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25 ottobre
2010 - 17 Cheshvan 5771 |
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Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma
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"Se anche la
tua dispersione fosse all'estremo del cielo, di là ti raccoglierà il
Signore D. tuo e di là ti prenderà, e ti condurrà alla terra che i tuoi
padri hanno posseduto e tu ne prenderai possesso" ( Deuteronomio
30:4-5). Dedicato ai reverendi Padri Sinodali mediorientali che
partono oggi da Roma, senza rimpianto da parte nostra. "Raccoglici
insieme dai quattro angoli della terra alla nostra terra. Benedetto tu
o Signore, che raccogli le dispersioni di Israele" (dalla preghiera
della Amidà che si recita tre volte al giorno nei giorni feriali). "Il
Giudice di tutta la terra non farà giustizia?" ( Genesi 18:25).
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Anna
Foa,
storica
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Nel suo ultimo alef/tav sul negazionismo, David Bidussa
propone di "studiare e sapere". Una proposta semplice semplice ma di
difficile attuazione. Per aiutarvi a procedere su questa strada, vorrei
segnalarvi l'ultimo fascicolo, appena uscito, della Revue d'histoire de
la Shoah, la rivista, diretta da Georges Bensoussan, del Centre de
Documentation Juive Contemporaine. E' un grosso fascicolo dedicato
all'insegnamento della storia della Shoah, centrato prevalentemente
sulla Francia ma con una sezione dedicata agli altri paesi, e con due
saggi dedicati all'Italia. Nel momento in cui sembrano
prevalere ovunque populismo e semplificazioni, uno studio dedicato a
chi insegna, cioè a chi ha il compito di essere un buon maestro, può
aiutarci a far crescere il nostro spirito critico, e in ogni caso
può tirarci fuori almeno un poco dal pessimismo in cui ci sentiamo ogni
giorno di più sprofondare. Studiare per credere.
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Ebrei in Europa: Memoria, identità, futuro
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Il
rabbino capo ashkenazita di Israele Yona Metzger ha aperto questa
mattina a Berlino i lavori dell'European Council of Jewish Communities
con un Kaddish in memoria di tutti i deportati e una prolusione
dedicata alla centralità dei rapporti fra Israele e la Diaspora e alla
Memoria, l'identità e al futuro del popolo ebraico. I lavori
dell'incontro fra leader ebraici provenienti da tutta Europa, da
Israele e dagli Stati Uniti proseguono sviluppando un confronto su temi
come "Europa e Israele, così vicine e così lontane", "Media: come
possono le realtà ebraiche gestire la pressione?", "Crisi economica
globale e e impatto sulle comunità ebraiche", "Ebraismo americano e
ebraismo europeo: le due realtà dovrebbero sviluppare una maggiore
comunicazione?" e "Diversità ebraica in Europa, come è possibile
cooperare e mantenere la propria identità ebraica?".
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Dossier - I falsi dell'odio
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Quel tabù odioso del piccolo borghese
Il
furore antisemita non è frutto di un fuggevole oscuramento delle
coscienze né di un improvviso palpito ideologico. L’odio degli ebrei si
nutre invece della carne viva della società rielaborandone in modo
sistematico temi, paure e ideali. A sostenerlo è Francesco Germinario,
ricercatore alla Fondazione Luigi Micheletti di Brescia, che a
quest’argomento ha dedicato un importante studio dal titolo Costruire
la razza nemica - La formazione dell’immaginario antisemita tra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Nel volume, pubblicato
quest’anno da Utet, il professor Germinario analizza, utilizzando la
pubblicistica dell’epoca, lo sviluppo del pregiudizio antiebraico. “Se
pensassimo che l’antisemitismo è ideologia che sorge in modo spontaneo
nella società contemporanea - spiega - commetteremmo un errore
grossolano. Come qualsiasi ideologia politica l’antisemitismo non fa
altro che riprendere e rielaborare aspetti politici della società in
cui vive. E’ una cultura interna alla società”. Professor Germinario, dove possiamo rintracciare la genesi dell’immaginario antisemita contemporaneo in Europa? Per
molti aspetti l’immaginario antisemita moderno rielabora in chiave
secolarizzata stereotipi appartenenti alla tradizione cattolica
antigiudaica, ad esempio l’identificazione tra l’ebreo e il denaro o lo
stereotipo della “razza pazza”. Ciò avviene soprattutto per due motivi.
Nella seconda metà dell’Ottocento compaiono i primi movimenti politici
di contestazione della società liberale, tra cui il socialismo,
l’anarchismo e i movimenti sindacali. In questo momento, in cui la
modernità liberale mostra le prime crepe, l’antisemitismo è un
movimento di contestazione, insofferente della modernità e soprattutto
della modernità pluralista e liberale. Non è un vero e proprio
movimento di rottura dal punto di vista culturale ma è comunque una
teoria politica rivoluzionaria perché intende rovesciare la società
liberale e borghese. Quali sono le categorie su cui si fonda? Alla
base dell’antisemitismo moderno c’è l’idea che l’ebraismo cospiri per
la tirannide mondiale. Vi è la riduzione dell’ebraismo a razza e la
convinzione che l’epoca liberale sia quella dell’ebraizzazione degli
individui. In quest’epoca tutti assumerebbero atteggiamenti, cultura e
relazioni personali e sociali che alcuni autori definiscono “biblici”,
“talmudici” o “salomonici”: comportamenti più liberi, ispirati
all’egualitarismo. Ciò che l’antisemitismo imputa alla società liberale
è proprio il fatto che l’emancipazione dal ghetto non ha affatto
deebreizzato gli ebrei, come invece si pensava sarebbe accaduto.
Viceversa l’ebreo liberato dal ghetto ha ebraizzato chi non lo era
influenzando il suo modo di vivere e di pensare. Come si passa da queste teorie all’antisemitismo novecentesco con le sue tragiche conseguenze? Distinguerei
fra un antisemitismo monotematico e uno contaminato. I primi sono di
contestazione della società, battono su un solo tema e non riescono ad
allargare in modo esplicito la loro udienza. Si ritagliano dunque spazi
molto ristretti di mercato politico. L’antisemitismo diventa pericoloso
nel momento in cui si contamina e si incrocia, negli anni Venti e
Trenta, con altre ipotesi politiche, pensiamo al nazismo e all’estrema
destra, che sono antisemiti ma sono anche altro. In quel momento entra
in azione una miscela esplosiva. Il problema non è solo di distinguere
fra l’una e l’altra forma ma di interrogarsi su questa contaminazione
con movimenti politici generalisti esplicitamente totalitari che
dimostra come già dall’inizio l’antisemitismo aveva una chiara
vocazione totalitaria che non era però riuscito a organizzare in modo
autonomo. Anche la versione monotematica può quindi essere considerata
un orientamento a chiara vocazione totalitaria, in cerca dei movimenti
politici con cui convolare a nozze.
I best seller del pregiudizio
Nei
primi decenni del secolo scorso l’odio per gli ebrei raggiungeva anche
i più remoti angoli d’Europa grazie alle cartoline postali. Queste
carte, oggi divenute oggetto di studio da parte degli storici,
testimoniano con immediatezza la straordinaria pervasività dello
stereotipo antisemita attraverso le loro illustrazioni, tristi e
volgari al tempo stesso, che rappresentano caricature di ebrei dal naso
adunco, ebrei che come ragni tessono la tela del dominio mondiale o
ebrei dalle fattezze sataniche che accumulano patrimoni ai danni del
popolo. Un ruolo per tanti versi analogo è quello svolto dalla
letteratura di massa che propalando, attraverso intrecci e personaggi,
luoghi comuni e pregiudizi raggiunge un pubblico ben più ampio di
quello attento alla cosa politica. In Italia, così come nel resto
d’Europa, spetta dunque ai romanzi il dubbio compito di inoculare nella
mente dei lettori il seme dell’odio antisemita mettendo in scena belle
ebree dai liberi costumi che tramano a favore del loro popolo o ebrei
malvagi che cospirano contro l’umanità per impadronirsi del potere. Una
prima analisi di questo fenomeno culturale la dobbiamo a Riccardo
Bonavita (1968 – 2005), intellettuale comunista, studioso di
letteratura italiana, autore di un’indagine acuta e originale della
storia del razzismo politico italiano che prende le mosse dalla
convinzione che la cultura razzista in Italia non si esaurisce nella
parentesi delle leggi razziali ma scaturisce da un serbatoio d’idee e
pregiudizi che si struttura già nei primi dell’Ottocento. Alcuni dei
saggi scritti da Bonavita tra il ‘95 e il 2003 sono stati raccolti nel
volume Spettri dell’altro - Letteratura e razzismo nell’Italia
contemporanea (il Mulino, 2010) dall’amico Michele Nani, ricercatore al
Dipartimento di storia dell’Università di Padova, esperto di storia del
razzismo e del nazionalismo in Italia, che ha curato il libro insieme
all’italianista Giuliana Benvenuti. “Fin dagli anni dell’università
eravamo entrambi amici di Riccardo, con cui abbiamo condiviso molte
esperienze. Sentivamo l’urgenza morale di rendere disponibili i suoi
contributi disseminati in riviste e altre pubblicazioni e di pubblicare
questo lavoro a cui lui stesso lavorando e che la sua scomparsa aveva
lasciato in sospeso. Siamo riusciti a ricomporlo grazie alla
disponibilità dell’editore, della moglie Cristiana Facchini e di tanti
amici dando così conto di un percorso che ha anticipato di alcuni
decenni la vague della ricerca sul razzismo italiano”. In che modo il lavoro di Riccardo Bonavita è un anticipatore? Oggi
forse è difficile rendersene pienamente conto. Ormai sono tutti
disposti, almeno per ciò che riguarda il Novecento, a guardare in
faccia la robusta tradizione del razzismo italiano: fino agli anni
Ottanta era invece un argomento molto controverso e molte voci negavano
il coinvolgimento degli italiani e dello stato italiano nelle
iniziative razziste. Le leggi razziali erano viste come mosse tattiche
e politicamente inevitabili e spesso venivano rubricate alla voce
colonialismo o imitazione della Germania. Già il fatto di eleggere il
razzismo a tema di ricerca era controcorrente e ricercarlo nell’alta
cultura in un certo senso lo era ancora di più. Siamo dunque davanti a
una doppia innovazione che sembrò provocatoria e politica. Altro
elemento innovativo è la percezione di come si studia il razzismo. Parla dell’approccio alla letteratura? Le
ricerche fino allora si concentravano sull’aspetto della legislazione,
Riccardo già si lanciava nella dimensione sociale e culturale:
affrontando le idee dominanti e la loro ricezione nella società e nella
mentalità collettiva. Studiare la letteratura, alta e bassa, il cinema
o le arti figurative ci consente infatti di leggere una cultura
impregnata di razzismo assai più ampia di quel che fino a un certo
punto si pensava esistesse. Ed è una dimensione che spiega bene
l’adesione di massa che avvenne in quegli anni. Riccardo Bonavita analizza la narrativa di consumo di successo negli anni Trenta. Perché proprio questa scelta? Molti
di quei romanzi erano intrisi di gerarchie razziali sia nei confronti
degli africani sia degli ebrei. Vi si ritrova una visione gerarchica e
naturalistica dell’universo in cui le differenze sociali e culturali
erano trascritte nel corpo degli individui. Vi è poi uno stretto nesso
tra razzismo e sessismo. Il fatto stesso che i lettori amassero questi
libri spiega come questi stereotipi venivano assimilati. Che motivi vi si ritrovano? Vi
è una perfetta corrispondenza con letteratura antisemita ottocentesca:
temi propri della polemica antigiudaica d’ispirazione cristiana
s’impastano con le nuove minacce che pesano sulle comunità tradizionali
e minacciano di sovvertirle e questi pericoli assumono un volto
ebraico. È quanto accade ad esempio con il bolscevismo, che fu uno dei
temi preferiti di Giovanni Papini, uno degli autori più apprezzati del
filone. Altri autori di successo? Ricorderei
Guido Milanesi che nel 1922 scrive Kaddish, il romanzo d’Israel e
soprattutto nei primi anni Trenta Maria Magda Sala che scrive Russia
& Israel, tra le spire della sacerdotessa d’Israel e Lino Cappuccio
che firma L’esagramma, romanzo storico. Nomi come si vede oggi del
tutto dimenticati ma che allora conobbero un buon riscontro di pubblico
grazie a tematiche di chiaro stampo razzista. Cosa sono gli spettri dell’altro che danno il titolo al volume da lei curato? Sono
queste immagini spettrali dell’alterità che abitano le pagine della
letteratura e della cultura italiana del Novecento. Ci troviamo davanti
a un altro che viene congelato in una rappresentazione costruita come
diversa, inferiore e pericolosa e chiama a una controazione. Bonavita parla di un vero e proprio “giacimento di stereotipi”. Di che cosa si tratta? Vi
sono materiali tradizionali della tradizione cristiana e prodotti della
cultura moderna che vengono messi in movimento nella narrativa. E vi è
anche un riuso razzista di Leopardi che viene arruolato dalla rivista
La difesa della razza attraverso un sommario florilegio dallo
Zibaldone. Il progetto di Riccardo era di non fermarsi alle leggi
razziali e al razzismo coloniale ma di risalire il corpo del ventennio
fascista alla ricerca delle radici di questa mentalità così da
costruire la grammatica e la storia di un’alterità. Nelle sue
intenzioni il volume doveva chiudersi sul destino di questi stereotipi
nel secondo dopoguerra.
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Un sinodo contro Israele
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Sono
anni e anni che la politica mediorientale della Santa Sede si dimostra
nettamente antisraeliana. Quando circa 200 palestinesi armati
penetrarono nella Basilica della Natività a Betlemme, nel 2002, il
Vaticano scatenò una violenta campagna contro Israele su tutti i media
cattolici nel mondo. Il solo conflitto mediorientale messo in evidenza
nello “Instrumentum laboris” del 6 Giugno scorso, è quello fra Israele
e i Palestinesi nel quale Israele eserciterebbe una cosiddetta
ingiustizia nei confronti dei palestinesi. Questa sarebbe la causa
dell’esodo dei cristiani da tutto il Medio Oriente, affermazione
assurda. Il Sinodo ha dato l’occasione ai nemici d’Israele di definirlo
“trapianto non assimilabile” in Medio Oriente e “corpo estraneo che
corrode”. Ma se non ci fosse Israele, quanti Cristiani rimarrebbero
nella regione? Da tempo il Vaticano preferisce una politica di
appeasement nei confronti dei fondamentalisti islamici sperando così di
comprarsi l’immunità, pagando con moneta israeliana. Ma queste sono pie
illusioni. Tre giorni prima della pubblicazione dello Instrumentum
laboris per il Sinodo, il vescovo cattolico di Iskanderun e vicenunzio
per la Turchia, veniva ucciso dal suo autista islamico. Naturalmente il
Vaticano definì subito l’assassino come affetto da pazzia e non ci fu
l’ombra di una protesta. Il Sinodo richiede di “metter fine
all’occupazione dei differenti territori arabi” attraverso
l’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Ma la
famosa Risoluzione 242 prevedeva sì il ritiro israeliano “da territori
occupati” solo a condizione di terminare lo stato di belligeranza e di
rispettare il diritto di ogni stato di vivere in pace entro frontiere
riconosciute. Laddove il risultato del Sinodo si dimostra offensivo è
dove esorta gli ebrei a non fare della Bibbia “uno strumento a
giustificazione delle ingiustizie”, come se la Chiesa detenesse un
monopolio della lettura della Bibbia ebraica. Ritorna anche la
preoccupazione per le “iniziative unilaterali che rischiano di mutare
la demografia e lo statuto di Gerusalemme”. Quale statuto? Quello
previsto dal piano di spartizione dell’Onu nel 1947 che i palestinesi
sostenuti dagli Stati arabi rifiutarono con le armi? Ci eravamo illusi
ascoltando la lezione magistrale di Benedetto XVI a Regensburg
sull’Islam, che finalmente ci fosse un cambiamento di rotta nei
confronti del mondo arabo. Ma durò poco e la Curia impose al Pontefice
tre mesi dopo di correre a visitare una mosche di Istanbul. Fino a che
prevarrà in Vaticano la politica islamica disastrosa che spera di
ammansire i fondamentalisti con qualche dichiarazione anti-israeliana,
non si potrà sperare in relazioni normali fra la Santa Sede e Israele. Il
viceministro degli Esteri israeliano, Danny Ayalon, non ha voluto
coinvolgere direttamente il Vaticano e si è limitato a criticare la
posizione dell’Arcivescovo Bustros. Il futuro ci dirà se Israele si
illuda, o se invece il Vaticano si dimostrerà in grado di aprire gli
occhi e di tutelare i reali interessi dei cristiani in Medio Oriente.
Sergio Minerbi
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Poco da stupirsi
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Da
laico, nella sua genuina accezione politica, non provo meraviglia nel
leggere le risultanze del "Synodus Episcoporum" sul Medio Oriente
chiusosi in Vaticano, con la partecipazione del papa, e nemmeno mi
sento di contestarle in termini di coerenza e/o legittimità.
Apprezzando la chiarezza di intenti che emerge da quei lavori, cosa
sempre lodevole nell'ambito della dialettica politica, rilevo infatti
il legittimo intendimento della Chiesa a percorrere il percorso scelto,
peraltro direi quello sempre seguito, evidentemente ritenuto il più
consono ai propri scopi. Il problema si pone quindi a chi si
fosse nel caso illuso circa una "conversione" vaticana verso il mondo
ebraico e lo Stato d'Israele che vada oltre ai risultati ormai da tempo
archiviati. Confermata la propria posizione di chiusura verso Israele,
la Chiesa è andata oltre, senza giri di parole, nel riaffermare la
propria "missione". Come si può leggere sul sito del Vaticano che cita
l'intervento del Papa, "durante i lavori dell’Assemblea è stata spesso
sottolineata la necessità di riproporre il Vangelo alle persone che lo
conoscono poco, o che addirittura si sono allontanate dalla Chiesa.
Spesso è stato evocato l’urgente bisogno di una nuova evangelizzazione
anche per il Medio Oriente. Si tratta di un tema assai diffuso,
soprattutto nei paesi di antica cristianizzazione. Anche la recente
creazione del Pontificio consiglio per la promozione della nuova
evangelizzazione risponde a questa profonda esigenza. Per questo, dopo
aver consultato l’episcopato del mondo intero e dopo aver sentito il
Consiglio ordinario della segreteria generale del sinodo dei vescovi,
ho deciso di dedicare la prossima assemblea generale ordinaria, nel
2012, al seguente tema: 'Nova evangelizatio ad christianam fidem
tradendam - La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede
cristiana', in termini terra terra, il progetto di conversione”. A
rendere ancora più chiaro il quadro, anche sul piano teologico, ha poi
contribuito monsignor Cyrille Salim Bustros, arcivescovo greco-melchita
e presidente della Commissione che ha steso il messaggio finale: "Per
noi cristiani non si può più parlare di Terra promessa al popolo
giudeo....la terra promessa è tutta la terra. Non vi è più un popolo
scelto", riferisce l'agenzia Ansa, aggiungendo che secondo il prelato
"il Nuovo Testamento ha superato il Vecchio". Pertanto "non ci si può
basare sul tema della Terra promessa per giustificare il ritorno degli
ebrei in Israele e l'esilio dei palestinesi" ha chiosato Bustros
parlando accanto al portavoce vaticano, Federico Lombardi, e al
relatore generale del Sinodo, il neo-cardinale Antonios Naguib
patriarca dei copti. E allora, seguendo anche l'analisi di Ugo Volli
già svolta su queste colonne, prendiamo atto di queste riconfermate
chiare posizioni, in verità tali anche prima, e definiamo se oltre al
rispetto reciproco vi siano dei comuni ambiti utili di collaborazione.
Diciamo un dialogo con la "d" pragmaticamente minuscola e senza tante
aspettative, insomma del tipo di quei positivi messaggi che le squadre
schierate in campo lanciano insieme, per fare poi ciascuna la propria
partita, possibilmente senza falli cattivi...
Gadi Polacco, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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La Terra promessa e la chiesa di Ratzinger
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Reduce
da un passato che non può essere un vanto e da vicissitudini che negli
ultimi anni ne hanno seriamente minato l’autorità e compromesso la
credibilità, la chiesa di Ratzinger sembra trovare come via d’uscita un
cammino all’indietro verso l’era preconciliare, una reazione che
cancella ogni apertura dialogica. E così si erge ad arbitro, non
richiesto, della scena internazionale, pontifica sul conflitto
arabo-israeliano. Che l’arbitro sia di parte - come è emerso dal Sinodo
dei vescovi conclusosi ieri - è fuor di dubbio. Non solo tutta la colpa
del conflitto peserebbe su Israele. Ma c’è molto di più: dai «territori
occupati» si è passati, con una mossa gravissima e sintomatica, a
mettere in questione la «terra promessa». Non si tratta allora
dei territori, caduti nelle mani di Israele dopo la guerra che è stato
costretto a vincere nel 1967. Si tratta della «terra». La questione
politica assume contorni teologici, diventa una questione
teologico-politica. E viene articolato a chiare lettere il giudizio di
illegittimità emesso su Israele, giudizio che ne intacca l’esistenza.
Chi ha mai dato agli ebrei il diritto al «ritorno su quella «terra»? In
Eretz Israel? Chi ha concesso al popolo ebraico la «terra promessa»? È
questa promessa che appare indigesta alla chiesa. Già prima del
1945 il ritorno è stato mal tollerato: un ritorno imprevisto,
indesiderato. A far ritorno non è forse l’antico Israele che già da
secoli avrebbe dovuto essere soppiantato dalla «nuova alleanza» della
chiesa? Lo scandalo è questo: malgrado tutti gli sforzi per recidere il
legame del popolo ebraico con il paesaggio biblico, per appropriarsi
della Torah, del «Vecchio Testamento», Israele ritorna al deserto,
varco verso la terra promessa. Come può ammettere questo ritorno
la chiesa, che sin dall’inizio si è autoproclamata erede del popolo
ebraico, mirando a soppiantarlo per giustificare la propria identità?
La Legge ebraica abolita fa posto alla croce che salva. Così vengono
poste le basi per la «elezione» cristiana contro il popolo ebraico
condannato ad apparire illegittimo. La «cattolicità» non può sopportare
il resto di Israele che non permette al suo presunto universalismo di
trionfare. Sì, perché l’Imperium per eccellenza è la Chiesa, la cui
espansione, cioè l’evangelizzazione spesso forzata e coatta di interi
popoli, ha assunto nei secoli forme imperialistiche e violente. Da
quale pulpito si emettono sentenze sul diritto di Israele ad esistere?
Questo diritto si fonda - è bene chiarirlo - sulla storia del popolo
ebraico che, se è sopravvissuto a secoli di esilio, è perché è rimasto
legato a Sion, rivolto con la sua speranza a Yerushalaim. Negare la sua
storia è come negare la sua esistenza. Quanto al «peccato
originale» di Israele, quello cioè di appropriarsi di una terra non
sua, in cui è anzi un intruso, un estraneo, occorre allora rinviare
alla Torà. Quale idea è più grandiosa e più attuale, nel mondo della
globalizzazione, di quella della «terra promessa» che il popolo ebraico
ha donato all’umanità? L’idea di una terra non rivendicata come luogo
di origine, come proprietà e possesso dell’autoctono, ma come promessa,
non terra-madre, ma terra-sposa, terra verso cui si è in cammino, non
per sacralizzarla, certo, ma per santificarla, per costruire una nuova
comunità e abitarla, sul modello di Abramo, come «stranieri residenti».
È questa - lo sappiamo bene - la responsabilità che attende Israele al
suo bordo escatologico, ben più prezioso di ogni altro confine da
preservare.
Donatella
di Cesare, filosofa
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notizieflash |
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rassegna
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Israele - Deputato israeliano Ben Ari: “L'Onu indaghi sui crimini Usa in Iraq”
Tel Aviv, 25 ottobre
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Il
segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon farebbe cosa opportuna se
spiccasse mandati internazionali di arresto nei confronti dei dirigenti
americani e degli alti ufficiali coinvolti nella campagna in Iraq.
Questa la provocazione lanciata dal deputato israeliano di estrema
destra, Michael Ben Ari, che alla luce dei dati emersi e resi noti su
Wikileaks, invita le Nazioni unite a compiere le dovuti indagini sul
caso. »
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Settimana
intensa e problematica, quella che si è conclusa nei giorni scorsi e
che lascia presagire difficoltà nei tempi prossimi a venire.
Concentriamoci sulla chiusura dei lavori del Sinodo della Chiesa
Cattolica dedicato al Medio Oriente del quale, sui giornali di questi
giorni, è stato dato ampio resoconto. L’articolazione dei lavori, com’è
di prassi in questi casi, è stata robusta. » Claudio Vercelli
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