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25 ottobre 2010 - 17 Cheshvan 5771
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alef/tav
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Riccardo Di Segni
Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma

"Se anche la tua dispersione fosse all'estremo del cielo, di là ti raccoglierà il Signore D. tuo e di là ti prenderà, e ti condurrà alla terra che i tuoi padri hanno posseduto e tu ne prenderai possesso" ( Deuteronomio 30:4-5). Dedicato ai reverendi Padri Sinodali mediorientali che partono oggi da Roma, senza rimpianto da parte nostra. "Raccoglici insieme dai quattro angoli della terra alla nostra terra. Benedetto tu o Signore, che raccogli le dispersioni di Israele" (dalla preghiera della Amidà che si recita tre volte al giorno nei giorni feriali). "Il Giudice di tutta la terra non farà giustizia?" ( Genesi 18:25). 
Anna
Foa,
storica
   

Anna Foa
Nel suo ultimo alef/tav sul negazionismo, David Bidussa propone di "studiare e sapere". Una proposta semplice semplice ma di difficile attuazione. Per aiutarvi a procedere su questa strada, vorrei segnalarvi l'ultimo fascicolo, appena uscito, della Revue d'histoire de la Shoah, la rivista, diretta da Georges Bensoussan, del Centre de Documentation Juive Contemporaine. E' un grosso fascicolo dedicato all'insegnamento della storia della Shoah, centrato prevalentemente sulla Francia ma con una sezione dedicata agli altri paesi, e con due saggi dedicati all'Italia. Nel momento in cui   sembrano prevalere ovunque populismo e semplificazioni, uno studio dedicato a chi insegna, cioè a chi ha il compito di essere un buon maestro, può aiutarci a far crescere  il nostro spirito critico, e in ogni caso può tirarci fuori almeno un poco dal pessimismo in cui ci sentiamo ogni giorno di più sprofondare. Studiare per credere.

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davar
Ebrei in Europa: Memoria, identità, futuro
pubblicoIl rabbino capo ashkenazita di Israele Yona Metzger ha aperto questa mattina a Berlino i lavori dell'European Council of Jewish Communities con un Kaddish in memoria di tutti i deportati e una prolusione dedicata alla centralità dei rapporti fra Israele e la Diaspora e alla Memoria, l'identità e al futuro del popolo ebraico. I lavori dell'incontro fra leader ebraici provenienti da tutta Europa, da Israele e dagli Stati Uniti proseguono sviluppando un confronto su temi come "Europa e Israele, così vicine e così lontane", "Media: come possono le realtà ebraiche gestire la pressione?", "Crisi economica globale e e impatto sulle comunità ebraiche", "Ebraismo americano e ebraismo europeo: le due realtà dovrebbero sviluppare una maggiore comunicazione?" e "Diversità ebraica in Europa, come è possibile cooperare e mantenere la propria identità ebraica?".

Dossier - I falsi dell'odio
Quel tabù odioso del piccolo borghese

vignettaIl furore antisemita non è frutto di un fuggevole oscuramento delle coscienze né di un improvviso palpito ideologico. L’odio degli ebrei si nutre invece della carne viva della società rielaborandone in modo sistematico temi, paure e ideali. A sostenerlo è Francesco Germinario, ricercatore alla Fondazione Luigi Micheletti di Brescia, che a quest’argomento ha dedicato un importante studio dal titolo Costruire la razza nemica - La formazione dell’immaginario antisemita tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Nel volume, pubblicato quest’anno da Utet, il professor Germinario analizza, utilizzando la pubblicistica dell’epoca, lo sviluppo del pregiudizio antiebraico. “Se pensassimo che l’antisemitismo è ideologia che sorge in modo spontaneo nella società contemporanea - spiega - commetteremmo un errore grossolano. Come qualsiasi ideologia politica l’antisemitismo non fa altro che riprendere e rielaborare aspetti politici della società in cui vive. E’ una cultura interna alla società”.
Professor Germinario, dove possiamo rintracciare la genesi dell’immaginario antisemita contemporaneo in Europa?
Per molti aspetti l’immaginario antisemita moderno rielabora in chiave secolarizzata stereotipi appartenenti alla tradizione cattolica antigiudaica, ad esempio l’identificazione tra l’ebreo e il denaro o lo stereotipo della “razza pazza”. Ciò avviene soprattutto per due motivi. Nella seconda metà dell’Ottocento compaiono i primi movimenti politici di contestazione della società liberale, tra cui il socialismo, l’anarchismo e i movimenti sindacali. In questo momento, in cui la modernità liberale mostra le prime crepe, l’antisemitismo è un movimento di contestazione, insofferente della modernità e soprattutto della modernità pluralista e liberale. Non è un vero e proprio movimento di rottura dal punto di vista culturale ma è comunque una teoria politica rivoluzionaria perché intende rovesciare la società liberale e borghese.
Quali sono le categorie su cui si fonda?
Alla base dell’antisemitismo moderno c’è l’idea che l’ebraismo cospiri per la tirannide mondiale. Vi è la riduzione dell’ebraismo a razza e la convinzione che l’epoca liberale sia quella dell’ebraizzazione degli individui. In quest’epoca tutti assumerebbero atteggiamenti, cultura e relazioni personali e sociali che alcuni autori definiscono “biblici”, “talmudici” o “salomonici”: comportamenti più liberi, ispirati all’egualitarismo. Ciò che l’antisemitismo imputa alla società liberale è proprio il fatto che l’emancipazione dal ghetto non ha affatto deebreizzato gli ebrei, come invece si pensava sarebbe accaduto. Viceversa l’ebreo liberato dal ghetto ha ebraizzato chi non lo era influenzando il suo modo di vivere e di pensare.
Come si passa da queste teorie all’antisemitismo novecentesco con le sue tragiche conseguenze?
Distinguerei fra un antisemitismo monotematico e uno contaminato. I primi sono di contestazione della società, battono su un solo tema e non riescono ad allargare in modo esplicito la loro udienza. Si ritagliano dunque spazi molto ristretti di mercato politico. L’antisemitismo diventa pericoloso nel momento in cui si contamina e si incrocia, negli anni Venti e Trenta, con altre ipotesi politiche, pensiamo al nazismo e all’estrema destra, che sono antisemiti ma sono anche altro. In quel momento entra in azione una miscela esplosiva. Il problema non è solo di distinguere fra l’una e l’altra forma ma di interrogarsi su questa contaminazione con movimenti politici generalisti esplicitamente totalitari che dimostra come già dall’inizio l’antisemitismo aveva una chiara vocazione totalitaria che non era però riuscito a organizzare in modo autonomo. Anche la versione monotematica può quindi essere considerata un orientamento a chiara vocazione totalitaria, in cerca dei movimenti politici con cui convolare a nozze.

I best seller del pregiudizio

Nei primi decenni del secolo scorso l’odio per gli ebrei raggiungeva anche i più remoti angoli d’Europa grazie alle cartoline postali. Queste carte, oggi divenute oggetto di studio da parte degli storici, testimoniano con immediatezza la straordinaria pervasività dello stereotipo antisemita attraverso le loro illustrazioni, tristi e volgari al tempo stesso, che rappresentano caricature di ebrei dal naso adunco, ebrei che come ragni tessono la tela del dominio mondiale o ebrei dalle fattezze sataniche che accumulano patrimoni ai danni del popolo. Un ruolo per tanti versi analogo è quello svolto dalla letteratura di massa che propalando, attraverso intrecci e personaggi, luoghi comuni e pregiudizi raggiunge un pubblico ben più ampio di quello attento alla cosa politica. In Italia, così come nel resto d’Europa, spetta dunque ai romanzi il dubbio compito di inoculare nella mente dei lettori il seme dell’odio antisemita mettendo in scena belle ebree dai liberi costumi che tramano a favore del loro popolo o ebrei malvagi che cospirano contro l’umanità per impadronirsi del potere. Una prima analisi di questo fenomeno culturale la dobbiamo a Riccardo Bonavita (1968 – 2005), intellettuale comunista, studioso di letteratura italiana, autore di un’indagine acuta e originale della storia del razzismo politico italiano che prende le mosse dalla convinzione che la cultura razzista in Italia non si esaurisce nella parentesi delle leggi razziali ma scaturisce da un serbatoio d’idee e pregiudizi che si struttura già nei primi dell’Ottocento. Alcuni dei saggi scritti da Bonavita tra il ‘95 e il 2003 sono stati raccolti nel volume Spettri dell’altro - Letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea (il Mulino, 2010) dall’amico Michele Nani, ricercatore al Dipartimento di storia dell’Università di Padova, esperto di storia del razzismo e del nazionalismo in Italia, che ha curato il libro insieme all’italianista Giuliana Benvenuti. “Fin dagli anni dell’università eravamo entrambi amici di Riccardo, con cui abbiamo condiviso molte esperienze. Sentivamo l’urgenza morale di rendere disponibili i suoi contributi disseminati in riviste e altre pubblicazioni e di pubblicare questo lavoro a cui lui stesso lavorando e che la sua scomparsa aveva lasciato in sospeso. Siamo riusciti a ricomporlo grazie alla disponibilità dell’editore, della moglie Cristiana Facchini e di tanti amici dando così conto di un percorso che ha anticipato di alcuni decenni la vague della ricerca sul razzismo italiano”.
In che modo il lavoro di Riccardo Bonavita è un anticipatore?
Oggi forse è difficile rendersene pienamente conto. Ormai sono tutti disposti, almeno per ciò che riguarda il Novecento, a guardare in faccia la robusta tradizione del razzismo italiano: fino agli anni Ottanta era invece un argomento molto controverso e molte voci negavano il coinvolgimento degli italiani e dello stato italiano nelle iniziative razziste. Le leggi razziali erano viste come mosse tattiche e politicamente inevitabili e spesso venivano rubricate alla voce colonialismo o imitazione della Germania. Già il fatto di eleggere il razzismo a tema di ricerca era controcorrente e ricercarlo nell’alta cultura in un certo senso lo era ancora di più. Siamo dunque davanti a una doppia innovazione che sembrò provocatoria e politica. Altro elemento innovativo è la percezione di come si studia il razzismo.
Parla dell’approccio alla letteratura?
Le ricerche fino allora si concentravano sull’aspetto della legislazione, Riccardo già si lanciava nella dimensione sociale e culturale: affrontando le idee dominanti e la loro ricezione nella società e nella mentalità collettiva. Studiare la letteratura, alta e bassa, il cinema o le arti figurative ci consente infatti di leggere una cultura impregnata di razzismo assai più ampia di quel che fino a un certo punto si pensava esistesse. Ed è una dimensione che spiega bene l’adesione di massa che avvenne in quegli anni.
Riccardo Bonavita analizza la narrativa di consumo di successo negli anni Trenta. Perché proprio questa scelta?
Molti di quei romanzi erano intrisi di gerarchie razziali sia nei confronti degli africani sia degli ebrei. Vi si ritrova una visione gerarchica e naturalistica dell’universo in cui le differenze sociali e culturali erano trascritte nel corpo degli individui. Vi è poi uno stretto nesso tra razzismo e sessismo. Il fatto stesso che i lettori amassero questi libri spiega come questi stereotipi venivano assimilati.
Che motivi vi si ritrovano?
Vi è una perfetta corrispondenza con letteratura antisemita ottocentesca: temi propri della polemica antigiudaica d’ispirazione cristiana s’impastano con le nuove minacce che pesano sulle comunità tradizionali e minacciano di sovvertirle e questi pericoli assumono un volto ebraico. È quanto accade ad esempio con il bolscevismo, che fu uno dei temi preferiti di Giovanni Papini, uno degli autori più apprezzati del filone.
Altri autori di successo?
Ricorderei Guido Milanesi che nel 1922 scrive Kaddish, il romanzo d’Israel e soprattutto nei primi anni Trenta Maria Magda Sala che scrive Russia & Israel, tra le spire della sacerdotessa d’Israel e Lino Cappuccio che firma L’esagramma, romanzo storico. Nomi come si vede oggi del tutto dimenticati ma che allora conobbero un buon riscontro di pubblico grazie a tematiche di chiaro stampo razzista.
Cosa sono gli spettri dell’altro che danno il titolo al volume da lei curato?
Sono queste immagini spettrali dell’alterità che abitano le pagine della letteratura e della cultura italiana del Novecento. Ci troviamo davanti a un altro che viene congelato in una rappresentazione costruita come diversa, inferiore e pericolosa e chiama a una controazione.
Bonavita parla di un vero e proprio “giacimento di stereotipi”. Di che cosa si tratta?
Vi sono materiali tradizionali della tradizione cristiana e prodotti della cultura moderna che vengono messi in movimento nella narrativa. E vi è anche un riuso razzista di Leopardi che viene arruolato dalla rivista La difesa della razza attraverso un sommario florilegio dallo Zibaldone. Il progetto di Riccardo era di non fermarsi alle leggi razziali e al razzismo coloniale ma di risalire il corpo del ventennio fascista alla ricerca delle radici di questa mentalità così da costruire la grammatica e la storia di un’alterità. Nelle sue intenzioni il volume doveva chiudersi sul destino di questi stereotipi nel secondo dopoguerra.

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pilpul
Un sinodo contro Israele 
Vittorio PavoncelloSono anni e anni che la politica mediorientale della Santa Sede si dimostra nettamente antisraeliana. Quando circa 200 palestinesi armati penetrarono nella Basilica della Natività a Betlemme, nel 2002, il Vaticano scatenò una violenta campagna contro Israele su tutti i media cattolici nel mondo. Il solo conflitto mediorientale messo in evidenza nello “Instrumentum laboris” del 6 Giugno scorso, è quello fra Israele e i Palestinesi nel quale Israele eserciterebbe una cosiddetta ingiustizia nei confronti dei palestinesi. Questa sarebbe la causa dell’esodo dei cristiani da tutto il Medio Oriente, affermazione assurda. Il Sinodo ha dato l’occasione ai nemici d’Israele di definirlo “trapianto non assimilabile” in Medio Oriente e “corpo estraneo che corrode”. Ma se non ci fosse Israele, quanti Cristiani rimarrebbero nella regione? Da tempo il Vaticano preferisce una politica di appeasement nei confronti dei fondamentalisti islamici sperando così di comprarsi l’immunità, pagando con moneta israeliana. Ma queste sono pie illusioni. Tre giorni prima della pubblicazione dello Instrumentum laboris per il Sinodo, il vescovo cattolico di Iskanderun e vicenunzio per la Turchia, veniva ucciso dal suo autista islamico. Naturalmente il Vaticano definì subito l’assassino come affetto da pazzia e non ci fu l’ombra di una protesta.
Il Sinodo richiede di “metter fine all’occupazione dei differenti territori arabi” attraverso l’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Ma la famosa Risoluzione 242 prevedeva sì il ritiro israeliano “da territori occupati” solo a condizione di terminare lo stato di belligeranza e di rispettare il diritto di ogni stato di vivere in pace entro frontiere riconosciute. Laddove il risultato del Sinodo si dimostra offensivo è dove esorta gli ebrei a non fare della Bibbia “uno strumento a giustificazione delle ingiustizie”, come se la Chiesa detenesse un monopolio della lettura della Bibbia ebraica.
Ritorna anche la preoccupazione per le “iniziative unilaterali che rischiano di mutare la demografia e lo statuto di Gerusalemme”. Quale statuto? Quello previsto dal piano di spartizione dell’Onu nel 1947 che i palestinesi sostenuti dagli Stati arabi rifiutarono con le armi? Ci eravamo illusi ascoltando la lezione magistrale di Benedetto XVI a Regensburg sull’Islam, che finalmente ci fosse un cambiamento di rotta nei confronti del mondo arabo. Ma durò poco e la Curia impose al Pontefice tre mesi dopo di correre a visitare una mosche di Istanbul. Fino a che prevarrà in Vaticano la politica islamica disastrosa che spera di ammansire i fondamentalisti con qualche dichiarazione anti-israeliana, non si potrà sperare in relazioni normali fra la Santa Sede e Israele.
Il viceministro degli Esteri israeliano, Danny Ayalon, non ha voluto coinvolgere direttamente il Vaticano e si è limitato a criticare la posizione dell’Arcivescovo Bustros. Il futuro ci dirà se Israele si illuda, o se invece il Vaticano si dimostrerà in grado di aprire gli occhi e di tutelare i reali interessi dei cristiani in Medio Oriente.

Sergio Minerbi

Poco da stupirsi
Gadi PolaccoDa laico, nella sua genuina accezione politica, non provo meraviglia nel leggere le risultanze del "Synodus Episcoporum" sul Medio Oriente chiusosi in Vaticano, con la partecipazione del papa, e nemmeno mi sento di contestarle in termini di coerenza e/o legittimità. Apprezzando la chiarezza di intenti che emerge da quei lavori, cosa sempre lodevole nell'ambito della dialettica politica, rilevo infatti il legittimo intendimento della Chiesa a percorrere il percorso scelto, peraltro direi quello sempre seguito, evidentemente ritenuto il più consono ai propri scopi.
Il problema si pone quindi a chi si fosse nel caso illuso circa una "conversione" vaticana verso il mondo ebraico e lo Stato d'Israele che vada oltre ai risultati ormai da tempo archiviati. Confermata la propria posizione di chiusura verso Israele, la Chiesa è andata oltre, senza giri di parole, nel riaffermare la propria "missione". Come si può leggere sul sito del Vaticano che cita l'intervento del Papa, "durante i lavori dell’Assemblea è stata spesso sottolineata la necessità di riproporre il Vangelo alle persone che lo conoscono poco, o che addirittura si sono allontanate dalla Chiesa. Spesso è stato evocato l’urgente bisogno di una nuova evangelizzazione anche per il Medio Oriente. Si tratta di un tema assai diffuso, soprattutto nei paesi di antica cristianizzazione. Anche la recente creazione del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione risponde a questa profonda esigenza. Per questo, dopo aver consultato l’episcopato del mondo intero e dopo aver sentito il Consiglio ordinario della segreteria generale del sinodo dei vescovi, ho deciso di dedicare la prossima assemblea generale ordinaria, nel 2012, al seguente tema: 'Nova evangelizatio ad christianam fidem tradendam - La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana', in termini terra terra, il progetto di conversione”.
A rendere ancora più chiaro il quadro, anche sul piano teologico, ha poi contribuito monsignor Cyrille Salim Bustros, arcivescovo greco-melchita e presidente della Commissione che ha steso il messaggio finale: "Per noi cristiani non si può più parlare di Terra promessa al popolo giudeo....la terra promessa è tutta la terra. Non vi è più un popolo scelto", riferisce l'agenzia Ansa, aggiungendo che secondo il prelato "il Nuovo Testamento ha superato il Vecchio". Pertanto "non ci si può basare sul tema della Terra promessa per giustificare il ritorno degli ebrei in Israele e l'esilio dei palestinesi" ha chiosato Bustros parlando accanto al portavoce vaticano, Federico Lombardi, e al relatore generale del Sinodo, il neo-cardinale Antonios Naguib patriarca dei copti. E allora, seguendo anche l'analisi di Ugo Volli già svolta su queste colonne, prendiamo atto di queste riconfermate chiare posizioni, in verità tali anche prima, e definiamo se oltre al rispetto reciproco vi siano dei comuni ambiti utili di collaborazione. Diciamo un dialogo con la "d" pragmaticamente minuscola e senza tante aspettative, insomma del tipo di quei positivi messaggi che le squadre schierate in campo lanciano insieme, per fare poi ciascuna la propria partita, possibilmente senza falli cattivi...

Gadi Polacco, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

La Terra promessa e la chiesa di Ratzinger
Donatella Di CesareReduce da un passato che non può essere un vanto e da vicissitudini che negli ultimi anni ne hanno seriamente minato l’autorità e compromesso la credibilità, la chiesa di Ratzinger sembra trovare come via d’uscita un cammino all’indietro verso l’era preconciliare, una reazione che cancella ogni apertura dialogica. E così si erge ad arbitro, non richiesto, della scena internazionale, pontifica sul conflitto arabo-israeliano. Che l’arbitro sia di parte - come è emerso dal Sinodo dei vescovi conclusosi ieri - è fuor di dubbio. Non solo tutta la colpa del conflitto peserebbe su Israele. Ma c’è molto di più: dai «territori occupati» si è passati, con una mossa gravissima e sintomatica, a mettere in questione la «terra promessa».
Non si tratta allora dei territori, caduti nelle mani di Israele dopo la guerra che è stato costretto a vincere nel 1967. Si tratta della «terra». La questione politica assume contorni teologici, diventa una questione teologico-politica. E viene articolato a chiare lettere il giudizio di illegittimità emesso su Israele, giudizio che ne intacca l’esistenza. Chi ha mai dato agli ebrei il diritto al «ritorno su quella «terra»? In Eretz Israel? Chi ha concesso al popolo ebraico la «terra promessa»? È questa promessa che appare indigesta alla chiesa.
Già prima del 1945 il ritorno è stato mal tollerato: un ritorno imprevisto, indesiderato. A far ritorno non è forse l’antico Israele che già da secoli avrebbe dovuto essere soppiantato dalla «nuova alleanza» della chiesa? Lo scandalo è questo: malgrado tutti gli sforzi per recidere il legame del popolo ebraico con il paesaggio biblico, per appropriarsi della Torah, del «Vecchio Testamento», Israele ritorna al deserto, varco verso la terra promessa.
Come può ammettere questo ritorno la chiesa, che sin dall’inizio si è autoproclamata erede del popolo ebraico, mirando a soppiantarlo per giustificare la propria identità? La Legge ebraica abolita fa posto alla croce che salva. Così vengono poste le basi per la «elezione» cristiana contro il popolo ebraico condannato ad apparire illegittimo. La «cattolicità» non può sopportare il resto di Israele che non permette al suo presunto universalismo di trionfare. Sì, perché l’Imperium per eccellenza è la Chiesa, la cui espansione, cioè l’evangelizzazione spesso forzata e coatta di interi popoli, ha assunto nei secoli forme imperialistiche e violente.
Da quale pulpito si emettono sentenze sul diritto di Israele ad esistere? Questo diritto si fonda - è bene chiarirlo - sulla storia del popolo ebraico che, se è sopravvissuto a secoli di esilio, è perché è rimasto legato a Sion, rivolto con la sua speranza a Yerushalaim. Negare la sua storia è come negare la sua esistenza.
Quanto al «peccato originale» di Israele, quello cioè di appropriarsi di una terra non sua, in cui è anzi un intruso, un estraneo, occorre allora rinviare alla Torà. Quale idea è più grandiosa e più attuale, nel mondo della globalizzazione, di quella della «terra promessa» che il popolo ebraico ha donato all’umanità? L’idea di una terra non rivendicata come luogo di origine, come proprietà e possesso dell’autoctono, ma come promessa, non terra-madre, ma terra-sposa, terra verso cui si è in cammino, non per sacralizzarla, certo, ma per santificarla, per costruire una nuova comunità e abitarla, sul modello di Abramo, come «stranieri residenti». È questa - lo sappiamo bene - la responsabilità che attende Israele al suo bordo escatologico, ben più prezioso di ogni altro confine da preservare.

Donatella di Cesare, filosofa

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Israele - Deputato israeliano Ben Ari:
“L'Onu indaghi sui crimini Usa in Iraq”

Tel Aviv, 25 ottobre
 
Leggi la rassegna

Il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon farebbe cosa opportuna se spiccasse mandati internazionali di arresto nei confronti dei dirigenti americani e degli alti ufficiali coinvolti nella campagna in Iraq. Questa la provocazione lanciata dal deputato israeliano di estrema destra, Michael Ben Ari, che alla luce dei dati emersi e resi noti su Wikileaks, invita le Nazioni unite a compiere le dovuti indagini sul caso.   
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Settimana intensa e problematica, quella che si è conclusa nei giorni scorsi e che lascia presagire difficoltà nei tempi prossimi a venire. Concentriamoci sulla chiusura dei lavori del Sinodo della Chiesa Cattolica dedicato al Medio Oriente del quale, sui giornali di questi giorni, è stato dato ampio resoconto. L’articolazione dei lavori, com’è di prassi in questi casi, è stata robusta. »

Claudio Vercelli






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