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L'Unione informa |
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25 giugno 2010 - 13 Tamuz 5770 |
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alef/tav |
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Roberto Colombo, rabbino |
Rav Di Segni nella newsletter
di lunedì scorso ha parlato della fine della Parashà di Balàk e del
popolo pronto a unirsi con le donne non ebree di Moav. Figura centrale
di quell’episodio è Zimrì, il capo della tribù di Shimòn, il quale, nel
corso della rivolta scoppiata in seno ad Israele, presenta una
principessa midianita a Moshè e agli anziani del tribunale per poi
unirsi a lei pubblicamente. Rabbì Moshè Borenshtein, nella sua opera
Shem Mishmuèl, ritiene che Zimrì sia stato spinto sicuramente da buone
intenzioni. Se gli ebrei si sposano con donne non ebree, per Zimrì, la
soluzione è quella di portare la donna dal Capo Rabbino Moshè e dal suo
Tribunale per chiederne la conversione d’ufficio. I figli nati saranno
così ebrei, anche se con un’identità un tantino debole, e gli iscritti
alla Comunità d’Israele aumenteranno di numero. Idea grandiosa. Peccato
che i 24000 ebrei che seguirono questa teoria in poco tempo scomparvero
dal popolo ebraico. |
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Buonsenso
e nozioni apprese nei corsi di psicologia spesso inducono gli
insegnanti a pensare che i problemi famigliari di uno studente siano i
veri distrattori dai quali originano i suoi
problemi attentivi a loro volta generatori di scarsi risultati
scolastici. A fronte di tali situazioni i docenti, sensibili e
appassionati decidono di fare del loro meglio per alleviare le carenze
affettive degli allievi dedicando loro il massimo grado di attenzione e
cercando di aiutarli in ogni modo. Ma tali scelte talvolta
perpetuano i problemi anziché attenuarli e, in sede di scrutini e di
valutazioni finali, il “come prima, più di prima” esprime tutta la
frustrazione dei docenti accompagnata da una lunga disamina delle
ragioni per cui allievo e insegnante siano imprigionati in una
situazione che ha prodotto effetti negativi. In tali contesti gli
esperti della teoria del cambiamento suggeriscono uno spostamento verso
ciò che apparentemente vìola il senso comune: un pizzico di
benefica disattenzione trattando l’allievo più o meno come gli altri
scolari e una riflessione circoscritta al cosa sta accadendo a scuola e
non al perché della dinamica relazionale dal momento che, come
scrive Wittengstein: “d’una risposta che non si può
formulare non può formularsi neppure una domanda”. |
Sonia Brunetti Luzzati,
pedagogista |
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Libertà per Gilad - Roma capitale della pace e dei diritti umani
A
poche centinaia di metri l’Arco di Tito, simbolo di sottomissione del
popolo ebraico alla Roma imperiale. Di fronte il Colosseo, monumento
per eccellenza di un mondo in cui uomini privi di diritti combattevano
per il piacere e il sollazzo di barbari istruiti. A distanza di due
millenni, una moltitudine di cittadini liberi chiede a gran voce la
liberazione di un giovane soldato israeliano prigioniero da quattro
anni di Hamas. Bandiere, striscioni e cori: il popolo di Gilad Shalit,
insieme alle massime autorità nazionali, cittadine e regionali
raccoglie l’invito di Ugei e Benè Berith a radunarsi in quel magnifico
scorcio della Capitale. Alle undici si spegneranno le luci del Colosseo
e Roma non dimenticherà il suo concittadino Shalit. Il presidente del
Benè Berith e consigliere UCEI Sandro Di Castro introduce gli
interventi.
Giuseppe
Piperno, presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia, ricorda ai
presenti perché è importante esserci: “Il motivo per cui noi oggi,
giovani ebrei d’Italia, siamo qui a manifestare per Gilad non risiede
solo nel nostro amore incondizionato per Israele. Siamo qua perché
sostenere la causa di Gilad vuol dire sostenere il percorso verso la
pace. Perché nel sostenere Gilad noi confermiamo il senso di giustizia
che è vivo nelle nostre coscienze di ebrei e di italiani, che risiede
nella tradizione della cultura ebraica e allo stesso tempo nella storia
del Risorgimento italiano”. Angelo Moscati, presidente del Benè Berith
Giovani, dà un segno ulteriore del grande impegno dimostrato dai
ragazzi ebrei italiani nella causa di liberazione del soldato Shalit,
annunciando la nomina di Gilad a presidente onorario della sezione
Stefano Gay Tachè del Benè Berith. Con la speranza che non ci si fermi
qua: “Porgo un invito a tutti i movimenti e le associazioni stasera
presenti, a iniziare da quelle ebraiche, a prendere coraggio e a fare
lo stesso. Affinché in ogni sede, in ogni conferenza, in ogni piazza,
di notte e di giorno il modo possa ricordare che al giovane israeliano
è negato ogni diritto”. Lorenzo Cesa, segretario Udc, sospira:
“Gilad potrebbe essere mio figlio”. Riccardo Di Segni, rabbino capo di
Roma,
cita il Talmud: gli ebrei, vittime di sanzioni sempre più pesanti, si
rivolgono a una matrona che fornisce loro la
ricetta per risolvere il problema. “Andate a dimostrare di notte sotto
le case dei potenti”. E le dimostrazioni, adesso come allora, hanno
funzionato: ieri sera i potenti erano con il popolo ebraico.
Intense
le parole di Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di
Roma: “I nostri Maestri ci insegnano il valore della vita e questa
manifestazione è un meraviglioso inno alla vita”. Segue un messaggio diretto agli assenti.
“Facciamoli i nomi e i cognomi di chi non è qua stasera. Dov'è
Emergency? Dov'è Amnesty International?”, urla il leader degli ebrei
romani e la folla si scalda. Bar Sade, ministro plenipotenziario
dell’ambasciata israeliana a Roma, riferisce della prossima
manifestazione in sostegno di Shalit: i suoi familiari marceranno dal
nord di Israele fino a Gerusalemme, dove si accamperanno
fino alla sua liberazione. Sale sul palco Nicola Zingaretti, presidente
della Provincia di Roma e fresco vincitore della Menorah d’Oro
assegnatagli dal Benè Berith. È esplicito: “Nessuno faccia finta di non
vedere, di non sapere e di non capire, nessuno osi dimenticare Gilad
perché noi non lo dimenticheremo”. E ricorda che con la diffusione nelle scuole di Quando il pesciolino e
lo squalo s’incontrarono per la prima volta (favola scritta da Gilad in
tenera età), “il suo esempio contamina migliaia di studenti”. Renata
Polverini, presidente della Regione Lazio, spiega che mentre si
avvicinava al palco molte persone le hanno fatto i complimenti. Ma non
è questa la serata per gli elogi: “Stasera non meritiamo
ringraziamenti, siamo qui perché parliamo di un ragazzo a cui è stata
strappata la vita”. Il ministro Andrea Ronchi confessa: “Dopo tanti anni mi sono commosso”. Si affaccia anche il
direttore del quotidiano Il Foglio Giuliano Ferrara, grande amico di
Israele e della comunità ebraica. Ha una proposta che fa il verso ai
cosiddetti pacifinti: “Dovremmo prendere una nave, chiamarla Gilad
Shalit, imbarcarci rigorosamente disarmati, sbarcare a Gaza e chiedere
dov’è Gilad”. Prende il microfono Gianni Alemanno, sindaco di Roma.
“Sono ancora una volta i giovani a richiamarci al nostro dovere”, dice.
Alemanno, che nel giugno scorso ha conferito la cittadinanza onoraria
della Capitale a Gilad spiega che il suo impegno e quello della città
che amministra non sono solo un segnale forte a chi di dovere “ma anche
un modo per rendere Roma più giusta e degna”. Poi tuona: “Da quando
abbiamo appeso una suo foto in Campidoglio gli ipocriti stanno lontano
da quella piazza”. Arrivano le undici, giù le luci: viene illuminata la
foto di Gilad e il suo urlo accompagna attimi di intense emozioni. Con
il Colosseo a luci spente, è proiettato anche un filmato girato dai
bambini delle scuole romane. Torna la luce, la gente canta HaTikwa e
Fratelli d’Italia. Poi tutto finisce, con la speranza che non ci sia
più bisogno di manifestazioni per chiedere la liberazione di un ragazzo
che da quattro anni non distingue il giorno dalla notte.
Adam Smulevich
Libertà per Gilad - Le parole di Noam Shalit
Leggi il discorso del padre di Gilad sul Portale dell'ebraismo italiano moked.it
Libertà per Gilad - Milano risponde all'appello
“La prossima volta
che verremo in piazza per lui, Gilad Shalit sarà in libertà. La
prossima volta dovrà essere una festa. Per questo siamo qui stasera”. È
il motivo ricorrente dell’iniziativa che la Comunità ebraica e il
Comune di Milano, insieme al Keren Hayesod hanno promosso, recependo
l’invito dell’Unione giovani ebrei d’Italia a spegnere un monumento, il
Castello Sforzesco, per ricordare il caporale israeliano nelle mani di
Hamas, nel giorno in cui cade anniversario del suo rapimento. Lo
mormorano i presenti, passandosi le grosse candele nere da accendere
per la fiaccolata. Lo ripetono le autorità nei loro discorsi. Centinaia
di persone si sono strette col cuore attorno a un giovane che da
quattro anni viene tenuto in ostaggio, senza il rispetto dei più
elementari diritti umani. Nel buio ogni ragazzo si è sentito Gilad,
ogni genitore ha pensato con terrore a quello che stanno passando i
signori Shalit. Davanti al Castello sforzesco uno dei luoghi simbolo di
Milano, ha preso la parola il presidente della Comunità Roberto Jarach
“È importante essere qui ed è bello per tutti noi sottolineare il
legame che la Comunità ebraica ha con la nostra città. Tutti noi siamo
grati al Comune per aver sottoscritto immediatamente questa
manifestazione, e in una serata come questa vogliamo far sentire la
nostra voce”. Le sue parole, come quelle del presidente del Keren
Hayesod Italia Samy Blanga, del presidente del Consiglio comunale
Manfredi Palmeri, dell’assessore alla cultura Massimiliano Finazzer
Flory e del consigliere regionale Filippo Penati hanno poi voluto
ricordare le terribili condizioni in cui Gilad Shalit si trova, senza
che da quattro anni nessuno possa sapere quali sono realmente le sue
condizioni psicofisiche, evidenziando l’impegno dell’Italia per la sua
liberazione, mentre a illuminare la calda serata milanese rimanevano
solo le candele e la luna. “Oggi – ha concluso Daniele Nahum, assessore
della Comunità ebraica per i rapporti con le cittadinanze - abbiamo
spento le luci del Castello per Gilad Shalit, domani vogliamo essere
qui ad accenderle, con lui insieme a noi”.
Rossella Tercatin
Libertà per Gilad - Torino reagisce alle intimidazioni
La
manifestazione per la liberazione di Gilad Shalit organizzata a Torino
è stata contestata e bersagliata da lanci di uova. Appena radunatosi, a
margine dei festeggiamenti di San Giovanni lungo il fiume Po, il gruppo
di manifestanti, tra cui erano presenti alcuni membri della Comunità
Ebraica torinese e il rabbino Somekh, si è visto venire incontro una
trentina di persone che, dietro le bandiere palestinesi, protestavano
contro la decisione del Comune di Torino di spegnere le luci della Mole
Antonelliana per ricordare il rapimento del caporale Shalit, e
indirizzavano grida e improperi ai manifestanti. “È ingiusto - questa
la loro tesi - che Torino manifesti solidarietà a un militare
israeliano e non ai molti prigionieri palestinesi”. Oggetto della
contestazione sono stati anche il sindaco Sergio Chiamparino e il
presidente del Consiglio comunale Beppe Castronovo, accusati di aver
preso, spegnendo le luci della Mole il giorno della festa cittadina,
una posizione inadeguata alla loro carica istituzionale. Un
cordone di agenti delle forze dell'ordine si è interposto fra i due
schieramenti, con l'intento di mantenere lo scontro solamente sul piano
verbale. L'intervento dei carabinieri non è bastato tuttavia a impedire
il lancio di oggetti, soprattutto uova, che hanno colpito diverse
persone nel gruppo di chi manifestava per la libertà di Gilad Shalit,
tra le altre anche il rabbino Somekh.
Le
sparute reazioni dei bersagliati sono state prontamente sopite dagli
organizzatori, i quali, centrati dalle uova, hanno preferito ignorare
le provocazioni e continuare la loro manifestazione in modo pacifico ma
determinato. Alle
dieci di sera la Mole Antonelliana, contemporaneamente al Colosseo a
Roma e al Castello Sforzesco di Milano, è rimasta al buio: la città di
Torino ha infine esaudito il desiderio, espresso con determinazione
dalla Comunità ebraica di dare un segnale di partecipazione e sostegno
alle iniziative per la liberazione del giovane caporale israeliano.
Manuel Disegni
Libertà per Gilad - Quattro anni di attesa e di speranza. Leggi il dossier che ricostruisce la vicenda del ragazzo rapito da Hamas
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Quali rabbini, quale futuro - "Ai rabbini chiediamo risposte chiare"
Di
fronte alla proposta di un Tribunale rabbinico unico che coordini a
livello nazionale i percorsi di conversione e decida sugli stessi, rav
Riccardo Di Segni, rabbino capo della maggiore Comunità ebraica
italiana scrive sull'Unione informa:
"Non si potrebbe essere più sinceri e chiedere semplicemente e
direttamente quello che si vuole in realtà (procedure facili e una
corte controllabile)?". Di
fronte a una posizione del genere si rimane basiti, e ci si chiede se
l'unica preoccupazione del rabbinato italiano (posto che rav Di Segni
ne rappresenti il massimo pensiero) non sia quella di mantenere il
proprio potere e affermare la propria autorità; e ci si chiede se il
rabbinato italiano si renda conto della gravissima situazione di
sfaldamento e degrado in cui si è esso stesso si è ridotto, trascinando
con sé l'ebraismo a cui invece avrebbe dovuto far da guida. Non
si possono rivolgere al proprio interlocutore surrettizie accuse di
demagogia usando poi quella stessa demagogia per rispondere ai suoi
supposti obiettivi: da un Beth Din unico non ci si aspettano regole
'facili', ma regole chiare e decisioni coerenti. Ci si aspetta che il
Tribunale rabbinico prescinda da conflitti di interesse che
caratterizzano invece i singoli rabbinati locali, che facilitano certi
ghiurim e ne dilazionano all'infinito altri. Ci si aspetta che il Beth
Din si dedichi full time all'impegno che la Comunità richiede, con
l'insegnamento e con una guida sicura, priva di quelle incertezze e di
quei ripensamenti che troppo spesso sconcertano chi ne fruisce. Non
si può rimanere sordi e ciechi di fronte alle istanze di una Comunità
in crisi. E non si possono proibire fuori casa quelle cose su cui si
sorvola in casa. L'uso di due pesi e due misure nel giudizio è proibito
dalla Torah (Lev.19:35). Insomma,
anche il rabbino, anziché rinchiudersi a difesa nel proprio
ristrettissimo guscio, deve misurarsi umilmente con le responsabilità
del proprio ruolo quando in ballo è il destino di un'intera Comunità.
Dario Calimani, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Quali rabbini, quale futuro - "Libero rabbinato in libere istituzioni"
Plaudo alla chiarezza con la quale il rav Riccardo Di Segni
ha evidenziato (l'Unione Informa del 24 giugno 2010) una delle anomalie
legate alla discussione circa l'eventuale riforma dello Statuto
dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ovvero quella di voler
incidere, attraverso una discussione ufficialmente legata alle regole
di funzionamento dell'Unione e delle Comunità, su argomenti inerenti
aspetti che invece, in campo ebraico, sono regolati dalle norme
dell'Halachà. L'esempio
più eclatante, a mio modo di vedere, è quello di pensare,o di aver
pensato, di introdurre nello Statuto un'esplicita previsione per i
rabbini i quali dovrebbero definire un percorso per le conversioni,
quasi che non vi fossero già delle regole alle quali attenersi. Se
è ovviamente lecito discutere, se del caso, circa le modalità
d'applicazione delle regole, ben diverso è voler indirizzare norme che
appartengono a una diversa sfera di competenza. Insomma, parafrasando da liberale Cavour, "Libero rabbinato in libera UCEI".
Gadi Polacco, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Quali rabbini, quale futuro - "Senza fiducia che parliamo a fare?"
E' singolare questa situazione per cui a polemizzare con rav Di Segni
infine tocchi sempre a me. Lo faccio volentieri con tutto il rispetto
che porto al mio Rav e con tutta la libertà che come componente della
Keillà sento di avere. Parliamo
allora del Bet Din unico, sono tra i sostenitori della proposta, anche
se l'ho articolata non come una "cosa unica", che ha sede a Roma
nell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Quel Bet Din c'è già, non
l'ho inventato io, ma due illustri nostri Maestri: Angelo Sacerdoti e
David Prato, più di ottanta anni fa. Mi riferisco alla Consulta
rabbinica, già prevista nella Legge del '30 e poi confermata dallo
Statuto dell'ebraismo italiano, essa è composta da tre rabbini maggiori
eletti dal Congresso ogni quattro anni. Tre rabbini, già formano un Bet
Din, se poi a questo istituto lo Statuto demanda compiti di giudizio,
tanto da equipararlo in taluni casi, al Collegio dei probiviri, come
vogliamo definire questo consesso? Ma in realtà non è di questo Bet
Din, che è di un genere particolare, che stiamo trattando. Quanti
Batè Din esistono oggi in Italia? Due, tre? La proposta è che ne esista
uno solo, articolato in sezioni; che le sezioni possano essere locali,
quindi in sede fissa, o formate di volta in volta, come accade nei
tribunali superiori, a seconda della competenza. Su questo non ho idee
precise, discutiamone. Sul
fatto però che in taluni casi, anche di ghiurim, certe linee di
tendenza possano essere decise, come avviene per esempio alla Corte di
Cassazione "a Sezioni Unite", mi sembra opportuno, e una garanzia per
tutti, giudicanti e giudicati. Lascio
ai Rabbanim decidere se nelle conversioni bisognerebbe utilizzare un
criterio unico, quello che vedo è che questo criterio unico non c'è. E'
un bene, è un male? Non lo so. E francamente non mi interessa, perché
personalmente non mi appassiono ai ghiurim, persuaso come sono che
questi vanno fatti seguendo l'Halachà. Tuttavia, lo sappiamo l'Halachà
come ogni legge è soggetta a interpretazione, interpretazione che
risente dello spazio e del tempo. L'importante per me è che
l'interprete sia idoneo ovvero sia un rabbino. Rav
Di Segni ricorda che nel Regno Unito ci sono vari Tribunali rabbinici:
Haredim, Sefardim, della Federation, per non parlare degli USA. Bene, è
questo che auspica il mio rav? Che presto ci sia a Roma un Bet Din
Lubavic e un Bet Din della Federation? Personalmente
preferirei che i Batè Din italiani collaborassero in unica struttura,
come rav Di Segni ricorda che avviene in Francia, dove i Tribunali
rabbinici sono tra loro collegati nel Concistoire. Ciò
che più mi ha spinto ad intervenire è la considerazione finale di rav
Di Segni: "Non si potrebbe essere più sinceri e chiedere semplicemente
e direttamente quello che si vuole in realtà (procedure facili e una
corte controllabile)?" Trovo
questa domanda scoraggiante. Perché caro rav, non dovrei essere sincero
con Lei e con tutti gli altri ebrei quando penso a un Bet Din italiano
articolato per sezioni, al solo fine di avere decisioni coerenti, se è
possibile, per tutte le nostre Keillot? E sopratutto perché non
dovrebbe esserci un unica autorità che rilasci certificati di Kasherut
per i molti prodotti alimentari fabbricati in Italia ed esportati in
tutto il mondo? Potrei
sostenere che la Consulta Rabbinica è già un Bet Din a tutto tondo, e
se pensassi veramente di influenzarla, forse, in astratto, sarebbe
anche possibile visto che i tre componenti sono anche componenti del
Consiglio dell'Ucei eletti, ma non penso a un Bet Din eletto,
tutt'altro. Le
Corti sono autorevoli e non controllabili se i loro componenti sono
autorevoli e non influenzabili, ed è questo il Bet Din a cui penso, un
Bet Din fatto da Rabbanim autorevoli, e che credano per primi loro
stessi nella loro autorevolezza. In
definitiva se vogliamo veramente riorganizzare la Governance delle
nostre istituzioni dobbiamo uscire dalla cultura del sospetto, perché
se non c'è fiducia tra noi, che parliamo a fare?
Anselmo Calò, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
La ricerca delle radici
Primo
Levi è entrato all’esame di stato 2010 dalla porta principale:
l’analisi del testo, quella che sta sulla prima pagina del plico che
viene consegnato agli studenti; una posizione che prima di lui, da
quando esiste questo tipo di esame, è stata occupata da Dante, Montale,
Ungaretti, Quasimodo, Saba, Pirandello, Pavese e Svevo. Non si può
sfuggire all’impressione che l’autore sia stato scelto per
contrappesare le foibe, in una sorta di paradossale par condicio.
Tuttavia bisogna anche rilevare che non è stato proposto, come si
sarebbe potuto supporre, un passo tra i più conosciuti, da Se questo è un uomo o La tregua, ma un testo in cui si parla di libri e di lettura, dalla prefazione all’antologia personale del 1981 La ricerca delle radici. Benché
sia stato scelto solo dal 4,7 per cento, degli studenti Primo Levi
batte comunque non solo le foibe (0,6 per cento), ma anche, meno
prevedibilmente, i giovani e la politica (4,3 per cento). Tutto sommato
non se l’è cavata male, considerando che molti probabilmente hanno
esitato di fronte al titolo di un libro che non conoscevano.
Presumibilmente si intendeva proporre un testo ritenuto semplice, non
letterario in senso stretto, in cui uno scrittore si domanda quanto le
sue letture lo abbiano influenzato; i ragazzi erano poi invitati a fare
lo stesso e proporre anche loro una propria antologia personale:
un’idea carina, ma decisamente insolita, che forse ha spiazzato gli
studenti, orientandoli verso altre tracce. In effetti nel passo non si
ritrova quasi per nulla (almeno esplicitamente) il Levi che tutti
conoscono, il testimone di Auschwitz; viene sottolineata molto di più
la formazione scientifica e viene fuori, soprattutto, un delizioso
quadretto di famiglia, con il padre e gli zii che si rubano i libri a
vicenda "come se ci fosse una regola non scritta secondo cui chi
desidera veramente un libro è ipso facto degno di portarselo via e di
possederlo". Che si tratti di una famiglia ebraica non è detto
esplicitamente, ma non si può fare a meno di notare che la passione del
padre per la lettura viene descritta attraverso le parole dello Shemà,
le stesse utilizzate anni prima nella poesia che introduceva Se questo è un uomo; questa volta, però, la citazione dal Deuteronomio è dichiarata esplicitamente. Vale
la pena ancora osservare che l’antologia La ricerca delle radici si
apre con alcuni capitoli del libro di Giobbe: "Perché cominciare da
Giobbe? Perché questa storia splendida e atroce racchiude in sé tutte
le domande di tutti i tempi, quelle a cui l’uomo non ha trovato
risposta finora né la troverà mai, ma la cercherà sempre perché ne ha
bisogno per vivere, per capire se stesso e il mondo".
Anna Segre, insegnante
Il Vaticano e le sue scelte di campo
Leggiamo
sul cattolico “AsiaNews” riguardo al convegno capeggiato dal cardinale
Scola, Patriarca di Venezia, nel Libano a Fatka, il 21 Giugno. Scola ha
detto: “L’educazione può essere la strada maestra della convivenza fra
cristiani e mussulmani, se essa si libera del 'positivismo assoluto' e
dal 'fondamentalismo formale'”. Asia News prosegue: “Tutti i relatori
mussulmani, sunniti e sciiti, hanno condannato il fondamentalismo
violento che crea avversione e mette a repentaglio anche oggi la
coesistenza libanese”. Bravi. Mentre i libanesi capiscono benissimo il
pericolo fondamentalista, il Vaticano rimane arroccato sulle antiche
posizioni. Il cardinal Jean-Louis Tauran , che fu alla Segreteria di
Stato col Papa precedente, “ha fatto notare che anche un certo
fondamentalismo è segno di una rinascita delle esigenze religiose
all’interno della società moderna e ha rivendicato un posto per le
religioni”. Illusioni folli di chi vuol vedere qualcosa di positivo nel
fondamentalismo islamico. Dichiarazioni di questo tipo fanno capire
meglio come sia possibile che la politica vaticana sia cieca e
preferisca il fondamentalismo islamico a Israele. Ma se questo è lo
spirito del Vaticano, perché non ha sostenuto i centomila
fondamentalisti ebrei scesi in piazza contro l’Alta Corte di Giustizia
a Gerusalemme?. Sergio Minerbi
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