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6 dicembre 2010 - 29 Kislev 5771
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l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
 
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Riccardo Di Segni
Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma

Tempi di Hanukkah, tempi di piccoli miracoli. Il successo della maratona talmudica romana di rav Steinsaltz va sottolineato ma anche interpretato. Il linguaggio e le idee di rav Steinsaltz favoriscono l'avvicinamento e l'interesse per il Talmud di un pubblico lontano, e quanto più i messaggi sono attraenti per questo pubblico, tanto più generano perplessità e riprovazione negli ambienti più ortodossi. E' il prezzo che paga chiunque tenta di fare ponti. Ma anche quello che succede dall'altra parte del ponte merita attenzione. Il rav sottolinea la necessità dello studio e l'apprezzamento della dialettica e dello spirito critico che caratterizzano il Talmud. Molti ebrei intellettuali apprezzano dialettica e spirito critico, allo stesso modo in cui disprezzano forme religiose che considerano frutto di ignoranza, mancanza di critica e chiusura mentale. Si costruisce il mito della dialettica e della critica come fondamenti principali dell'ebraismo, per arrivare alla conclusione che se studiasse un po' più il Talmud il mondo religioso non sarebbe così ottuso (la ciliegina sulla torta del ragionamento è che proprio quello che succede a Roma e in Italia, dove la Chiesa ha proibito lo studio del Talmud...). Ci vuole una bella dose di chutzpa, faccia tosta, per scivolare su questa conclusione affrettata. Perché ottusità, chiusura e presunzione possono essere religiose come non religiose e non sono merce rara presso i sedicenti intellettuali; il Talmud sviluppa lo spirito critico, che è il sale e lo stimolo di ogni ragionamento; ma se lo si studiasse veramente, e non come luogo di pura ginnastica intellettuale, molte idee sbagliate sulla pratica religiosa ebraica, potrebbero, appunto, essere messe in discussione. Ma su una cosa almeno possiamo essere d'accordo: che bisogna studiare.  


Maurizio
Molinari,
giornalista
   

Maurizio Molinari
Il basket universitario di New York è attraversato da un terremoto: ben nove allenatori cambiano squadra. A restare sulla panchina invece è Jonathan Halpert, 66 anni, da ben 39 anni allenatore dei "Maccabees" della Yeshiva University. Ogni anno Halpert minaccia di andarsene ma il suo curriculum oramai somma 387 vittorie, 2 titoli di migliore allenatore e il record di 15 stagioni - dal 1987 al 2002 - senza una sconfitta. Il tutto ottenuto gestendo una squadra che non gioca né si allena il sabato, ha un calendario diverso da tutte le altre ed è costantemente alle prese con giocatori che vanno a studiare per un anno in Israele. Le sinagoghe di New York se lo contendono ogni Shabbat perché, come scrive il Wall Street Journal, "c'è ancora chi non sa cos'è il basket ma tutti sanno chi è Halpert", che anche quest'anno ha promesso di andarsene a fine campionato.

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L'Italia ebraica a congresso 
Gattegna_napolitanoL'intervento, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e delle massime autorità dello Stato, della storica Anna Foa dedicato alla storia degli ebrei italiani a 150 dall'Unità nazionale. La relazione generale del Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche, Renzo Gattegna, che ha tracciato un quadro dell'attività svolta e ha invitato i delegati al dibattito elencando punto per punto le prospettive e le problematiche su cui gli ebrei italiani sono chiamati a scegliere. L'entrata nel vivo del confronto. La seconda giornata del Congresso UCEI è stata contrassegnata già dalla mattinata da un lavoro intenso e da momenti alti e intensi di coinvolgimento per i delegati e i loro ospiti. Il notiziario di stamane offre al lettore alcuni elementi che hanno contrassegnato i lavori.
Ecco l'indirizzo di saluto rivolto dal Presidente Gattegna a Giorgio Napolitano.

PubblicoIllustre e caro Presidente Napolitano,

la Sua presenza alla cerimonia di inaugurazione del nostro Congresso quadriennale è fonte di orgoglio e di vera gioia.
Non voglio usare parole retoriche né voglio rivolgere a Lei  un saluto puramente formale, perché invece sento nel profondo del mio animo il grande significato del Suo essere oggi qui tra noi.
Giunto alla scadenza del mandato quadriennale di presidenza dell’Unione, considero una grande fortuna aver avuto tante occasioni di incontro con Lei nel corso di eventi più o meno solenni; naturalmente tutto ciò non è avvenuto per caso e io ho percepito, fin dalle prime occasioni, da parte   Sua grande disponibilità, considerazione e  amicizia  nei confronti delle comunità ebraiche  e di coloro che le rappresentano.
Sento di interpretare il sentimento di tutti gli ebrei italiani nel definire memorabili i Giorni della Memoria che si sono ripetuti il 27 gennaio di ogni anno e che sono stati trasformati, per Suo merito, in grandi e significative occasioni di diffusione di cultura, di conoscenza e di coscienza civile per tutti e in particolare per i giovani e gli studenti.
Non ci è sfuggito il significato della Sua accoglienza, ogni anno, nelle sale del Quirinale; sono stati momenti nei quali la solennità non è stata fine a se stessa, ma è servita per  incidere nella memoria e per creare e consolidare una tradizione che pone i valori fondanti della nostra nazione e della nostra democrazia  ai livelli più alti.
Queste e molte altre sono state le occasioni nelle quali abbiamo sentito quanto fosse importante che il Presidente della Repubblica  tenesse vicino a sé i rappresentanti dell’ebraismo italiano, una vicinanza che aveva il significato di esprimere la considerazione per la partecipazione degli ebrei alla vita nazionale, con la loro cultura e le loro tradizioni.
Questo si ricollega alla bella definizione delle Comunità Ebraiche che viene data, in quel fondamentale documento che è l’Intesa con lo Stato Italiano: “Formazioni sociali originarie”.
Come se  queste avessero svolto la funzione di cellule embrionali dalle quali la nostra nazione e i suoi valori civili e morali sono nati e si sono formati.
Non è stato un fatto casuale, per noi è stata una scelta spontanea e naturale  farLe pervenire quell’invito, che Lei ha avuto la cortesia e la sensibilità di accettare.
Ora che Lei è qui posso esplicitare un  intimo sentimento: speravo ardentemente che Lei accettasse e avevo dentro di me la solida certezza che, a meno di motivi di forza maggiore, Lei non avrebbe deluso le nostre aspettative, come mai le ha deluse in tanti anni.
Se sorprese abbiamo avuto da Lei, Illustre Presidente, sono sempre state eccezionalmente positive; da questo deriva la nostra ammirazione e la nostra gratitudine per il prestigio che la Sua opera assicura al nostro Paese.
Concludo riconfermando un impegno che  tocca profondamente corde sensibili dell’animo degli ebrei italiani i quali, quando gli è stato consentito,  hanno profuso  impegno, entusiasmo e  generosità  nel fare dono all’Italia delle proprie risorse materiali, morali e culturali e anche delle loro vite.
Basti ricordare il grande apporto dato al Risorgimento, all’Unità della Nazione, di cui iniziamo a festeggiare i 150 anni, alla Prima Guerra mondiale, che ha visto numerosissimi ebrei arruolati nell’esercito in tutti i gradi, da generali a semplici soldati, alla Resistenza contro le dittature; sempre hanno manifestato  fedeltà agli ideali,  senso di appartenenza e  spirito di sacrificio.
Sappiamo tutti come purtroppo gli ebrei furono ricambiati dal fascismo, che perpetrò un atroce tradimento, promulgando le leggi del 1938 e ponendosi al fianco dei nazisti nelle persecuzioni e nella “soluzione finale”.
Ebbene, anche fortificati da tragiche esperienze del passato per la difesa della libertà, dell’uguaglianza, della democrazia  e di tutti i valori solennemente enunciati nella nostra Costituzione, gli ebrei non hanno mai smesso di lottare e tengono ben alta la vigilanza.
Sappia caro e illustre  Presidente che, per difendere questi valori, dei quali Lei è il sommo custode e tutore, gli ebrei italiani saranno sempre al Suo fianco.

Renzo Gattegna , Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane     


Ucei a congresso - Anna Foa: "La nostra storia di ebrei italiani"

Anna Foa"“Che forte e intensa sia stata l’identificazione della minoranza ebraica italiana con il processo di costruzione dello Stato unitario, è cosa nota. Consapevoli che ogni speranza di emancipazione, negata loro ostinatamente dai governi dell’antico regime, poteva venire solo dai “novatori”, gli ebrei italiani partecipano all’attività cospirativa mazziniana, ai moti del 1820-21 e del 1830-31, alla Repubblica romana del 1848, per la cui difesa versano il sangue, alle guerre del Risorgimento, alla presa di Roma il 20 settembre 1870, in cui fu, com’è noto, un ufficiale ebreo piemontese a dare l’ordine di aprire il fuoco. Ma l’emancipazione, ottenuta insieme con i valdesi dagli ebrei piemontesi nel 1848, e poi dagli ebrei degli altri Stati italiani man mano che si compiva il processo di unificazione, non fu soltanto una svolta radicale nel percorso delle comunità ebraiche che popolavano la penisola. Essa fu anche e soprattutto un momento qualificante della costruzione del nuovo Stato italiano, e lungi dal rappresentarne una sorta di conseguenza marginale, ne segnò profondamente il percorso, divenendone, con il connesso principio della tolleranza di tutti i culti religiosi e poi con quello dell’uguaglianza dei culti di fronte alla legge, uno dei pilastri basilari. Non è un caso che in quei decenni al Risorgimento italiano guardassero gli ebrei d’Europa, come Moses Hess che nel 1861 dalla Germania, nel suo Roma e Gerusalemme, si ispirava alla costruzione nazionale italiana per elaborare il progetto di un Risorgimento ebraico. Nello stesso spirito, nel 1918, Dante Lattes avrebbe definito l’irredentismo il sionismo d’Italia e il sionismo l’irredentismo d’Israele. L’accento di entrambi è sulla caratterizzazione del processo di emancipazione ebraica come adesione alla patria italiana. Una vera e propria “nazionalizzazione parallela” degli ebrei e degli altri italiani, come dirà Arnaldo Momigliano in una pagina famosa del 1933: “la formazione della coscienza nazionale italiana negli ebrei è parallela alla formazione della coscienza nazionale nei piemontesi o nei napoletani o nei siciliani: è un momento dello stesso percorso e vale a caratterizzarlo”.
Molteplici e complesse sono le origini di questo stretto intreccio tra i due movimenti e dell’identificazione degli ebrei con lo Stato italiano. Una di esse, la più remota e di lungo periodo, è certamente il profondo radicamento del mondo ebraico italiano, il fatto che dall’antichità romana in poi gli ebrei d’Italia, o almeno una gran parte di essi, restassero “cives romani”, sia pure di seconda categoria. In una notevole parte dell’Italia, in sostanza quella che non ricade sotto l’orbita spagnola, gli ebrei continuano ad esser presenti nei secoli della prima età moderna, e questo proprio nel momento in cui sono invece stati cacciati da quasi tutti gli Stati europei ansiosi di legittimare con l’uniformità religiosa quella politica e nazionale. Un processo di stabilizzazione questo che si realizza in Italia, di cui in questi secoli e ancora fino alla secolarizzazione settecentesca la Chiesa, lungi dall’essere estranea, è parte promotrice ed integrante: la presenza ebraica non è mai rimessa in discussione, sia pur nei limiti di una presenza sminuita e discriminata, e a partire dal Cinquecento rinchiusa nello spazio controllato e separato del ghetto.
Un’altra motivazione è più vicina e immediata, e risiede nella natura stessa del Risorgimento italiano e della cultura che lo permea: lontana, almeno nei primi decenni, dalle chiusure nazionalistiche che caratterizzano paesi come la Francia o la Germania, aperta ad una visione più ampia e cosmopolita, di impronta mazziniana, ostile alla Chiesa per motivi sia politici, il suo essere ostacolo primo al processo unitario, che ideologici, il rifiuto da parte della Chiesa della tolleranza religiosa, della modernità, della pluralità dei culti, su cui invece si costruisce, a partire dal 1848, la giovane nazione italiana. Per questo l’assimilazione degli ebrei italiani in questo momento storico, fu un’assimilazione “ad un sistema di valori, piuttosto che ad un popolo, ad una nazione fisicamente costituita, ad una lingua”, come ben è stato detto da Francesca Sofia. Un sistema di valori che consentiva al mondo ebraico, intriso in questo momento di istanze liberali universalistiche, di potersi identificare con la nazione senza dover rinunciare ai propri valori , o almeno senza dover cedere troppo di essi nell’incontro con l’esterno. Così, un rabbino mantovano di questi anni, Marco Mortara, poteva nel 1873 collegare le idee di nazionalità politica, e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo in cui ne coglieva l’origine, alle dottrine bibliche conservate dall’ebraismo nei secoli e alle aspirazioni messianiche del mondo ebraico. Un’intima assonanza culturale ed ideale, insomma, fra ebrei e unità d’Italia.
E dopo il 1870 un’integrazione sostanzialmente rapida, segnata solo da pochi, insignificanti episodi di “antisemitismo liberale”, mentre l’antisemitismo politico prendeva piede negli altri paesi europei, in Francia, in Germania, in Austria, ostacolando l’integrazione del mondo ebraico. Un’assenza di antisemitismo, da parte del nuovo Stato uscito dal Risorgimento, fondata anche nella nuova ostilità antiebraica della Chiesa dopo la perdita dello Stato temporale, che spinge il mondo politico italiano a stringersi a difesa delle libertà delle sue minoranze e a caratterizzare decisamente in senso liberale la sua politica religiosa.
Questa armoniosa integrazione fra valori ebraici e italiani che caratterizza la storia del nostro paese fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento è destinata tuttavia a mutare a partire dagli anni della guerra di Libia, con l’affermarsi di un nazionalismo sempre più aggressivo. La prima guerra mondiale e ancor più l’avvento del fascismo trasformano in profondità la natura dello Stato risorgimentale e rimettono in discussione il senso che gli ebrei italiani conferiscono alla loro identificazione nazionale. Per gli ebrei italiani, si tratta ora non più di condividere i valori e le idealità del processo di costruzione nazionale, ma di compensare con il sangue e il patriottismo la concessione dell’uguaglianza. Di ribadire, di fatto, l’appartenenza alla nazione, di mostrarsi italiani. Di conseguenza, nel momento in cui per gli italiani, e fra loro anche per gli ebrei italiani, l’adesione alla patria si identifica ormai con quella al regime fascista, gli ebrei italiani diventano fascisti. Come gli altri italiani, nella stessa proporzione degli altri italiani.
Certo, il quadro del consenso ebraico al regime presenta incrinature non da poco. La prima, è determinata dal fatto che nel 1931, all’imposizione del giuramento di fedeltà al fascismo ai docenti universitari, ben sei dei quattordici professori ordinari che rifiutarono il giuramento erano ebrei, una proporzione enorme rispetto al numero degli ebrei italiani e anche rispetto alla proporzione di ebrei fra i docenti universitari. Inoltre, forte fu la presenza di ebrei nel movimento antifascista. Non a caso, il primo attacco del regime agli ebrei in quanto antifascisti, ma con una notevole enfasi sull’ebraicità, si manifestò dopo i primi arresti di Giustizia e Libertà, nel 1934 e poi ancora nel 1935, che colpirono moltissimi ebrei torinesi, tutti impegnati nell’attività antifascista clandestina. E ancora, non dobbiamo dimenticare che, a rendere difficile il rapporto tra il fascismo e l’ebraismo italiano venne nel 1937 la campagna antisionista iniziata dal regime, con l’identificazione fra sionismo ed antifascismo, che aprì la strada a persecuzioni e vessazioni contro il piccolo gruppo di sionisti italiani. Ostile in egual misura all’antifascismo e al sionismo fu fra l’altro, non possiamo tacerlo, il gruppo fascista torinese guidato da Ettore Ovazza, il creatore del giornale ebraico fascista, La Nostra Bandiera e l’ideatore, nel 1938, dell’attacco squadristico alla rivista “Israel”, a Firenze.
A rompere drammaticamente l’identificazione ebraica con l’Italia fascista furono le leggi razziste del 1938, che non rappresentarono soltanto l’inizio della persecuzione della piccola minoranza ebraica – uno su mille – ma anche e soprattutto una rottura fortissima nella continuità dello Stato italiano, l’introduzione, per la prima volta nella sua sia pur breve storia, di una discriminazione tra cittadini che segnava la fine dei principi base dello Stato nato nel processo unitario. Le leggi razziste, insomma, portarono a compimento quello che anche la svolta del 1925, con l’abolizione della democrazia parlamentare, non aveva portato a termine, la distruzione del progetto risorgimentale. “Il regime, scrive Michele Sarfatti, incise sulla cronologia storica dell’Italia unita, determinando, dopo la cessazione della democrazia, la cessazione dell’intera vicenda storico-nazionale avviatasi con il Risorgimento”.
Una rottura radicale, di cui la maggior parte degli ebrei che avevano aderito al fascismo non riuscirono allora - e come avrebbero potuto? - a cogliere l’origine e il senso, come dimostrano, reperto straziante, le medaglie al valor militare guadagnate nella prima guerra mondiale e i ritratti dei caduti che molti ebrei deportati portano con sé nei campi, ora in mostra nella vetrina dedicata agli ebrei italiani a Yad Vashem a Gerusalemme.
Ma le leggi razziste non rappresentarono la fine di quel lungo processo iniziato con l’uguaglianza introdotta dall’esercito napoleonico. Gli ebrei italiani furono fortemente presenti nella Resistenza, un’adesione tanto più significativa se si pensa che essi erano in quel momento alla macchia, braccati da nazisti e fascisti di Salò, vittime di un processo di sterminio senza precedenti. Come non fare il nome del più giovane partigiano d’Italia, Franco Cesana, caduto in combattimento a quattordici anni, o quello di Emanuele Artom, torturato ed assassinato a Torino? E come non ricordare il piccolo gruppo di giovani unitisi alla lotta partigiana in Val d’Aosta, e poi deportati ad Auschwitz, dopo aver deciso di autodenunciarsi ai loro carcerieri come ebrei per sfuggire alla fucilazione immediata come partigiani, un gruppo a cui è ora dedicata una mostra al Quirinale da Lei, Presidente Napolitano, recentemente visitata. Fra loro, Primo Levi, colui che più di ogni altro ha saputo nei suoi scritti ricordare e trasmettere alle generazioni la memoria della Shoah. E quella adesione alla Resistenza aveva forse anche il significato di riannodare il legame interrotto con il Risorgimento, riaffermare la propria appartenenza allo Stato italiano, contribuendo a trasformare quello Stato e a riportarlo alle sue radici ideali. Uno spirito in cui il richiamo al Risorgimento è intimo e stretto, certo non occasionale.
Nella nuova Italia del dopoguerra, tuttavia, non si ha l’impressione che il senso di questa lotta, di questa adesione ad una patria rinnovata e trasformata, sia stato recepito e compreso immediatamente, che l’appartenenza nazionale degli ebrei abbia trovato un rapido riconoscimento. Molte, troppe testimonianze ci riportano, dopo il 1945, ad un’immagine del mondo ebraico italiano come sostanzialmente estraneo alla nazione e alla sua storia, mostrando che la propaganda razzista del 1938 aveva agito più in profondità di quanto non pensiamo, di quanto coloro stessi che ne erano suggestionati non credessero. Certo, il contesto culturale e politico di quegli anni, in cui il paese era ancora percorso dai profughi, da quelle displaced persons che si imbarcavano dall’Italia verso la terra di Israele, la stessa nascita di una Patria degli ebrei diversa da quella italiana, a cui non pochi ebrei italiani si volsero, e a cui tutti si ispirarono, possono aver contribuito a questo fraintendimento. La mancata comprensione, cioè, dello stretto nesso esistente, fin dalle origini, fra la nascita dell’Italia unita, i suoi principi ispiratori liberali e democratici, e la presenza di minoranze e in particolare di una minoranza piccola ma altamente significativa quale quella ebraica. Solo dopo molti decenni, e dopo l’inizio di una riflessione autentica sulle leggi del 1938 e sul loro senso per l’Italia tutta, si sarebbe potuto nuovamente riconoscere il ruolo fondante per la patria italiana di quegli ebrei che da duemila anni di quella Italia, unita o spezzettata che fosse, sono stati parte integrante e costitutiva, al cui patrimonio ideale e culturale hanno dato un apporto essenziale e ininterrotto”.

Anna Foa, storica


Ucei a congresso - La relazione del Presidente

Renzo Gattegna"“Il nostro futuro, la continuità della presenza ebraica in Italia, dipenderanno dalla capacità che dimostreremo di saper conservare la nostra identità e confrontarci con la realtà in cui viviamo.
La prima approfondita analisi dobbiamo rivolgerla verso noi stessi e verso le nostre condizioni di vita.
Dobbiamo prendere coscienza che, per la prima volta dopo due millenni, a partire dagli anni 1945-1948, tutto l’ebraismo mondiale è entrato in una nuova era, vive in un’altra dimensione, si è profondamente trasformato e non può più applicare gli stessi schemi di ragionamento e le stesse categorie del passato.
Nella seconda metà del Ventesimo secolo le condizioni delle comunità ebraiche si sono evolute verso una maggiore libertà di vita, di espressione e di organizzazione in modo tale da rendere superate, inutili e persino dannose tutte quelle forme di autodifesa e di ripiegamento in se stesse che da secoli erano state costrette ad adottare.
In realtà è vero che sopravvivono ancora forme sia palesi che subdolamente mascherate di antisemitismo, ma è anche vero che, spesso affrontando drammatiche emigrazioni di massa, quasi tutte le comunità ebraiche hanno abbandonato i paesi retti da regimi totalitari, nei quali non esistevano e non esistono garanzie di rispetto dei diritti delle minoranze e attualmente vivono in realtà più o meno democratiche nelle quali comunque non esistono ghetti, persecuzioni legalizzate o pogrom.
Questo cambiamento delle condizioni di vita ha prodotto un cambiamento negli ebrei stessi, che sono diventati pienamente consapevoli dei propri diritti, hanno trovato la forza e la determinazione per pretenderne il rispetto. E per di più hanno sviluppato disponibilità, prontezza, capacità di comunicare e, finalmente, di rompere la secolare spirale negativa che, partendo dall’isolamento fisico e culturale dei ghetti, creava terreno fertile per preconcetti, pregiudizi, diffidenze, odio, persecuzioni.
Non possiamo che provare un sentimento di ammirazione nei confronti delle generazioni che ci hanno preceduto le quali, costrette a vivere in società ostili ed educate al disprezzo, sono riuscite ad adattarsi, a reagire e a sopravvivere mantenendo ben saldi i propri valori e la propria cultura.
Ma nella realtà contemporanea è importante e urgente prendere collettivamente coscienza dei cambiamenti che sono intervenuti e non sottovalutare che è toccato in sorte alle nostre fortunate generazioni di assistere al crollo delle grandi dittature persecutrici del secolo scorso e di vedere nascere sotto i propri occhi lo Stato d’Israele.
Con cautela e con prudenza ora possiamo ampliare le nostre prospettive di vita, possiamo pianificare il futuro, possiamo svolgere il ruolo che ci compete nell’ambito di una società di cui siamo parte integrante.
Sarebbe colpevole ignorare o non considerare adeguatamente che pur esistendo ancora gruppi e frange ostili, nella società abbiamo acquisito anche amici che, in diverse occasioni, si sono dimostrati pronti a collaborare e a battersi assieme a noi per il rispetto dei nostri diritti.
Questa stessa società, forse per la prima volta da tempo immemorabile, dimostra interesse e desiderio di conoscenza della nostra cultura, delle nostre tradizioni e della nostra religione, come se avesse acquisito la consapevolezza dell’apporto fondamentale dell’ebraismo alla civiltà dell’Occidente democratico.
Da diverse parti pervengono forti e ripetuti segnali di invito a partecipare e a confrontarci.
A tale richiesta di apertura e di condivisione non è possibile né opportuno sottrarsi e quindi nasce immediatamente l’esigenza di essere all’altezza di questa nuova sfida attraverso l’impegno di tutti, giovani e adulti, a svolgere ruoli attivi, a partecipare a programmi di formazione permanente e di aggiornamento, per elevare, in maniera costante e sistematica, il proprio livello culturale.
Questa elevazione deve riguardare la cultura in ogni suo aspetto per acquisire un’adeguata conoscenza di noi stessi e una preparazione idonea ad ampliare la visuale oltre i nostri confini. Nel mondo attuale le potenzialità di qualsiasi gruppo non si misurano più solo in base alla consistenza numerica, ma soprattutto dal livello culturale e dalla capacità di utilizzare i mezzi più moderni di studio, di informazione e di comunicazione.
Vorremmo che si aprisse una riflessione comune tra i consiglieri delle Comunità e i rabbini, la cui presenza e il cui apporto è indispensabile perché sarebbe sterile, inadeguato e inutile che i dirigenti pretendessero di parlare di ebraismo senza i loro Maestri, come d’altra parte sarebbe impossibile per i rabbini parlare dell’organizzazione della vita comunitaria senza la partecipazione dei dirigenti.
Questo risultato può essere conseguito valorizzando il ruolo del rabbinato italiano, formando rabbini sempre più qualificati e più adeguati a trovare risposte alle domande del presente, e sempre coerenti con la tradizione italiana che nei secoli è riuscita a combinare rigore e apertura. Per questo è necessario costruire nuove intese con i nostri Maestri e contemporaneamente portare, con rispetto e con intensità, alla loro attenzione i problemi che emergono dalla nostra vita di ebrei contemporanei.
Tutto ciò richiede un grande sforzo e la ferma volontà di effettuare un allargamento dei temi e dei campi sui quali si è concentrata l’attenzione e la ricerca nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale.
La memoria della Shoah da una parte e il sostegno allo Stato d’Israele dall’altra, sono stati i catalizzatori dell’interesse e degli sforzi creativi elaborati in questi anni. Ritengo che i tempi siano maturi per aggiungere una seria e approfondita analisi di tutte le problematiche che riguardano le comunità sparse nel mondo, con una particolare attenzione alle specifiche caratteristiche di quelle italiane.
Queste valutazioni sono state il presupposto dal quale siamo partiti per adottare la strategia dell’ultimo quadriennio, durante il quale, avendo preso coscienza del forte calo demografico che sta riducendo drammaticamente il numero degli iscritti alle Comunità, si è cercato di individuare i mezzi giusti e adeguati per reagire a questa tendenza.
Se volessi tentare di sintetizzare in poche parole le idee guida, la linea strategica adottata dall’Unione direi:
Rompere qualsiasi forma di isolamento sia rispetto ad altre comunità, che rispetto alla società di cui facciamo parte.
Rifiutare di emarginare e di essere emarginati, senza per questo accettare compromessi sui nostri principi e i nostri valori.
Abbattere barriere di separazione di qualsiasi genere, convinti che dopo aver aperto i cancelli dei ghetti non sarebbe giusto, sano e lungimirante richiuderci volontariamente in spazi chiusi di tipo culturale, sociale o psicologico.
In definitiva, respingere timori, paure o diffidenze, non perché i pericoli siano magicamente scomparsi, ma perché qualsiasi strategia basata sulla paura sarebbe, come spesso è stata in passato, solo un incentivo a colpirci, a umiliarci, a perseguitarci.
Abbiamo ritenuto necessario, davanti a obbiettivi così ambiziosi, ricercare ogni forma di collegamento e di collaborazione tra le varie componenti ideologiche e tra le diverse comunità sparse nel territorio.
E’ un’esigenza imprescindibile creare una migliore capacità di sintesi e di gestione collegiale delle questioni più importanti, sulle quali spesso è necessario che l’ebraismo esprima posizioni che siano state preventivamente elaborate in maniera non frammentaria.
Se la velocità di spostamento delle persone e di trasmissione delle informazioni ha fatto nascere una comunità internazionale in costante collegamento rispetto alla quale il fattore della distanza fisica è quasi ininfluente, nel mondo ebraico l’effetto è stato ancora più rilevante, perché ha definitivamente rotto l’isolamento che in passato aveva contribuito ad accentuare le differenze fra ebrei di origini e tradizioni diverse.
Dovremmo prendere atto che il concetto stesso di “diaspora” ha subito una trasformazione così rilevante da costituire per gli ebrei una vera e propria rivoluzione culturale.
Infatti si è attenuata la distanza e la differenza tra Israele e Diaspora.
Se il mondo è più piccolo, se tutta l’umanità è in costante movimento, se nessuna cultura vive più chiusa in luoghi o in ambiti circoscritti, se l’emigrazione e la diaspora sono diventate condizioni largamente diffuse e non sono più vissute come eventi tragici o drammatici, ma in molti casi come sinonimi di mobilità, di modernità, di capacità di aggiornamento culturale e di ricerca di approfondimento specialistico nelle discipline più varie, se la diaspora è cercata e desiderata, allora non esiste più la Diaspora, quella che gli ebrei hanno vissuto per secoli.
Riguarda da vicino gli ebrei l’idea rivoluzionaria della Diaspora intesa come condizione se non privilegiata almeno normale e non traumatica e, nel nostro caso specifico, tale da modificare il rapporto con Israele.
Cambia totalmente la prospettiva se la speranza di essere “l’anno prossimo a Gerusalemme” viene diretta verso una città simbolo, ideale, mitica, che ognuno può immaginare diversa, seguendo la fantasia, o verso una località reale, concreta e facilmente raggiungibile con un comodo viaggio, in poche ore.
Gli ultimi sessanta anni hanno aperto una finestra di totale libertà, rispetto, normalità nella partecipazione alla vita politica e sociale della nazione, creando un’occasione nuova, forse irripetibile, per difenderci efficacemente da tutti i nostri avversari vecchi e nuovi.
Solo realizzando un ebraismo proiettato verso il futuro, protagonista attivo, aperto e dialogante, perché stabile e sicuro di sé, dei propri valori e della propria identità potremo esercitare le nostre facoltà e i nostri diritti e occupare, in tutti i campi e a tutti i livelli, lo spazio che ci spetta.
Il raggiungimento di obbiettivi così numerosi e così ambiziosi presuppone che tra le Comunità e tra le diverse correnti di pensiero si stipuli un nuovo patto civile, sociale, culturale e politico che preveda e regoli una vivace dialettica interna e una fraterna unità per far fronte alle sfide future.
Un futuro che dovrà essere affrontato, come è nelle nostre migliori tradizioni, senza idoli e senza dogmi, senza intolleranza e senza fanatismo.
Gli ebrei che hanno subito sulla propria pelle le gravi violazioni dei diritti e i drammatici eccessi ai quali può portare qualsiasi forma di teocrazia, sono nella posizione ideale per sostenere, sia in linea di principio che nella vita del nostro paese, il rigoroso rispetto della laicità dello Stato, così come è sancito nella Carta Costituzionale.
Allo stesso modo la laicità, non intesa come antitesi alla religiosità, ma come libertà di opinione e di parola, contro qualsiasi discriminazione o compressione dei diritti fondamentali, deve essere e rimanere una regola fondamentale, scrupolosamente rispettata all’interno delle nostre istituzioni, così come è sancito nelle norme contenute nell’Intesa e nello Statuto.
Questo Congresso prevede all’ordine del giorno l’esame e l’eventuale approvazione di rilevanti modifiche dello Statuto, alla cui stesura ha lavorato per due anni l’apposita Commissione incaricata di predisporre un testo base. Voglio ribadire l’intenzione, già molte volte espressa, di apportare solo innovazioni che rispondano all’interesse generale di migliorare il collegamento fra tutte le Comunità italiane anche attraverso l’entrata a pieno titolo dei rispettivi presidenti nei Consigli dell’Unione, e di rendere più moderna, efficiente e sinergica l’organizzazione del lavoro.
Di fronte a diffuse perplessità iniziali, il Consiglio assunse l’impegno di organizzare riunioni in varie sedi per informare e discutere il progetto con i responsabili di tutte le comunità. Assicurò altresì che non sarebbe stato alterato il criterio di rappresentanza e i rapporti di forza e infine che, allo scopo di evitare lacerazioni, la riforma sarebbe stata portata avanti solo se si fosse realizzata un’ampia condivisione e una significativa convergenza.
Sono gli stessi principi che il Consiglio decise di adottare, come ordinario metodo di lavoro, fin dall’inizio del mandato che si sta concludendo e che certamente non vuole disattendere proprio di fronte a un tema così qualificante.
Fin dall’inizio il Consiglio decise a larghissima maggioranza di formare una Giunta unitaria e allargata allo scopo di coinvolgere tutti in funzioni operative rispettando le capacità e le attitudini di ognuno, prescindendo dagli schieramenti congressuali.
Il sistema si è rivelato efficace e lavorando insieme, è stata sanata la drammatica spaccatura verificatasi nel corso del precedente congresso, si sono evitate inutili dispersioni di energie ed è stato possibile creare una squadra che non ha mai rinunciato a ricercare l’unità nella discussione fraterna, talvolta aspra, ma sempre rivolta a cercare e decidere insieme democraticamente, le linee guida da percorrere.
L’idea forte che il Congresso dovrebbe prendere in considerazione è la rigorosa salvaguardia dell’identità e dell’autonomia di ogni comunità e di ogni ebreo italiano, ma nel quadro di una dimensione nazionale che permetta a tutti di usufruire dei servizi necessari.
L’obbiettivo è quello di rivitalizzare tutti i centri attraverso la creazione di un nuovo organismo rappresentativo, il parlamento dell’ebraismo italiano, che assuma le caratteristiche e le funzioni del Congresso e del Consiglio.
Il dibattito congressuale costituirà in questo processo di formazione e di definizione un passaggio fondamentale. Fra i numerosi temi in discussione che credo meritino un confronto attento, voglio indicare anche i seguenti, accompagnandoli da alcune prime indicazioni derivate dall’esperienza di questi anni di lavoro che potranno essere integrate da interventi dei responsabili di ogni settore.
La dimensione nazionale, l’articolazione dell’ebraismo italiano in ventuno Comunità, piccole o grandi che siano, è interesse strategico di tutti, a cominciare dalle più grandi. Sotto questo profilo ognuna delle Comunità, anche la più piccola, rappresenta una realtà preziosa e insostituibile che deve essere strenuamente difesa e tutelata.
La rigorosa tutela dell’autonomia e delle identità locali è un bene prezioso, ma non può comportare la chiusura nel campanilismo, nel provincialismo, nell’incapacità di cooperare per realizzare assieme grandi progetti.
Ferma restando la più rigorosa salvaguardia della tradizione storica dell’ebraismo italiano, il pluralismo e le diverse identità in esso contenuto devono essere riconosciute e rappresentate dalle istituzioni.
Il decentramento deve essere perseguito con decisione, concretezza e realismo a partire dalle esperienze già acquisite e già avviate. Deve essere un programma riempito di significati concreti, non può ridursi a uno slogan, alla dislocazione e alla proliferazione degli organici, in base alle preferenze e ai gusti personali dei singoli professionisti coinvolti.
L’impegno sul fronte della cultura non può risolversi nell’investire sulle strutture di formazione e di educazione che operano sul fronte interno, ma deve tradursi anche in progettualità proiettata verso il mondo esterno. La cultura è il linguaggio che deve consentirci di essere presenti in maniera efficace nella società in cui viviamo, di testimoniare e di difendere i nostri valori. In questo senso sono state orientate tutte le edizioni della Giornata della cultura che sono diventate un importante appuntamento annuale per ricevere “a porte aperte” tutta la cittadinanza nelle nostre sinagoghe, nei nostri musei e in tutti i luoghi nei quali esistono segni della presenza ebraica passata o presente.
Il nostro impegno sul fronte della Memoria della Shoah non deve mai perdere d’intensità. Rimane l’esigenza e il nostro dovere verso le future generazioni di recuperare e ricostruire la solarità della cultura ebraica, valorizzando la sua capacità innovatrice e creativa e profondamente connessa con il senso della vita.
Una politica per i giovani non può ridursi all’organizzazione di occasioni di incontro e di svago, ma deve creare gli strumenti per la formazione e l’inserimento nel mondo del lavoro di ebrei italiani consapevoli e competitivi. L’esperienza di formazione dei praticanti giornalisti in seno alla redazione del Portale dell’ebraismo italiano, che porterà cinque giovani appartenenti a diverse comunità a sostenere in primavera la prova di idoneità professionale e a divenire giornalisti professionisti, si sta rivelando positiva e merita di essere seguita con attenzione e ripetuta.
La nostra strenua difesa dei valori rappresentati dallo Stato di Israele e della sua sicurezza non deve ridursi alla ripetizione delle sue ragioni nell’ambito della polemica generata dal conflitto mediorientale, ma deve spingersi fino a dimostrare la profonda distorsione operata da coloro che interpretano e raccontano Israele attraverso il conflitto, deve spingersi fino alla dimostrazione che Israele rappresenta un patrimonio di esperienze, di politica, di cultura, di scienza e di economia prezioso e insostituibile per l’intero mondo progredito o che vuole progredire.
Il ragionamento sui criteri di ripartizione delle risorse economiche non deve oscurare la necessità di elaborare una nuova strategia di raccolta delle risorse. Piuttosto che accrescere la conflittualità su come dividere una torta sempre più piccola dobbiamo accrescere la nostra capacità di ingrandire la torta.
La raccolta dell’Otto per mille è insoddisfacente e insufficiente e il risultato denuncia una scarsa capacità della minoranza ebraica italiana di intrattenere un dialogo efficace con la società circostante e di testimoniare i propri valori.
La raccolta dell’Otto per mille non costituisce una rendita automatica assicurata, ma un bene che deve essere tutelato, riconquistato di anno in anno e per quanto possibile accresciuto.
Tale tutela non può derivare da campagne pubblicitarie che si riducono a esprimere slogan generici, ma deve partire dalla capacità di diffondere il messaggio e la testimonianza degli ebrei italiani.
Il lavoro sull’informazione e la comunicazione ha portato alla creazione di:
- una Rassegna stampa che raccoglie ogni anno circa 100 mila schede
- un notiziario quotidiano, l’Unione informa, che raggiunge regolarmente circa cinquemila abbonati
- un Portale per l’ebraismo italiano, Moked, che ha richiamato dalla sua fondazione oltre 200 mila visitatori unici
- un giornale dell’ebraismo italiano, Pagine Ebraiche, con una diffusione media di 30 mila copie, che ha conquistato in un anno di vita una notevole visibilità
- un giornale dedicato ai giovanissimi, DafDaf, un laboratorio e un punto di riferimento per coloro che lavorano sul fronte dell’educazione, per le giovani famiglie e per i bambini.
L’impegno a rafforzare questi media non deve far dimenticare la necessità di migliorare e intensificare la nostra presenza sul fronte dell’emittenza radiotelevisiva e di dotare le istituzioni dell’ebraismo italiano di un ufficio stampa e pubbliche relazioni adeguato alle nuove strategie.
Concludo con alcuni ringraziamenti non formali, ma veramente sentiti, al Consiglio uscente per aver sostenuto e affiancato la Giunta e il Presidente per tutta la durata del mandato, alla Giunta che si è rivelata una vera squadra di persone che lavorando assieme hanno consolidato stima e amicizia, ai professionali e ai dipendenti che hanno collaborato con lealtà nella ricerca di una sempre maggiore efficienza, ai rappresentanti di tutte le Comunità con i quali è stato bello e stimolante costruire una rete di collegamento. Rivolgo un affettuoso saluto a tutti dopo aver dedicato all’Unione, nei quattro anni trascorsi, tempo e lavoro al meglio e nei limiti delle mie capacità e sono consapevole del superiore valore che mi è stato da voi concesso conferendomi l’onore di rappresentare l’Ebraismo Italiano.

Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane


Ucei a congresso - Il dibattito è aperto
PubblicoUn congresso aperto, intenso, attento. Il pomeriggio di ieri e la mattinata di oggi hanno segnato l’apertura del grande dibattito sul futuro e sul ruolo delle istituzioni degli ebrei italiani. E’ stato il legame ideale con Israele a segnare l’inizio del sesto Congresso dell’ebraismo italiano. Per un minuto i delegati si sono raccolti in silenzio, a ricordare le vittime del terribile incendio che sta devastando il nord d’Israele. Poi la lettura di un Salmo da parte di rav Riccardo Di Segni e il congresso, affidato alla presidenza di Giorgio Sacerdoti, ha preso il via. Gli 87 delegati (82 quelli registrati nella prima giornata), designati dalle 21 Comunità ebraiche italiane e riuniti a Roma, si confronteranno fino a mercoledì sul progetto di riforma dello Statuto dell’UCEI e sui grandi temi che coinvolgono la minoranza ebraica in un dibattito che fin dalle prime battute si preannuncia appassionante.
Molti i temi al centro della carrellata d’interventi che ha contrassegnato il primo pomeriggio di lavori, tutto dedicato alle proposte di modifica dello Statuto. I relatori hanno spaziato dal ruolo del rabbinato e dei rabbini rispetto al nucleo comunitario alla composizione del “parlamentino” cui sarà affidato il governo dell’ebraismo italiano, dal rapporto tra le grandi e le piccole comunità a quello con Israele.
A inaugurare i lavori una dettagliata relazione di Valerio Di Porto che, in qualità di presidente della Commissione che in quest’ultimo anno ha lavorato alla modifica dello Statuto, ha illustrato i principali punti di cambiamento orientato, ha sottolineato, a valorizzare la rete delle Comunità e il loro legame con l’UCEI intesa quale unione nel senso più profondo tra le Comunità ebraiche italiane. Poi spazio agli interventi che hanno visto susseguirsi tra gli altri al microfono Tullio Levi, presidente Comunità ebraica di Torino; Kobi Benatoff, Roberto Jarach, presidente Comunità ebraica di Milano; Emanuele Pace; Michele Steindler; Vito Anav; Riccardo Pacifici, presidente Comunità ebraica di Roma; Saul Meghnagi; Daniele Bedarida; Victor Magiar, consigliere UCEI; Giulio Disegni; Claudia Fellus; Ester Mieli; Anselmo Calò, assessore UCEI alle finanze; Giorgio Mortara e Davide Romanin Jacur, presidente Comunità ebraica di Padova.
Il senso della svolta rappresentata dalla riforma dello Statuto, destinata a segnare un nuovo corso per l’ebraismo, è tornato come un leit motiv pur declinato in forme diverse. Se Benatoff ha richiamato il Congresso a una riflessione sul futuro dell’ebraismo italiano Victor Magiar ha invitato a non dividersi sulla questione “Statuto sì, Statuto no”. “Il mondo è cambiato - ha detto - siamo cambiati anche noi e dobbiamo cercare di darci strumenti adatti, fondati su regole che siano ebraiche e democratiche”.
“Lo Statuto - ha sottolineato Michele Steindler - è tale solo se ha il consenso di tutti noi. Statuto e Unione sono la casa degli ebrei italiani: se non è adatta finiamo per stare male tutti”. E allora, in quale direzione muovere? Saul Meghnagi ha esortato a mantenere aperto nel Congresso un momento di discussione generale. Rimane aperto il dibattito sul sistema elettorale e sul più opportuno dimensionamento del “parlamentino” chiamato a governare l’ebraismo italiano che, ha detto Vito Anav, potrebbe essere integrato con una rappresentanza degli ebrei italiani che vivono in Israele: una realtà che conta ormai 10 mila anime e che potrebbe rappresentare un Il rischio, ha detto infatti Davide Romanin Jacur, è di penalizzare le piccole Comunità che rappresentano una straordinaria ricchezza del nostro Paese. Molti si sono posti quindi il problema delle modalità migliori per rinsaldare il dialogo tra UCEI e Comunità che per Roberto Jarach potrebbe passare attraverso un “parlamentino organizzato in commissioni con precisi mandati e non solo compiti di controllo”.
Poi il tema del rabbinato che, come sottolineato da Giulio Disegni, alla luce della tradizione ebraica non può essere privato della sua autonomia. “Il rabbino non è semplicemente un dipendente è figura centrale nella vita delle nostre Comunità. Proviamo dunque a immaginare un tavolo di concertazione tra Assemblea rabbinica e UCEI così da riflettere insieme attentamente su questo tema”. Sulla stessa linea Riccardo Pacifici, che ha introdotto il tema del dialogo con gli altri modelli d’ebraismo e la necessità di sistema nazionale di kasherut. “Alcune liste hanno rivendicato rabbini a tempo, alcuni pensano che così possono condizionare l’umore dei rabbini su questioni importanti come ghiurim, divorzi o procedure d’iscrizione alla Comunità. Altri, tra cui io, vogliono sottrarre i rabbini da meccanismi di dipendenza dalla Comunità. Chiediamo però riforme profonde perché siano più vicini alle nostre Comunità e vorremmo deciderlo insieme all’Ari”.
Non è mancato infine un dibattito sul ruolo dell’informazione ebraica italiana che, come rimarcato da Tullio Levi, negli ultimi anni ha compiuto un notevole salto di qualità con la nascita del Portale dell’ebraismo italiano, della newsletter quotidiana l’Unione informa e delle testate Pagine ebraiche, HaTikwa e DafDaf. Un impegno eccessivo? Un circuito che va affiancato a più tradizionali campagne di comunicazione in occasione della raccolta Otto per mille? Alla questione ha dato una prima risposta Anselmo Calò che ha dettagliato l’impegno finanziario sostenuto a questo scopo dall’UCEI. Ma d’informazione, comunicazione e relazioni esterne si parlerà ancora nei numerosi incontri in programma in questi giorni che a questi e a tanti altri temi dedicheranno momenti specifici di approfondimento e confronto.
I lavori sono proseguiti nella mattina di oggi con la relazione del presidente UCEI Renzo Gattegna. Tra gli altri interventi rav Richetti, i consiglieri UCEI Federico Steinhaus, Dario Calimani e Yoram Ortona, Saul Meghnagi e Avraham Hason, rav Laras, rav Momigliano, Roberto Liscia e il presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici.
Con un articolato davar Torah il rav Adolfo Locci, rabbino capo di Padova, ha spiegato il significato profondo della festa di Hannukkah. Claudia De Benedetti, vicepresidente UCEI si è infine soffermata sulla drammatica situazione di Gilad Shalit. “Oggi - ha detto - sono trascorsi quattro lunghissimi anni e mezzo da quando Gilad Shalit è stato rapito dai terroristi di Hamas, il tempo del nostro mandato di Consiglio UCEI. Una prigionia che può sembrare una piccola cosa. Eppure non ci stanchiamo di protestare, continuiamo a indignarci. Noi siamo un piccolo popolo e ciascuno è un po’ parente di tutti gli altri, non solo astrattamente responsabile, ma concretamente vicino. Quando qualcuno di noi muore, piangiamo tutti. Ma soprattutto quando qualcuno è tenuto prigioniero come Shalit, siamo tutti prigionieri”.

Daniela Gross

Ugei a congresso - Nove voci e sei città nel nuovo Consiglio
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Dalla brigata ebraica alla bioetica. Il cammino di Hans Jonas
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Beit Oren, 6 dicembre
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L'incendio divampato giovedì scorso è stato finalmente domato. Fondamentale l'aiuto degli aerei antincendio, inviati da 16 paesi. E' stato il peggior rogo mai scoppiato nella storia di Israele. L'incendio ha distrutto milioni di alberi e le vittime, salite a 42, dopo che Ahuva Tomer, capo della polizia di Haifa ricoverata per gravi ustioni nell'ospedale Rambam, e' morta, si contano in larga parte tra le guardie carcerarie intrappolate in un autobus in mezzo al fuoco.
 
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