L'intervento, alla presenza
del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e delle massime
autorità dello Stato, della storica Anna Foa dedicato alla storia degli
ebrei italiani a 150 dall'Unità nazionale. La relazione generale del
Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche, Renzo Gattegna, che ha
tracciato un quadro dell'attività svolta e ha invitato i delegati al
dibattito elencando punto per punto le prospettive e le problematiche
su cui gli ebrei italiani sono chiamati a scegliere. L'entrata nel vivo
del confronto. La seconda giornata del Congresso UCEI è stata
contrassegnata già dalla mattinata da un lavoro intenso e da momenti
alti e intensi di coinvolgimento per i delegati e i loro ospiti. Il
notiziario di stamane offre al lettore alcuni elementi che hanno
contrassegnato i lavori. Ecco l'indirizzo di saluto rivolto dal Presidente Gattegna a Giorgio Napolitano.
Illustre e caro Presidente Napolitano,
la Sua presenza alla cerimonia di inaugurazione del nostro Congresso quadriennale è fonte di orgoglio e di vera gioia. Non
voglio usare parole retoriche né voglio rivolgere a Lei un saluto
puramente formale, perché invece sento nel profondo del mio animo il
grande significato del Suo essere oggi qui tra noi. Giunto alla
scadenza del mandato quadriennale di presidenza dell’Unione, considero
una grande fortuna aver avuto tante occasioni di incontro con Lei nel
corso di eventi più o meno solenni; naturalmente tutto ciò non è
avvenuto per caso e io ho percepito, fin dalle prime occasioni, da
parte Sua grande disponibilità, considerazione e
amicizia nei confronti delle comunità ebraiche e di coloro
che le rappresentano. Sento di interpretare il sentimento di tutti
gli ebrei italiani nel definire memorabili i Giorni della Memoria che
si sono ripetuti il 27 gennaio di ogni anno e che sono stati
trasformati, per Suo merito, in grandi e significative occasioni di
diffusione di cultura, di conoscenza e di coscienza civile per tutti e
in particolare per i giovani e gli studenti. Non ci è sfuggito
il significato della Sua accoglienza, ogni anno, nelle sale del
Quirinale; sono stati momenti nei quali la solennità non è stata fine a
se stessa, ma è servita per incidere nella memoria e per creare e
consolidare una tradizione che pone i valori fondanti della nostra
nazione e della nostra democrazia ai livelli più alti. Queste
e molte altre sono state le occasioni nelle quali abbiamo sentito
quanto fosse importante che il Presidente della Repubblica
tenesse vicino a sé i rappresentanti dell’ebraismo italiano, una
vicinanza che aveva il significato di esprimere la considerazione per
la partecipazione degli ebrei alla vita nazionale, con la loro cultura
e le loro tradizioni. Questo si ricollega alla bella definizione
delle Comunità Ebraiche che viene data, in quel fondamentale documento
che è l’Intesa con lo Stato Italiano: “Formazioni sociali originarie”. Come
se queste avessero svolto la funzione di cellule embrionali dalle
quali la nostra nazione e i suoi valori civili e morali sono nati e si
sono formati. Non è stato un fatto casuale, per noi è stata una
scelta spontanea e naturale farLe pervenire quell’invito, che Lei
ha avuto la cortesia e la sensibilità di accettare. Ora che Lei
è qui posso esplicitare un intimo sentimento: speravo
ardentemente che Lei accettasse e avevo dentro di me la solida certezza
che, a meno di motivi di forza maggiore, Lei non avrebbe deluso le
nostre aspettative, come mai le ha deluse in tanti anni. Se
sorprese abbiamo avuto da Lei, Illustre Presidente, sono sempre state
eccezionalmente positive; da questo deriva la nostra ammirazione e la
nostra gratitudine per il prestigio che la Sua opera assicura al nostro
Paese. Concludo riconfermando un impegno che tocca
profondamente corde sensibili dell’animo degli ebrei italiani i quali,
quando gli è stato consentito, hanno profuso impegno,
entusiasmo e generosità nel fare dono all’Italia delle
proprie risorse materiali, morali e culturali e anche delle loro vite. Basti
ricordare il grande apporto dato al Risorgimento, all’Unità della
Nazione, di cui iniziamo a festeggiare i 150 anni, alla Prima Guerra
mondiale, che ha visto numerosissimi ebrei arruolati nell’esercito in
tutti i gradi, da generali a semplici soldati, alla Resistenza contro
le dittature; sempre hanno manifestato fedeltà agli ideali,
senso di appartenenza e spirito di sacrificio. Sappiamo
tutti come purtroppo gli ebrei furono ricambiati dal fascismo, che
perpetrò un atroce tradimento, promulgando le leggi del 1938 e
ponendosi al fianco dei nazisti nelle persecuzioni e nella “soluzione
finale”. Ebbene, anche fortificati da tragiche esperienze del
passato per la difesa della libertà, dell’uguaglianza, della
democrazia e di tutti i valori solennemente enunciati nella
nostra Costituzione, gli ebrei non hanno mai smesso di lottare e
tengono ben alta la vigilanza. Sappia caro e illustre
Presidente che, per difendere questi valori, dei quali Lei è il sommo
custode e tutore, gli ebrei italiani saranno sempre al Suo fianco.
Renzo Gattegna , Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Ucei a congresso - Anna Foa: "La nostra storia di ebrei italiani"
"“Che
forte e intensa sia stata l’identificazione della minoranza ebraica
italiana con il processo di costruzione dello Stato unitario, è cosa
nota. Consapevoli che ogni speranza di emancipazione, negata loro
ostinatamente dai governi dell’antico regime, poteva venire solo dai
“novatori”, gli ebrei italiani partecipano all’attività cospirativa
mazziniana, ai moti del 1820-21 e del 1830-31, alla Repubblica romana
del 1848, per la cui difesa versano il sangue, alle guerre del
Risorgimento, alla presa di Roma il 20 settembre 1870, in cui fu, com’è
noto, un ufficiale ebreo piemontese a dare l’ordine di aprire il fuoco.
Ma l’emancipazione, ottenuta insieme con i valdesi dagli ebrei
piemontesi nel 1848, e poi dagli ebrei degli altri Stati italiani man
mano che si compiva il processo di unificazione, non fu soltanto una
svolta radicale nel percorso delle comunità ebraiche che popolavano la
penisola. Essa fu anche e soprattutto un momento qualificante della
costruzione del nuovo Stato italiano, e lungi dal rappresentarne una
sorta di conseguenza marginale, ne segnò profondamente il percorso,
divenendone, con il connesso principio della tolleranza di tutti i
culti religiosi e poi con quello dell’uguaglianza dei culti di fronte
alla legge, uno dei pilastri basilari. Non è un caso che in quei
decenni al Risorgimento italiano guardassero gli ebrei d’Europa, come
Moses Hess che nel 1861 dalla Germania, nel suo Roma e Gerusalemme, si
ispirava alla costruzione nazionale italiana per elaborare il progetto
di un Risorgimento ebraico. Nello stesso spirito, nel 1918, Dante
Lattes avrebbe definito l’irredentismo il sionismo d’Italia e il
sionismo l’irredentismo d’Israele. L’accento di entrambi è sulla
caratterizzazione del processo di emancipazione ebraica come adesione
alla patria italiana. Una vera e propria “nazionalizzazione parallela”
degli ebrei e degli altri italiani, come dirà Arnaldo Momigliano in una
pagina famosa del 1933: “la formazione della coscienza nazionale
italiana negli ebrei è parallela alla formazione della coscienza
nazionale nei piemontesi o nei napoletani o nei siciliani: è un momento
dello stesso percorso e vale a caratterizzarlo”. Molteplici e
complesse sono le origini di questo stretto intreccio tra i due
movimenti e dell’identificazione degli ebrei con lo Stato italiano. Una
di esse, la più remota e di lungo periodo, è certamente il profondo
radicamento del mondo ebraico italiano, il fatto che dall’antichità
romana in poi gli ebrei d’Italia, o almeno una gran parte di essi,
restassero “cives romani”, sia pure di seconda categoria. In una
notevole parte dell’Italia, in sostanza quella che non ricade sotto
l’orbita spagnola, gli ebrei continuano ad esser presenti nei secoli
della prima età moderna, e questo proprio nel momento in cui sono
invece stati cacciati da quasi tutti gli Stati europei ansiosi di
legittimare con l’uniformità religiosa quella politica e nazionale. Un
processo di stabilizzazione questo che si realizza in Italia, di cui in
questi secoli e ancora fino alla secolarizzazione settecentesca la
Chiesa, lungi dall’essere estranea, è parte promotrice ed integrante:
la presenza ebraica non è mai rimessa in discussione, sia pur nei
limiti di una presenza sminuita e discriminata, e a partire dal
Cinquecento rinchiusa nello spazio controllato e separato del ghetto. Un’altra
motivazione è più vicina e immediata, e risiede nella natura stessa del
Risorgimento italiano e della cultura che lo permea: lontana, almeno
nei primi decenni, dalle chiusure nazionalistiche che caratterizzano
paesi come la Francia o la Germania, aperta ad una visione più ampia e
cosmopolita, di impronta mazziniana, ostile alla Chiesa per motivi sia
politici, il suo essere ostacolo primo al processo unitario, che
ideologici, il rifiuto da parte della Chiesa della tolleranza
religiosa, della modernità, della pluralità dei culti, su cui invece si
costruisce, a partire dal 1848, la giovane nazione italiana. Per questo
l’assimilazione degli ebrei italiani in questo momento storico, fu
un’assimilazione “ad un sistema di valori, piuttosto che ad un popolo,
ad una nazione fisicamente costituita, ad una lingua”, come ben è stato
detto da Francesca Sofia. Un sistema di valori che consentiva al mondo
ebraico, intriso in questo momento di istanze liberali
universalistiche, di potersi identificare con la nazione senza dover
rinunciare ai propri valori , o almeno senza dover cedere troppo di
essi nell’incontro con l’esterno. Così, un rabbino mantovano di questi
anni, Marco Mortara, poteva nel 1873 collegare le idee di nazionalità
politica, e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo in cui ne coglieva
l’origine, alle dottrine bibliche conservate dall’ebraismo nei secoli e
alle aspirazioni messianiche del mondo ebraico. Un’intima assonanza
culturale ed ideale, insomma, fra ebrei e unità d’Italia. E dopo
il 1870 un’integrazione sostanzialmente rapida, segnata solo da pochi,
insignificanti episodi di “antisemitismo liberale”, mentre
l’antisemitismo politico prendeva piede negli altri paesi europei, in
Francia, in Germania, in Austria, ostacolando l’integrazione del mondo
ebraico. Un’assenza di antisemitismo, da parte del nuovo Stato uscito
dal Risorgimento, fondata anche nella nuova ostilità antiebraica della
Chiesa dopo la perdita dello Stato temporale, che spinge il mondo
politico italiano a stringersi a difesa delle libertà delle sue
minoranze e a caratterizzare decisamente in senso liberale la sua
politica religiosa. Questa armoniosa integrazione fra valori
ebraici e italiani che caratterizza la storia del nostro paese fra gli
ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento è destinata
tuttavia a mutare a partire dagli anni della guerra di Libia, con
l’affermarsi di un nazionalismo sempre più aggressivo. La prima guerra
mondiale e ancor più l’avvento del fascismo trasformano in profondità
la natura dello Stato risorgimentale e rimettono in discussione il
senso che gli ebrei italiani conferiscono alla loro identificazione
nazionale. Per gli ebrei italiani, si tratta ora non più di condividere
i valori e le idealità del processo di costruzione nazionale, ma di
compensare con il sangue e il patriottismo la concessione
dell’uguaglianza. Di ribadire, di fatto, l’appartenenza alla nazione,
di mostrarsi italiani. Di conseguenza, nel momento in cui per gli
italiani, e fra loro anche per gli ebrei italiani, l’adesione alla
patria si identifica ormai con quella al regime fascista, gli ebrei
italiani diventano fascisti. Come gli altri italiani, nella stessa
proporzione degli altri italiani. Certo, il quadro del consenso
ebraico al regime presenta incrinature non da poco. La prima, è
determinata dal fatto che nel 1931, all’imposizione del giuramento di
fedeltà al fascismo ai docenti universitari, ben sei dei quattordici
professori ordinari che rifiutarono il giuramento erano ebrei, una
proporzione enorme rispetto al numero degli ebrei italiani e anche
rispetto alla proporzione di ebrei fra i docenti universitari. Inoltre,
forte fu la presenza di ebrei nel movimento antifascista. Non a caso,
il primo attacco del regime agli ebrei in quanto antifascisti, ma con
una notevole enfasi sull’ebraicità, si manifestò dopo i primi arresti
di Giustizia e Libertà, nel 1934 e poi ancora nel 1935, che colpirono
moltissimi ebrei torinesi, tutti impegnati nell’attività antifascista
clandestina. E ancora, non dobbiamo dimenticare che, a rendere
difficile il rapporto tra il fascismo e l’ebraismo italiano venne nel
1937 la campagna antisionista iniziata dal regime, con
l’identificazione fra sionismo ed antifascismo, che aprì la strada a
persecuzioni e vessazioni contro il piccolo gruppo di sionisti
italiani. Ostile in egual misura all’antifascismo e al sionismo fu fra
l’altro, non possiamo tacerlo, il gruppo fascista torinese guidato da
Ettore Ovazza, il creatore del giornale ebraico fascista, La Nostra
Bandiera e l’ideatore, nel 1938, dell’attacco squadristico alla rivista
“Israel”, a Firenze. A rompere drammaticamente l’identificazione
ebraica con l’Italia fascista furono le leggi razziste del 1938, che
non rappresentarono soltanto l’inizio della persecuzione della piccola
minoranza ebraica – uno su mille – ma anche e soprattutto una rottura
fortissima nella continuità dello Stato italiano, l’introduzione, per
la prima volta nella sua sia pur breve storia, di una discriminazione
tra cittadini che segnava la fine dei principi base dello Stato nato
nel processo unitario. Le leggi razziste, insomma, portarono a
compimento quello che anche la svolta del 1925, con l’abolizione della
democrazia parlamentare, non aveva portato a termine, la distruzione
del progetto risorgimentale. “Il regime, scrive Michele Sarfatti,
incise sulla cronologia storica dell’Italia unita, determinando, dopo
la cessazione della democrazia, la cessazione dell’intera vicenda
storico-nazionale avviatasi con il Risorgimento”. Una rottura
radicale, di cui la maggior parte degli ebrei che avevano aderito al
fascismo non riuscirono allora - e come avrebbero potuto? - a cogliere
l’origine e il senso, come dimostrano, reperto straziante, le medaglie
al valor militare guadagnate nella prima guerra mondiale e i ritratti
dei caduti che molti ebrei deportati portano con sé nei campi, ora in
mostra nella vetrina dedicata agli ebrei italiani a Yad Vashem a
Gerusalemme. Ma le leggi razziste non rappresentarono la fine di
quel lungo processo iniziato con l’uguaglianza introdotta dall’esercito
napoleonico. Gli ebrei italiani furono fortemente presenti nella
Resistenza, un’adesione tanto più significativa se si pensa che essi
erano in quel momento alla macchia, braccati da nazisti e fascisti di
Salò, vittime di un processo di sterminio senza precedenti. Come non
fare il nome del più giovane partigiano d’Italia, Franco Cesana, caduto
in combattimento a quattordici anni, o quello di Emanuele Artom,
torturato ed assassinato a Torino? E come non ricordare il piccolo
gruppo di giovani unitisi alla lotta partigiana in Val d’Aosta, e poi
deportati ad Auschwitz, dopo aver deciso di autodenunciarsi ai loro
carcerieri come ebrei per sfuggire alla fucilazione immediata come
partigiani, un gruppo a cui è ora dedicata una mostra al Quirinale da
Lei, Presidente Napolitano, recentemente visitata. Fra loro, Primo
Levi, colui che più di ogni altro ha saputo nei suoi scritti ricordare
e trasmettere alle generazioni la memoria della Shoah. E quella
adesione alla Resistenza aveva forse anche il significato di riannodare
il legame interrotto con il Risorgimento, riaffermare la propria
appartenenza allo Stato italiano, contribuendo a trasformare quello
Stato e a riportarlo alle sue radici ideali. Uno spirito in cui il
richiamo al Risorgimento è intimo e stretto, certo non occasionale. Nella
nuova Italia del dopoguerra, tuttavia, non si ha l’impressione che il
senso di questa lotta, di questa adesione ad una patria rinnovata e
trasformata, sia stato recepito e compreso immediatamente, che
l’appartenenza nazionale degli ebrei abbia trovato un rapido
riconoscimento. Molte, troppe testimonianze ci riportano, dopo il 1945,
ad un’immagine del mondo ebraico italiano come sostanzialmente estraneo
alla nazione e alla sua storia, mostrando che la propaganda razzista
del 1938 aveva agito più in profondità di quanto non pensiamo, di
quanto coloro stessi che ne erano suggestionati non credessero. Certo,
il contesto culturale e politico di quegli anni, in cui il paese era
ancora percorso dai profughi, da quelle displaced persons che si
imbarcavano dall’Italia verso la terra di Israele, la stessa nascita di
una Patria degli ebrei diversa da quella italiana, a cui non pochi
ebrei italiani si volsero, e a cui tutti si ispirarono, possono aver
contribuito a questo fraintendimento. La mancata comprensione, cioè,
dello stretto nesso esistente, fin dalle origini, fra la nascita
dell’Italia unita, i suoi principi ispiratori liberali e democratici, e
la presenza di minoranze e in particolare di una minoranza piccola ma
altamente significativa quale quella ebraica. Solo dopo molti decenni,
e dopo l’inizio di una riflessione autentica sulle leggi del 1938 e sul
loro senso per l’Italia tutta, si sarebbe potuto nuovamente riconoscere
il ruolo fondante per la patria italiana di quegli ebrei che da duemila
anni di quella Italia, unita o spezzettata che fosse, sono stati parte
integrante e costitutiva, al cui patrimonio ideale e culturale hanno
dato un apporto essenziale e ininterrotto”.
Anna Foa, storica
Ucei a congresso - La relazione del Presidente
"“Il
nostro futuro, la continuità della presenza ebraica in Italia,
dipenderanno dalla capacità che dimostreremo di saper conservare la
nostra identità e confrontarci con la realtà in cui viviamo. La prima approfondita analisi dobbiamo rivolgerla verso noi stessi e verso le nostre condizioni di vita. Dobbiamo
prendere coscienza che, per la prima volta dopo due millenni, a partire
dagli anni 1945-1948, tutto l’ebraismo mondiale è entrato in una nuova
era, vive in un’altra dimensione, si è profondamente trasformato e non
può più applicare gli stessi schemi di ragionamento e le stesse
categorie del passato. Nella seconda metà del Ventesimo secolo le
condizioni delle comunità ebraiche si sono evolute verso una maggiore
libertà di vita, di espressione e di organizzazione in modo tale da
rendere superate, inutili e persino dannose tutte quelle forme di
autodifesa e di ripiegamento in se stesse che da secoli erano state
costrette ad adottare. In realtà è vero che sopravvivono ancora
forme sia palesi che subdolamente mascherate di antisemitismo, ma è
anche vero che, spesso affrontando drammatiche emigrazioni di massa,
quasi tutte le comunità ebraiche hanno abbandonato i paesi retti da
regimi totalitari, nei quali non esistevano e non esistono garanzie di
rispetto dei diritti delle minoranze e attualmente vivono in realtà più
o meno democratiche nelle quali comunque non esistono ghetti,
persecuzioni legalizzate o pogrom. Questo cambiamento delle
condizioni di vita ha prodotto un cambiamento negli ebrei stessi, che
sono diventati pienamente consapevoli dei propri diritti, hanno trovato
la forza e la determinazione per pretenderne il rispetto. E per di più
hanno sviluppato disponibilità, prontezza, capacità di comunicare e,
finalmente, di rompere la secolare spirale negativa che, partendo
dall’isolamento fisico e culturale dei ghetti, creava terreno fertile
per preconcetti, pregiudizi, diffidenze, odio, persecuzioni. Non
possiamo che provare un sentimento di ammirazione nei confronti delle
generazioni che ci hanno preceduto le quali, costrette a vivere in
società ostili ed educate al disprezzo, sono riuscite ad adattarsi, a
reagire e a sopravvivere mantenendo ben saldi i propri valori e la
propria cultura. Ma nella realtà contemporanea è importante e
urgente prendere collettivamente coscienza dei cambiamenti che sono
intervenuti e non sottovalutare che è toccato in sorte alle nostre
fortunate generazioni di assistere al crollo delle grandi dittature
persecutrici del secolo scorso e di vedere nascere sotto i propri occhi
lo Stato d’Israele. Con cautela e con prudenza ora possiamo
ampliare le nostre prospettive di vita, possiamo pianificare il futuro,
possiamo svolgere il ruolo che ci compete nell’ambito di una società di
cui siamo parte integrante. Sarebbe colpevole ignorare o non
considerare adeguatamente che pur esistendo ancora gruppi e frange
ostili, nella società abbiamo acquisito anche amici che, in diverse
occasioni, si sono dimostrati pronti a collaborare e a battersi assieme
a noi per il rispetto dei nostri diritti. Questa stessa società,
forse per la prima volta da tempo immemorabile, dimostra interesse e
desiderio di conoscenza della nostra cultura, delle nostre tradizioni e
della nostra religione, come se avesse acquisito la consapevolezza
dell’apporto fondamentale dell’ebraismo alla civiltà dell’Occidente
democratico. Da diverse parti pervengono forti e ripetuti segnali di invito a partecipare e a confrontarci. A
tale richiesta di apertura e di condivisione non è possibile né
opportuno sottrarsi e quindi nasce immediatamente l’esigenza di essere
all’altezza di questa nuova sfida attraverso l’impegno di tutti,
giovani e adulti, a svolgere ruoli attivi, a partecipare a programmi di
formazione permanente e di aggiornamento, per elevare, in maniera
costante e sistematica, il proprio livello culturale. Questa
elevazione deve riguardare la cultura in ogni suo aspetto per acquisire
un’adeguata conoscenza di noi stessi e una preparazione idonea ad
ampliare la visuale oltre i nostri confini. Nel mondo attuale le
potenzialità di qualsiasi gruppo non si misurano più solo in base alla
consistenza numerica, ma soprattutto dal livello culturale e dalla
capacità di utilizzare i mezzi più moderni di studio, di informazione e
di comunicazione. Vorremmo che si aprisse una riflessione comune
tra i consiglieri delle Comunità e i rabbini, la cui presenza e il cui
apporto è indispensabile perché sarebbe sterile, inadeguato e inutile
che i dirigenti pretendessero di parlare di ebraismo senza i loro
Maestri, come d’altra parte sarebbe impossibile per i rabbini parlare
dell’organizzazione della vita comunitaria senza la partecipazione dei
dirigenti. Questo risultato può essere conseguito valorizzando il
ruolo del rabbinato italiano, formando rabbini sempre più qualificati e
più adeguati a trovare risposte alle domande del presente, e sempre
coerenti con la tradizione italiana che nei secoli è riuscita a
combinare rigore e apertura. Per questo è necessario costruire nuove
intese con i nostri Maestri e contemporaneamente portare, con rispetto
e con intensità, alla loro attenzione i problemi che emergono dalla
nostra vita di ebrei contemporanei. Tutto ciò richiede un grande
sforzo e la ferma volontà di effettuare un allargamento dei temi e dei
campi sui quali si è concentrata l’attenzione e la ricerca nei decenni
successivi al secondo conflitto mondiale. La memoria della Shoah
da una parte e il sostegno allo Stato d’Israele dall’altra, sono stati
i catalizzatori dell’interesse e degli sforzi creativi elaborati in
questi anni. Ritengo che i tempi siano maturi per aggiungere una seria
e approfondita analisi di tutte le problematiche che riguardano le
comunità sparse nel mondo, con una particolare attenzione alle
specifiche caratteristiche di quelle italiane. Queste valutazioni
sono state il presupposto dal quale siamo partiti per adottare la
strategia dell’ultimo quadriennio, durante il quale, avendo preso
coscienza del forte calo demografico che sta riducendo drammaticamente
il numero degli iscritti alle Comunità, si è cercato di individuare i
mezzi giusti e adeguati per reagire a questa tendenza. Se volessi tentare di sintetizzare in poche parole le idee guida, la linea strategica adottata dall’Unione direi: Rompere qualsiasi forma di isolamento sia rispetto ad altre comunità, che rispetto alla società di cui facciamo parte. Rifiutare di emarginare e di essere emarginati, senza per questo accettare compromessi sui nostri principi e i nostri valori. Abbattere
barriere di separazione di qualsiasi genere, convinti che dopo aver
aperto i cancelli dei ghetti non sarebbe giusto, sano e lungimirante
richiuderci volontariamente in spazi chiusi di tipo culturale, sociale
o psicologico. In definitiva, respingere timori, paure o
diffidenze, non perché i pericoli siano magicamente scomparsi, ma
perché qualsiasi strategia basata sulla paura sarebbe, come spesso è
stata in passato, solo un incentivo a colpirci, a umiliarci, a
perseguitarci. Abbiamo ritenuto necessario, davanti a obbiettivi
così ambiziosi, ricercare ogni forma di collegamento e di
collaborazione tra le varie componenti ideologiche e tra le diverse
comunità sparse nel territorio. E’ un’esigenza imprescindibile
creare una migliore capacità di sintesi e di gestione collegiale delle
questioni più importanti, sulle quali spesso è necessario che
l’ebraismo esprima posizioni che siano state preventivamente elaborate
in maniera non frammentaria. Se la velocità di spostamento delle
persone e di trasmissione delle informazioni ha fatto nascere una
comunità internazionale in costante collegamento rispetto alla quale il
fattore della distanza fisica è quasi ininfluente, nel mondo ebraico
l’effetto è stato ancora più rilevante, perché ha definitivamente rotto
l’isolamento che in passato aveva contribuito ad accentuare le
differenze fra ebrei di origini e tradizioni diverse. Dovremmo
prendere atto che il concetto stesso di “diaspora” ha subito una
trasformazione così rilevante da costituire per gli ebrei una vera e
propria rivoluzione culturale. Infatti si è attenuata la distanza e la differenza tra Israele e Diaspora. Se
il mondo è più piccolo, se tutta l’umanità è in costante movimento, se
nessuna cultura vive più chiusa in luoghi o in ambiti circoscritti, se
l’emigrazione e la diaspora sono diventate condizioni largamente
diffuse e non sono più vissute come eventi tragici o drammatici, ma in
molti casi come sinonimi di mobilità, di modernità, di capacità di
aggiornamento culturale e di ricerca di approfondimento specialistico
nelle discipline più varie, se la diaspora è cercata e desiderata,
allora non esiste più la Diaspora, quella che gli ebrei hanno vissuto
per secoli. Riguarda da vicino gli ebrei l’idea rivoluzionaria
della Diaspora intesa come condizione se non privilegiata almeno
normale e non traumatica e, nel nostro caso specifico, tale da
modificare il rapporto con Israele. Cambia totalmente la
prospettiva se la speranza di essere “l’anno prossimo a Gerusalemme”
viene diretta verso una città simbolo, ideale, mitica, che ognuno può
immaginare diversa, seguendo la fantasia, o verso una località reale,
concreta e facilmente raggiungibile con un comodo viaggio, in poche ore. Gli
ultimi sessanta anni hanno aperto una finestra di totale libertà,
rispetto, normalità nella partecipazione alla vita politica e sociale
della nazione, creando un’occasione nuova, forse irripetibile, per
difenderci efficacemente da tutti i nostri avversari vecchi e nuovi. Solo
realizzando un ebraismo proiettato verso il futuro, protagonista
attivo, aperto e dialogante, perché stabile e sicuro di sé, dei propri
valori e della propria identità potremo esercitare le nostre facoltà e
i nostri diritti e occupare, in tutti i campi e a tutti i livelli, lo
spazio che ci spetta. Il raggiungimento di obbiettivi così
numerosi e così ambiziosi presuppone che tra le Comunità e tra le
diverse correnti di pensiero si stipuli un nuovo patto civile, sociale,
culturale e politico che preveda e regoli una vivace dialettica interna
e una fraterna unità per far fronte alle sfide future. Un futuro
che dovrà essere affrontato, come è nelle nostre migliori tradizioni,
senza idoli e senza dogmi, senza intolleranza e senza fanatismo. Gli
ebrei che hanno subito sulla propria pelle le gravi violazioni dei
diritti e i drammatici eccessi ai quali può portare qualsiasi forma di
teocrazia, sono nella posizione ideale per sostenere, sia in linea di
principio che nella vita del nostro paese, il rigoroso rispetto della
laicità dello Stato, così come è sancito nella Carta Costituzionale. Allo
stesso modo la laicità, non intesa come antitesi alla religiosità, ma
come libertà di opinione e di parola, contro qualsiasi discriminazione
o compressione dei diritti fondamentali, deve essere e rimanere una
regola fondamentale, scrupolosamente rispettata all’interno delle
nostre istituzioni, così come è sancito nelle norme contenute
nell’Intesa e nello Statuto. Questo Congresso prevede all’ordine
del giorno l’esame e l’eventuale approvazione di rilevanti modifiche
dello Statuto, alla cui stesura ha lavorato per due anni l’apposita
Commissione incaricata di predisporre un testo base. Voglio ribadire
l’intenzione, già molte volte espressa, di apportare solo innovazioni
che rispondano all’interesse generale di migliorare il collegamento fra
tutte le Comunità italiane anche attraverso l’entrata a pieno titolo
dei rispettivi presidenti nei Consigli dell’Unione, e di rendere più
moderna, efficiente e sinergica l’organizzazione del lavoro. Di
fronte a diffuse perplessità iniziali, il Consiglio assunse l’impegno
di organizzare riunioni in varie sedi per informare e discutere il
progetto con i responsabili di tutte le comunità. Assicurò altresì che
non sarebbe stato alterato il criterio di rappresentanza e i rapporti
di forza e infine che, allo scopo di evitare lacerazioni, la riforma
sarebbe stata portata avanti solo se si fosse realizzata un’ampia
condivisione e una significativa convergenza. Sono gli stessi
principi che il Consiglio decise di adottare, come ordinario metodo di
lavoro, fin dall’inizio del mandato che si sta concludendo e che
certamente non vuole disattendere proprio di fronte a un tema così
qualificante. Fin dall’inizio il Consiglio decise a larghissima
maggioranza di formare una Giunta unitaria e allargata allo scopo di
coinvolgere tutti in funzioni operative rispettando le capacità e le
attitudini di ognuno, prescindendo dagli schieramenti congressuali. Il
sistema si è rivelato efficace e lavorando insieme, è stata sanata la
drammatica spaccatura verificatasi nel corso del precedente congresso,
si sono evitate inutili dispersioni di energie ed è stato possibile
creare una squadra che non ha mai rinunciato a ricercare l’unità nella
discussione fraterna, talvolta aspra, ma sempre rivolta a cercare e
decidere insieme democraticamente, le linee guida da percorrere. L’idea
forte che il Congresso dovrebbe prendere in considerazione è la
rigorosa salvaguardia dell’identità e dell’autonomia di ogni comunità e
di ogni ebreo italiano, ma nel quadro di una dimensione nazionale che
permetta a tutti di usufruire dei servizi necessari. L’obbiettivo
è quello di rivitalizzare tutti i centri attraverso la creazione di un
nuovo organismo rappresentativo, il parlamento dell’ebraismo italiano,
che assuma le caratteristiche e le funzioni del Congresso e del
Consiglio. Il dibattito congressuale costituirà in questo processo
di formazione e di definizione un passaggio fondamentale. Fra i
numerosi temi in discussione che credo meritino un confronto attento,
voglio indicare anche i seguenti, accompagnandoli da alcune prime
indicazioni derivate dall’esperienza di questi anni di lavoro che
potranno essere integrate da interventi dei responsabili di ogni
settore. La dimensione nazionale, l’articolazione dell’ebraismo
italiano in ventuno Comunità, piccole o grandi che siano, è interesse
strategico di tutti, a cominciare dalle più grandi. Sotto questo
profilo ognuna delle Comunità, anche la più piccola, rappresenta una
realtà preziosa e insostituibile che deve essere strenuamente difesa e
tutelata. La rigorosa tutela dell’autonomia e delle identità
locali è un bene prezioso, ma non può comportare la chiusura nel
campanilismo, nel provincialismo, nell’incapacità di cooperare per
realizzare assieme grandi progetti. Ferma restando la più rigorosa
salvaguardia della tradizione storica dell’ebraismo italiano, il
pluralismo e le diverse identità in esso contenuto devono essere
riconosciute e rappresentate dalle istituzioni. Il decentramento
deve essere perseguito con decisione, concretezza e realismo a partire
dalle esperienze già acquisite e già avviate. Deve essere un programma
riempito di significati concreti, non può ridursi a uno slogan, alla
dislocazione e alla proliferazione degli organici, in base alle
preferenze e ai gusti personali dei singoli professionisti coinvolti. L’impegno
sul fronte della cultura non può risolversi nell’investire sulle
strutture di formazione e di educazione che operano sul fronte interno,
ma deve tradursi anche in progettualità proiettata verso il mondo
esterno. La cultura è il linguaggio che deve consentirci di essere
presenti in maniera efficace nella società in cui viviamo, di
testimoniare e di difendere i nostri valori. In questo senso sono state
orientate tutte le edizioni della Giornata della cultura che sono
diventate un importante appuntamento annuale per ricevere “a porte
aperte” tutta la cittadinanza nelle nostre sinagoghe, nei nostri musei
e in tutti i luoghi nei quali esistono segni della presenza ebraica
passata o presente. Il nostro impegno sul fronte della Memoria
della Shoah non deve mai perdere d’intensità. Rimane l’esigenza e il
nostro dovere verso le future generazioni di recuperare e ricostruire
la solarità della cultura ebraica, valorizzando la sua capacità
innovatrice e creativa e profondamente connessa con il senso della vita. Una
politica per i giovani non può ridursi all’organizzazione di occasioni
di incontro e di svago, ma deve creare gli strumenti per la formazione
e l’inserimento nel mondo del lavoro di ebrei italiani consapevoli e
competitivi. L’esperienza di formazione dei praticanti giornalisti in
seno alla redazione del Portale dell’ebraismo italiano, che porterà
cinque giovani appartenenti a diverse comunità a sostenere in primavera
la prova di idoneità professionale e a divenire giornalisti
professionisti, si sta rivelando positiva e merita di essere seguita
con attenzione e ripetuta. La nostra strenua difesa dei valori
rappresentati dallo Stato di Israele e della sua sicurezza non deve
ridursi alla ripetizione delle sue ragioni nell’ambito della polemica
generata dal conflitto mediorientale, ma deve spingersi fino a
dimostrare la profonda distorsione operata da coloro che interpretano e
raccontano Israele attraverso il conflitto, deve spingersi fino alla
dimostrazione che Israele rappresenta un patrimonio di esperienze, di
politica, di cultura, di scienza e di economia prezioso e
insostituibile per l’intero mondo progredito o che vuole progredire. Il
ragionamento sui criteri di ripartizione delle risorse economiche non
deve oscurare la necessità di elaborare una nuova strategia di raccolta
delle risorse. Piuttosto che accrescere la conflittualità su come
dividere una torta sempre più piccola dobbiamo accrescere la nostra
capacità di ingrandire la torta. La raccolta dell’Otto per mille è
insoddisfacente e insufficiente e il risultato denuncia una scarsa
capacità della minoranza ebraica italiana di intrattenere un dialogo
efficace con la società circostante e di testimoniare i propri valori. La
raccolta dell’Otto per mille non costituisce una rendita automatica
assicurata, ma un bene che deve essere tutelato, riconquistato di anno
in anno e per quanto possibile accresciuto. Tale tutela non può
derivare da campagne pubblicitarie che si riducono a esprimere slogan
generici, ma deve partire dalla capacità di diffondere il messaggio e
la testimonianza degli ebrei italiani. Il lavoro sull’informazione e la comunicazione ha portato alla creazione di: - una Rassegna stampa che raccoglie ogni anno circa 100 mila schede - un notiziario quotidiano, l’Unione informa, che raggiunge regolarmente circa cinquemila abbonati - un Portale per l’ebraismo italiano, Moked, che ha richiamato dalla sua fondazione oltre 200 mila visitatori unici -
un giornale dell’ebraismo italiano, Pagine Ebraiche, con una diffusione
media di 30 mila copie, che ha conquistato in un anno di vita una
notevole visibilità - un giornale dedicato ai giovanissimi,
DafDaf, un laboratorio e un punto di riferimento per coloro che
lavorano sul fronte dell’educazione, per le giovani famiglie e per i
bambini. L’impegno a rafforzare questi media non deve far
dimenticare la necessità di migliorare e intensificare la nostra
presenza sul fronte dell’emittenza radiotelevisiva e di dotare le
istituzioni dell’ebraismo italiano di un ufficio stampa e pubbliche
relazioni adeguato alle nuove strategie. Concludo con alcuni
ringraziamenti non formali, ma veramente sentiti, al Consiglio uscente
per aver sostenuto e affiancato la Giunta e il Presidente per tutta la
durata del mandato, alla Giunta che si è rivelata una vera squadra di
persone che lavorando assieme hanno consolidato stima e amicizia, ai
professionali e ai dipendenti che hanno collaborato con lealtà nella
ricerca di una sempre maggiore efficienza, ai rappresentanti di tutte
le Comunità con i quali è stato bello e stimolante costruire una rete
di collegamento. Rivolgo un affettuoso saluto a tutti dopo aver
dedicato all’Unione, nei quattro anni trascorsi, tempo e lavoro al
meglio e nei limiti delle mie capacità e sono consapevole del superiore
valore che mi è stato da voi concesso conferendomi l’onore di
rappresentare l’Ebraismo Italiano.
Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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