a gran voce la liberazione di un giovane soldato israeliano prigioniero da quattro anni di Hamas. Bandiere, striscioni e cori: il popolo di Gilad Shalit, insieme alle massime autorità nazionali, cittadine e regionali raccoglie l’invito di Ugei e Benè Berith a radunarsi in quel magnifico scorcio della Capitale. Alle undici si spegneranno le luci del Colosseo e Roma non dimenticherà il suo concittadino Shalit. Il presidente del Benè Berith e consigliere UCEI Sandro Di Castro introduce gli interventi.

PipernoGiuseppe Piperno, presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia, ricorda ai presenti perché è importante esserci: “Il motivo per cui noi oggi, giovani ebrei d’Italia, siamo qui a manifestare per Gilad non risiede solo nel nostro amore incondizionato per Israele. Siamo qua perché sostenere la causa di Gilad vuol dire sostenere il percorso verso la pace. Perché nel sostenere Gilad noi confermiamo il senso di giustizia che è vivo nelle nostre coscienze di ebrei e di italiani, che risiede nella tradizione della cultura ebraica e allo stesso tempo nella storia del Risorgimento italiano”. Angelo Moscati, presidente del Benè Berith Giovani, dà un segno ulteriore del grande impegno dimostrato dai ragazzi ebrei italiani nella causa di liberazione del soldato Shalit, annunciando la nomina di Gilad a presidente onorario della sezione Stefano Gay Tachè del Benè Berith. Con la speranza che non ci si fermi qua: “Porgo un invito a tutti i movimenti e le associazioni stasera presenti, a iniziare da quelle ebraiche, a prendere coraggio e a fare lo stesso. Affinché in ogni sede, in ogni conferenza, in ogni piazza, di notte e di giorno il modo possa ricordare che al giovane israeliano è negato ogni diritto”. Lorenzo Cesa, segretario Udc, sospira: “Gilad potrebbe essere mio figlio”. Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, cita il Talmud: gli ebrei, vittime di sanzioni sempre più pesanti, si rivolgono a una matrona che fornisce loro la ricetta per risolvere il problema. “Andate a dimostrare di notte sotto le case dei potenti”. E le dimostrazioni, adesso come allora, hanno funzionato: ieri sera i potenti erano con il popolo ebraico.

PacificiIntense le parole di Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma: “I nostri Maestri ci insegnano il valore della vita e questa manifestazione è un meraviglioso inno alla vita”. Segue un messaggio diretto agli assenti. “Facciamoli i nomi e i cognomi di chi non è qua stasera. Dov'è Emergency? Dov'è Amnesty International?”, urla il leader degli ebrei romani e la folla si scalda. Bar Sade, ministro plenipotenziario dell’ambasciata israeliana a Roma, riferisce della prossima manifestazione in sostegno di Shalit: i suoi familiari marceranno dal nord di Israele fino a Gerusalemme, dove si accamperanno fino alla sua liberazione. Sale sul palco Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma e fresco vincitore della Menorah d’Oro assegnatagli dal Benè Berith. È esplicito: “Nessuno faccia finta di non vedere, di non sapere e di non capire, nessuno osi dimenticare Gilad perché noi non lo dimenticheremo”. E ricorda che con la diffusione nelle scuole di Quando il pesciolino e lo squalo s’incontrarono per la prima volta (favola scritta da Gilad in tenera età), “il suo esempio contamina migliaia di studenti”. Renata Polverini, presidente della Regione Lazio, spiega che mentre si avvicinava al palco molte persone le hanno fatto i complimenti. Ma non è questa la serata per gli elogi: “Stasera non meritiamo ringraziamenti, siamo qui perché parliamo di un ragazzo a cui è stata strappata la vita”. Il ministro Andrea Ronchi confessa: “Dopo tanti anni mi sono commosso”.
Si affaccia anche il direttore del quotidiano Il Foglio Giuliano Ferrara, grande amico di Israele e della comunità ebraica. Ha una proposta che fa il verso ai cosiddetti pacifinti: “Dovremmo prendere una nave, chiamarla Gilad Shalit, imbarcarci rigorosamente disarmati, sbarcare a Gaza e chiedere dov’è Gilad”. Prende il microfono Gianni Alemanno, sindaco di Roma. “Sono ancora una volta i giovani a richiamarci al nostro dovere”, dice. Alemanno, che nel giugno scorso ha conferito la cittadinanza onoraria della Capitale a Gilad spiega che il suo impegno e quello della città che amministra non sono solo un segnale forte a chi di dovere “ma anche un modo per rendere Roma più giusta e degna”. Poi tuona: “Da quando abbiamo appeso una suo foto in Campidoglio gli ipocriti stanno lontano da quella piazza”. Arrivano le undici, giù le luci: viene illuminata la foto di Gilad e il suo urlo accompagna attimi di intense emozioni. Con il Colosseo a luci spente, è proiettato anche un filmato girato dai bambini delle scuole romane. Torna la luce, la gente canta HaTikwa e Fratelli d’Italia. Poi tutto finisce, con la speranza che non ci sia più bisogno di manifestazioni per chiedere la liberazione di un ragazzo che da quattro anni non distingue il giorno dalla notte.


Adam Smulevich


Libertà per Gilad - Le parole di Noam Shalit

moment

Leggi il discorso del padre di Gilad sul Portale dell'ebraismo italiano moked.it






Libertà per Gilad - Milano risponde all'appello

Qui Milano“La prossima volta che verremo in piazza per lui, Gilad Shalit sarà in libertà. La prossima volta dovrà essere una festa. Per questo siamo qui stasera”. È il motivo ricorrente dell’iniziativa che la Comunità ebraica e il Comune di Milano, insieme al Keren Hayesod hanno promosso, recependo l’invito dell’Unione giovani ebrei d’Italia a spegnere un monumento, il Castello Sforzesco, per ricordare il caporale israeliano nelle mani di Hamas, nel giorno in cui cade anniversario del suo rapimento. Lo mormorano i presenti, passandosi le grosse candele nere da accendere per la fiaccolata. Lo ripetono le autorità nei loro discorsi. Centinaia di persone si sono strette col cuore attorno a un giovane che da quattro anni viene tenuto in ostaggio, senza il rispetto dei più elementari diritti umani.
 

Qui MilanoNel buio ogni ragazzo si è sentito Gilad, ogni genitore ha pensato con terrore a quello che stanno passando i signori Shalit. Davanti al Castello sforzesco uno dei luoghi simbolo di Milano, ha preso la parola il presidente della Comunità Roberto Jarach “È importante essere qui ed è bello per tutti noi sottolineare il legame che la Comunità ebraica ha con la nostra città. Tutti noi siamo grati al Comune per aver sottoscritto immediatamente questa manifestazione, e in una serata come questa vogliamo far sentire la nostra voce”. Le sue parole, come quelle del presidente del Keren Hayesod Italia Samy Blanga, del presidente del Consiglio comunale Manfredi Palmeri, dell’assessore alla cultura Massimiliano Finazzer Flory e del consigliere regionale Filippo Penati hanno poi voluto ricordare le terribili condizioni in cui Gilad Shalit si trova, senza che da quattro anni nessuno possa sapere quali sono realmente le sue condizioni psicofisiche, evidenziando l’impegno dell’Italia per la sua liberazione, mentre a illuminare la calda serata milanese rimanevano solo le candele e la luna. “Oggi – ha concluso Daniele Nahum, assessore della Comunità ebraica per i rapporti con le cittadinanze - abbiamo spento le luci del Castello per Gilad Shalit, domani vogliamo essere qui ad accenderle, con lui insieme a noi”.

Rossella Tercatin



Libertà per Gilad - Torino reagisce alle intimidazioni


Qui TorinoLa manifestazione per la liberazione di Gilad Shalit organizzata a Torino è stata contestata e bersagliata da lanci di uova. Appena radunatosi, a margine dei festeggiamenti di San Giovanni lungo il fiume Po, il gruppo di manifestanti, tra cui erano presenti alcuni membri della Comunità Ebraica torinese e il rabbino Somekh, si è visto venire incontro una trentina di persone che, dietro le bandiere palestinesi, protestavano contro la decisione del Comune di Torino di spegnere le luci della Mole Antonelliana per ricordare il rapimento del caporale Shalit, e indirizzavano grida e improperi ai manifestanti. “È ingiusto - questa la loro tesi - che Torino manifesti solidarietà a un militare israeliano e non ai molti prigionieri palestinesi”. Oggetto della contestazione sono stati anche il sindaco Sergio Chiamparino e il presidente del Consiglio comunale Beppe Castronovo, accusati di aver preso, spegnendo le luci della Mole il giorno della festa cittadina, una posizione inadeguata alla loro carica istituzionale.
Un cordone di agenti delle forze dell'ordine si è interposto fra i due schieramenti, con l'intento di mantenere lo scontro solamente sul piano verbale. L'intervento dei carabinieri non è bastato tuttavia a impedire il lancio di oggetti, soprattutto uova, che hanno colpito diverse persone nel gruppo di chi manifestava per la libertà di Gilad Shalit, tra le altre anche il rabbino Somekh.

Qui TorinoLe sparute reazioni dei bersagliati sono state prontamente sopite dagli organizzatori, i quali, centrati dalle uova, hanno preferito ignorare le provocazioni e continuare la loro manifestazione in modo pacifico ma determinato.
Alle dieci di sera la Mole Antonelliana, contemporaneamente al Colosseo a Roma e al Castello Sforzesco di Milano, è rimasta al buio: la città di Torino ha infine esaudito il desiderio, espresso con determinazione dalla Comunità ebraica di dare un segnale di partecipazione e sostegno alle iniziative per la liberazione del giovane caporale israeliano.

Manuel Disegni


Libertà per Gilad - Quattro anni di attesa e di speranza. Leggi il dossier che ricostruisce la vicenda del ragazzo rapito da Hamas

 
 
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  Quali rabbini, quale futuro - "Ai rabbini chiediamo risposte chiare"

Dario CalimaniDi fronte alla proposta di un Tribunale rabbinico unico che coordini a livello nazionale i percorsi di conversione e decida sugli stessi, rav Riccardo Di Segni, rabbino capo della maggiore Comunità ebraica italiana scrive sull'Unione informa: "Non si potrebbe essere più sinceri e chiedere semplicemente e direttamente quello che si vuole in realtà (procedure facili e una corte controllabile)?".
Di fronte a una posizione del genere si rimane basiti, e ci si chiede se l'unica preoccupazione del rabbinato italiano (posto che rav Di Segni ne rappresenti il massimo pensiero) non sia quella di mantenere il proprio potere e affermare la propria autorità; e ci si chiede se il rabbinato italiano si renda conto della gravissima situazione di sfaldamento e degrado in cui si è esso stesso si è ridotto, trascinando con sé l'ebraismo a cui invece avrebbe dovuto far da guida.
Non si possono rivolgere al proprio interlocutore surrettizie accuse di demagogia usando poi quella stessa demagogia per rispondere ai suoi supposti obiettivi: da un Beth Din unico non ci si aspettano regole 'facili', ma regole chiare e decisioni coerenti. Ci si aspetta che il Tribunale rabbinico prescinda da conflitti di interesse che caratterizzano invece i singoli rabbinati locali, che facilitano certi ghiurim e ne dilazionano all'infinito altri. Ci si aspetta che il Beth Din si dedichi full time all'impegno che la Comunità richiede, con l'insegnamento e con una guida sicura, priva di quelle incertezze e di quei ripensamenti che troppo spesso sconcertano chi ne fruisce.
Non si può rimanere sordi e ciechi di fronte alle istanze di una Comunità in crisi. E non si possono proibire fuori casa quelle cose su cui si sorvola in casa. L'uso di due pesi e due misure nel giudizio è proibito dalla Torah (Lev.19:35).
Insomma, anche il rabbino, anziché rinchiudersi a difesa nel proprio ristrettissimo guscio, deve misurarsi umilmente con le responsabilità del proprio ruolo quando in ballo è il destino di un'intera Comunità.

Dario Calimani, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane


Quali rabbini, quale futuro - "Libero rabbinato in libere istituzioni"

Gadi PolaccoPlaudo alla chiarezza con la quale il rav Riccardo Di Segni ha evidenziato (l'Unione Informa del 24 giugno 2010) una delle anomalie legate alla discussione circa l'eventuale riforma dello Statuto dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ovvero quella di voler incidere, attraverso una discussione ufficialmente legata alle regole di funzionamento dell'Unione e delle Comunità, su argomenti inerenti aspetti che invece, in campo ebraico, sono regolati dalle norme dell'Halachà.
L'esempio più eclatante, a mio modo di vedere, è quello di pensare,o di aver pensato, di introdurre nello Statuto un'esplicita previsione per i rabbini i quali dovrebbero definire un percorso per le conversioni, quasi che non vi fossero già delle regole alle quali attenersi.  Se è ovviamente lecito discutere, se del caso, circa le modalità d'applicazione delle regole, ben diverso è voler indirizzare norme che appartengono a una diversa sfera di competenza. Insomma, parafrasando da liberale Cavour, "Libero rabbinato in libera UCEI".

Gadi Polacco, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane


Quali rabbini, quale futuro - "Senza fiducia che parliamo a fare?"

Anselmo CalòE' singolare questa situazione per cui a polemizzare con rav Di Segni infine tocchi sempre a me. Lo faccio volentieri con tutto il rispetto che porto al mio Rav e con tutta la libertà che come componente della Keillà sento di avere.
Parliamo allora del Bet Din unico, sono tra i sostenitori della proposta, anche se l'ho articolata non come una "cosa unica", che ha sede a Roma nell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Quel Bet Din c'è già, non l'ho inventato io, ma due illustri nostri Maestri: Angelo Sacerdoti e David Prato, più di ottanta anni fa. Mi riferisco alla Consulta rabbinica, già prevista nella Legge del '30 e poi confermata dallo Statuto dell'ebraismo italiano, essa è composta da tre rabbini maggiori eletti dal Congresso ogni quattro anni. Tre rabbini, già formano un Bet Din, se poi a questo istituto lo Statuto demanda compiti di giudizio, tanto da equipararlo in taluni casi, al Collegio dei probiviri, come vogliamo definire questo consesso? Ma in realtà non è di questo Bet Din, che è di un genere particolare, che stiamo trattando.
Quanti Batè Din esistono oggi in Italia? Due, tre? La proposta è che ne esista uno solo, articolato in sezioni; che le sezioni possano essere locali, quindi in sede fissa, o formate di volta in volta, come accade nei tribunali superiori, a seconda della competenza. Su questo non ho idee precise, discutiamone.
Sul fatto però che in taluni casi, anche di ghiurim, certe linee di tendenza possano essere decise, come avviene per esempio alla Corte di Cassazione "a Sezioni Unite", mi sembra opportuno, e una garanzia per tutti, giudicanti e giudicati.
Lascio ai Rabbanim decidere se nelle conversioni bisognerebbe utilizzare un criterio unico, quello che vedo è che questo criterio unico non c'è. E' un bene, è un male? Non lo so. E francamente non mi interessa, perché personalmente non mi appassiono ai ghiurim, persuaso come sono che questi vanno fatti seguendo l'Halachà. Tuttavia, lo sappiamo l'Halachà come ogni legge è soggetta a interpretazione, interpretazione che risente dello spazio e del tempo. L'importante per me è che l'interprete sia idoneo ovvero sia un rabbino.
Rav Di Segni ricorda che nel Regno Unito ci sono vari Tribunali rabbinici: Haredim, Sefardim, della Federation, per non parlare degli USA. Bene, è questo che auspica il mio rav? Che presto ci sia a Roma un Bet Din Lubavic e un Bet Din della Federation?
Personalmente preferirei che i Batè Din italiani collaborassero in unica struttura, come rav Di Segni ricorda che avviene in Francia, dove i Tribunali rabbinici sono tra loro collegati nel Concistoire.
Ciò che più mi ha spinto ad intervenire è la considerazione finale di rav Di Segni: "Non si potrebbe essere più sinceri e chiedere semplicemente e direttamente quello che si vuole in realtà (procedure facili e una corte controllabile)?"
Trovo questa domanda scoraggiante. Perché caro rav, non dovrei essere sincero con Lei e con tutti gli altri ebrei quando penso a un Bet Din italiano articolato per sezioni, al solo fine di avere decisioni coerenti, se è possibile, per tutte le nostre Keillot? E sopratutto perché non dovrebbe esserci un unica autorità che rilasci certificati di Kasherut per i molti prodotti alimentari fabbricati in Italia ed esportati in tutto il mondo?
Potrei sostenere che la Consulta Rabbinica è già un Bet Din a tutto tondo, e se pensassi veramente di influenzarla, forse, in astratto, sarebbe anche possibile visto che i tre componenti sono anche componenti del Consiglio dell'Ucei eletti, ma non penso a un Bet Din eletto, tutt'altro.
Le Corti sono autorevoli e non controllabili se i loro componenti sono autorevoli e non influenzabili, ed è questo il Bet Din a cui penso, un Bet Din fatto da Rabbanim autorevoli, e che credano per primi loro stessi nella loro autorevolezza.
In definitiva se vogliamo veramente riorganizzare la Governance delle nostre istituzioni dobbiamo uscire dalla cultura del sospetto, perché se non c'è fiducia tra noi, che parliamo a fare?

Anselmo Calò, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane



La ricerca delle radici

anna segrePrimo Levi è entrato all’esame di stato 2010 dalla porta principale: l’analisi del testo, quella che sta sulla prima pagina del plico che viene consegnato agli studenti; una posizione che prima di lui, da quando esiste questo tipo di esame, è stata occupata da Dante, Montale, Ungaretti, Quasimodo, Saba, Pirandello, Pavese e Svevo. Non si può sfuggire all’impressione che l’autore sia stato scelto per contrappesare le foibe, in una sorta di paradossale par condicio. Tuttavia bisogna anche rilevare che non è stato proposto, come si sarebbe potuto supporre, un passo tra i più conosciuti, da Se questo è un uomo o La tregua, ma un testo in cui si parla di libri e di lettura, dalla prefazione all’antologia personale del 1981 La ricerca delle radici.
Benché sia stato scelto solo dal 4,7 per cento, degli studenti Primo Levi batte comunque non solo le foibe (0,6 per cento), ma anche, meno prevedibilmente, i giovani e la politica (4,3 per cento). Tutto sommato non se l’è cavata male, considerando che molti probabilmente hanno esitato di fronte al titolo di un libro che non conoscevano. Presumibilmente si intendeva proporre un testo ritenuto semplice, non letterario in senso stretto, in cui uno scrittore si domanda quanto le sue letture lo abbiano influenzato; i ragazzi erano poi invitati a fare lo stesso e proporre anche loro una propria antologia personale: un’idea carina, ma decisamente insolita, che forse ha spiazzato gli studenti, orientandoli verso altre tracce. In effetti nel passo non si ritrova quasi per nulla (almeno esplicitamente) il Levi che tutti conoscono, il testimone di Auschwitz; viene sottolineata molto di più la formazione scientifica e viene fuori, soprattutto, un delizioso quadretto di famiglia, con il padre e gli zii che si rubano i libri a vicenda "come se ci fosse una regola non scritta secondo cui chi desidera veramente un libro è ipso facto degno di portarselo via e di possederlo". Che si tratti di una famiglia ebraica non è detto esplicitamente, ma non si può fare a meno di notare che la passione del padre per la lettura viene descritta attraverso le parole dello Shemà, le stesse utilizzate anni prima nella poesia che introduceva Se questo è un uomo; questa volta, però, la citazione dal Deuteronomio è dichiarata esplicitamente.
Vale la pena ancora osservare che l’antologia La ricerca delle radici si apre con alcuni capitoli del libro di Giobbe: "Perché cominciare da Giobbe? Perché questa storia splendida e atroce racchiude in sé tutte le domande di tutti i tempi, quelle a cui l’uomo non ha trovato risposta finora né la troverà mai, ma la cercherà sempre perché ne ha bisogno per vivere, per capire se stesso e il mondo".

Anna Segre, insegnante


Il Vaticano e le sue scelte di campo

anna segreLeggiamo sul cattolico “AsiaNews” riguardo al convegno capeggiato dal cardinale Scola, Patriarca di Venezia, nel Libano a Fatka, il 21 Giugno. Scola ha detto: “L’educazione può essere la strada maestra della convivenza fra cristiani e mussulmani, se essa si libera del 'positivismo assoluto' e dal 'fondamentalismo formale'”. Asia News prosegue: “Tutti i relatori mussulmani, sunniti e sciiti, hanno condannato il fondamentalismo violento che crea avversione e mette a repentaglio anche oggi la coesistenza libanese”. Bravi. Mentre i libanesi capiscono benissimo il pericolo fondamentalista, il Vaticano rimane arroccato sulle antiche posizioni. Il cardinal Jean-Louis Tauran , che fu alla Segreteria di Stato col Papa precedente, “ha fatto notare che anche un certo fondamentalismo è segno di una rinascita delle esigenze religiose all’interno della società moderna e ha rivendicato un posto per le religioni”. Illusioni folli di chi vuol vedere qualcosa di positivo nel fondamentalismo islamico. Dichiarazioni di questo tipo fanno capire meglio come sia possibile che la politica vaticana sia cieca e preferisca il fondamentalismo islamico a Israele. Ma se questo è lo spirito del Vaticano, perché non ha sostenuto i centomila fondamentalisti ebrei scesi in piazza contro l’Alta Corte di Giustizia a Gerusalemme?.
 
Sergio Minerbi
 
 
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