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24
dicembre 2010 - 17 Tevet
5771
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Roberto
Colombo,
rabbino
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Moshè
uscì e trovò ebrei che litigavano. Erano Datan e Aviram,
due arroganti che non ebbero fiducia in D-o neppure quando
videro scendere la manna (Rashì). Datan e Aviram, capi di
Comunità, avevano certezza solo nelle proprie forze e
capacità e per lotta di potere cercavano ognuno di far
scomparire l’altro (Elimelekh di Lizansk). Epilogo scontato: sono
scomparsi entrambi.
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Sonia
Brunetti Luzzati,
pedagogista
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“Le
parole sono delle piccole case, con cantina e solaio. Il senso
comune soggiorna a pianterreno, sempre pronto al commercio con
l’esterno, allo stesso livello di altri, con un passante che non è mai
un sognatore. Salire le scale della casa della parola significa, di
gradino in gradino, astrarre. Scendere nella cantina, significa
sognare, perdersi nei remoti corridoi di una incerta etimologia,
significa cercare nelle parole tesori introvabili. Salire e scendere,
nelle stesse parole, è la vita del poeta.” (G.Bachelard).
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Made in
Usa - Kosher Chinese on 25th
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Cosa fa un ebreo americano
la notte di Natale? Niente di più ovvio, va a cena al ristorante
cinese. Un'inveterata tradizione degli ebrei newyorkesi si è ormai
diffusa in occidente.
Quando i vicini di casa sono impegnati nel cenone del 24 dicembre, le
metropoli occidentali diventano città fantasma: strade deserte, locali
chiusi, insegne spente, silenzio totale. Le uniche isole nel silenzio
urbano del veglione sono i ristoranti cinesi. Se non sei stato invitato
a una cena di Natale, non ci sono molti altri posti in cui rimediare
una pasto caldo.
Il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Elena Kagan
(nell'immagine in basso) non sfugge alla regola: durante una recente
audizione parlamentare le è stato domandato dove avesse trascorso
l'ultima notte del 24 dicembre: “Ovvio, al cinese, come tutti gli
ebrei”.
Kosher Chinese on Christmas
è talmente popolare che il cantante statunitense Brandon Walker ci ha
realizzato anche un orecchiabile motivetto e un video spassoso che può
essere visto sul Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it
Ecco perché un tipo che è altamente probabile incontrare durante una
festività cristiana a Chinatown, Manhattan è un ebreo ashkenazita che
consuma una cena cantonese take away. È un meticciato culturale
interessante: nessuna delle tradizioni che si incontrano in questa moda
newyorkese è perduta; piuttosto esse combinandosi tra loro, danno luogo
a curiose abitudini creole, terreno del confronto culturale. È semplice
acquistare il chalav israel, il latte kasher di provenienza israeliana,
a Shangai, tanto quanto mangiare kasher in un ristorante cinese di
Londra.
E proprio a Londra, passeggiando la sera in Church road, zona nord, è
facile imbattersi in gruppi di ebrei ortodossi che festeggiano un bar
mitzvah o un matrimonio da “Kaifeng, Glatt Kosher Chinese Restaurant”,
un posto elegante e abbastanza dispendioso, molto in voga nella
comunità ebraica della capitale inglese. Funziona anche come take away:
perfino alle migliori yiddish mame capita di avere il frigorifero
vuoto, e un cartoncino di spaghetti di soia da asporto è sempre una
buona soluzione per soddisfare una famiglia affamata.
Kaifeng è anche il nome di una città cinese – uno dei massimi porti
fluviali della via della seta. Nel nono secolo era uno dei centri
abitati più grandi del mondo. Vi risiedeva una numerosa comunità
ebraica, citata anche nei diari di Marco Polo, il quale si stupì di
incontrare degli ebrei in mezzo alla Manchuria nel 1286. Sprovveduto!
La globalizzazione era cominciata già da un pezzo.
Anche gli ebrei, dunque, hanno le loro tradizioni natalizie. Non
disperino dunque tutti i bambini i cui amichetti delle scuole pubbliche
ricevono i regali da Babbo Natale. Non tanto perché loro in cambio
avranno una cena cinese, quanto perché gli ebrei non sono più soli:
anche i loro compagni con gli occhi a mandorla non festeggiano il
Natale.
Proprio il loro comune non essere cristiani – sostengono i sociologi
che si sono occupati dell'argomento – è stato il fattore che ha
determinato l'avvicinamento tra gli immigrati ebrei in America e quelli
cinesi. Negli anni settanta e ottanta dell'Ottocento, a New York,
mentre arrivavano flussi migratori ingenti dalle comunità ebraiche
europee, si diffondevano i ristoranti cinesi. Con l'arrivo del
ventesimo secolo, gli immigrati ebrei di seconda generazione iniziavano
ad aprirsi alla società esterna: uno dei gruppi con cui ebbero più
facilità a stabilire rapporti furono proprio i cinesi. Anch'essi una
minoranza, per lo più povera, spesso oggetto di intolleranza da parte
dei bianchi, trovarono velocemente una buona intesa con gli ebrei più
aperti. Mangiare cibo cinese divenne una moda: era un'abitudine molto
urbana e sofisticata, ma allo stesso tempo economica. Per molti assunse
il significato di trasgressione, di emancipazione dal provincialismo
delle famiglie ebraico-contadine della Russia zarista. Nacque il detto
'safe treyf', non kasher ma sicuro, non proprio kasher ma un po' meglio
della cucina occidentale. Quest'espressione testimonia la predilezione
della cucina cinese da parte degli ebrei. In un romanzo di Herman Wouk,
scrittore e premio Pulitzer newyorkese, il cibo cinese è la metafora
degli sforzi di una giovane attrice ebrea di assimilarsi. Così è stato
vissuta l'infedeltà alla cucina yiddish della nonna.
Oggi è addirittura il contrario. Gli ebrei americani in conflitto con
le loro radici – categoria sempre molto nutrita – non vanno al
ristorante cinese perché è una tradizione troppo ebraica: hanno
certamente ricordi infantili di pranzi di famiglia a base di riso e
soia. Il safe treyf è diventato quasi uno stereotipo dell'identità
ebraico newyorkese, anche se da quasi mezzo secolo ci sono anche molti
cinesi kasher con camerieri pechinesi che parlano un ottimo ebraico.
“Io sono ghiotto di pollo alle mandorle”, racconta Daniel, studente
ebreo della Columbia University con il gusto del pettegolezzo:
“l'ultima volta che sono andato al mio kosher chinese preferito, di
fianco mi sedeva lo scrittore Philip Roth”. “Era in dolce compagnia”.
Manuel Disegni
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Competere o collaborare?
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Il collegio docenti del mio
liceo ha scelto a larghissima maggioranza di non partecipare al
progetto di valutazione degli insegnanti. Allo stesso modo mi risulta
si siano pronunciati gli altri licei classici torinesi. Perché non
vogliamo essere valutati? Pretendiamo di fare i nostri comodi senza
controlli? Perché chi si dà da fare non deve essere distinto da chi
batte la fiacca? Non è forse giusto che il merito sia premiato?
In realtà il progetto prevede che siano sottoposti alla valutazione
solo i docenti che ne fanno richiesta (saranno davvero i più
meritevoli?), e che, indipendentemente dai risultati, sia premiato solo
il 20% di questi. Così più che distinguere il merito e stimolare la
buona volontà si rischia soprattutto di mettere gli insegnanti gli uni
contro gli altri, distruggendo quella possibilità di lavoro di squadra
e di collaborazione che finora era uno degli indiscutibili vantaggi
della nostra professione. Se questo progetto sperimentale diventasse la
prassi di tutte le scuole pubbliche, discutere con i colleghi,
confrontarsi, scambiarsi materiale didattico e idee potrebbe diventare
molto più difficile.
E le scuole ebraiche? Continueranno a collaborare tra loro come fanno
da anni e come giustamente prevede anche la mozione approvata al
congresso dell’UCEI? Troveranno sistemi per premiare il merito degli
insegnanti senza metterli gli uni conto gli altri? Potrebbero diventare
in un futuro non troppo lontano isole felici di collaborazione in un
mare di competizione? Sarebbe una sfida interessante per le nostre
comunità.
Anna
Segre, insegnante
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Mai sottovalutare il lettore (Umberto Eco e il «copiaincolla»)
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Non
possono essere definiti licenze poetiche, o vezzi stilistici, modalità
espressive bizzarre ma legittime, perché non lo sono. Meglio chiamare
le cose con il loro nome, ripetono a più riprese Howard Mittelmark e
Sandra Newman, gli autori di Come non scrivere un romanzo (Milano,
Corbaccio, 2010, pagine 224, euro 18,60); se c'è qualcosa che rallenta
il ritmo di un racconto, rende scialbo un personaggio, rende stonato un
incipit o una conclusione, toglie gusto e mordente alle pagine, questo
qualcosa si chiama «errore narrativo». Spesso solo oscuramente
percepito come tale da chi scrive, ma immediatamente registrato come
tale da chi legge, chiosano con sottile perfidia Mittelmark e Newman
nell'introduzione. Davvero utili e divertenti gli esempi di
scrittura infelice e di cose da non fare mai se si vuole evitare di
essere cestinati (regola che dovrebbe valere per gli esordienti come
per gli scrittori affermati, ma purtroppo anche nella repubblica delle
lettere spesso ci sono cittadini «più uguali degli altri»): da chi, non
sapendo descrivere una scena, si limita a un elenco del telefono di
azioni, a chi si crede Proust o Gadda, a chi plagia inconsapevolmente
film o libri più o meno famosi. Tra i 200 esempi di errori da
matita rossa e blu elencati con un pizzico di sadismo dai due editor
non c'è il «copiaincolla» non dichiarato, perché troppo ovvio per
meritare una menzione; nonostante questo, la lettura di Come non
scrivere un romanzo può comunque fornire spunti interessanti alla
recente riflessione sul plagio (o sulla «difficile arte della
copiatura», che dir si voglia) nata dalla lettera a «La Stampa» di una
lettrice, la signora Pina Pagano, che ha individuato tra le pagine de
Il cimitero di Praga di Umberto Eco brani tratti dal romanzo Da Quarto
al Volturno di Giuseppe Cesare Abba. L'errore grave, da evitare
sempre e comunque, senza se e senza ma — si ripete più volte nel libro
di Howard Mittelmark e Sandra Newman — è sottovalutare il lettore, dare
implicitamente per scontato che sia meno attrezzato culturalmente, meno
perspicace, in una parola, meno «intelligente» di noi. «Il
personaggio si chiama Giuseppe Cesare Abba e dice quello che ha
scritto» ha risposto Eco alle accuse. Chi ribatte che le cose non
stanno esattamente così («a pagina 153 non è certo Abba a parlare, ma
il protagonista del romanzo, cioè Simonini» insiste la signora Pagano)
rischia di fare la figura del pedante; la passione dell'autore per il
centone, il florilegio e il pastiche più o meno mascherato non è una
novità, come l'assunto che tutto è falsificabile e i «segni» stessi
della semiotica servono per mentire. Lo stesso celeberrimo Il nome
della rosa ne è un esempio; già negli anni Novanta, all'università di
Firenze un docente di filosofia medievale era solito assegnare agli
studenti (come può testimoniare chi scrive) il compito a casa di
rintracciare le fonti del libro, un centone di testi medievali
riassemblati sotto forma di bestseller, innescando un'appassionante (e
didatticamente efficacissima) caccia all'autore copiato, tradotto,
parafrasato, parodiato. Probabilmente è per questo che il
professor Eco ha evitato di citare le sue fonti (anche in carattere 8
in una nota sperduta a piè di pagina, o in una post fazione relegata
dopo l'indice) ne Il cimitero di Praga. L'apparente trascuratezza
nasconde una preoccupazione didattica: non vuole privare i colleghi
docenti universitari di un utile strumento di lavoro e gli studenti del
gusto di scoprire da soli le tessere del mosaico del principe dei
falsari Simonini.
Silvia Guidi, Osservatore romano, 23 dicembre 2010
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notizieflash |
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rassegna
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Incendio in Galilea - Gideon Meir ringrazia lo Stato italiano
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Un ringraziamento speciale allo Stato italiano è quello che
l’ambasciatore israeliano a Roma, Gideon Meir, ha voluto rivolgere per
il sostegno avuto nel disastroso incendio del Monte Carmelo.
L’ambasciatore ha ospitato nella sua residenza oltre 150 invitati per
il cocktail di ringraziamento e sostegno dell’iniziativa promossa dal
KKL Keren Kayemeth Leisrael, che è stata incaricata dal governo locale
di far tornare a nuova vita la vasta area danneggiata. »
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