"E’
la giustizia il più saldo appoggio, il vincolo più tenace degli uomini
costituiti in società; ella è il primo bisogno dei popoli, il primo
dovere dei re. Iddio non solleva al soglio i principi per conferire
loro soltanto il diritto di governare, ma per loro imporre altresì
l’obbligo di ben governare. Nel procacciare i sovrani l’interesse dei
popolo colla giustizia, si stabilisce il trono; senza giustizia
vacilla. Un saggio e buon re dee, qual lo dipinge il profeta, portare
il principato, la signoria sugli omeri; e forse perciò i Medi
costumavano di coronare gli omeri dei loro re e non il capo, per
indicare, che non è per la pompa e per la maestà, che son coronati i
re, ma sì per le cariche e le cure a pro dei sudditi, ch’ei debbono
addossarsi. […] Ma come sapeva l’illuminato Sovrano, che per accrescere
il bene dei popoli non basta proteggerli colla giustizia, ma conviene
istruirli puranche nelle utili discipline, così rivolse le sue
incessanti mire al perfezionamento dell’intelletto e del cuore;
imperocché se la giustizia punisce e reprime il delitto, la buona
educazione lo previene, lo allontana; e come più si dilata l’accurata
coltura e la sana morale, così meglio si assottiglia la turba dei
malfattori e la somma va decrescendo dei rancori, degli odii e delle
liti.”
(Sabbato Graziadio Treves, Rabbino Maggiore della
Comunità Israelitica di Trieste, Per le solenni esequie di S.M.I.R.
Francesco I, discorso letto la sera del 18 marzo 1835)
Gadi Luzzatto Voghera, storico
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Davar acher - Il frutto di una scelta |
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La
riflessione sull'esilio, e al rapporto sempre problematico di
"occupazione" della terra, che ne è una conseguenza, si può integrare
con quella sul linguaggio. Come noi sappiamo e ripetiamo nella nostra
memoria culturale di non essere indigeni di Eretz Yisrael, di averla
acquisita faticosamente e proprio per questo di esservi legati tanto
che la nostra identità di popolo dipende da questo rapporto, così
accade in un certo senso con la lingua. L'ebraico non è stato per
almeno due millenni il linguaggio delle comunità ebraiche sparse per il
mondo; abbiamo la certezza che non lo era nemmeno negli ultimi secoli
della residenza ebraica antica in Eretz Yisrael: per esempio le
"spiegazioni" degli aiutanti di Esdra della Legge di nuovo proclamata a
Jerushalaim, dopo il ritorno dall'esilio babilonese, erano
probabilmente già una traduzione in aramaico, dello stesso tipo prima
solo orale e poi scritto nei Targumim che il Talmud discute a lungo. Pure
l'ebraico è continuato a vivere per due millenni e mezzo non solo come
lingua liturgica ma anche come idioma dei dotti e veicolo di scambio
fra le diverse comunità. E' stato sempre tenuto vivo, in esso sono
stati composti trattati e poesie sinagogali, essa è stata studiata da
decine di generazioni che parlavano altri idiomi come un segno di
identità e un modo essenziale per accedere alla realtà dal punto di
vista ebraico: qualcosa di ben più essenziale e caratterizzante della
sopravvivenza medievale del latino. Il ritorno in Israele
produsse, com'è noto, la straordinaria impresa di Eliezer Ben Jehuda di
farne una lingua non solo viva ma anche quotidiana, adatta alla realtà
di una nazione moderna, capace di rendere tutta l'enciclopedia
contemporanea. Non è il solo caso in cui una lingua colta sia diventata
d'uso: tutto il processo di costruzione delle nazioni in Europa è
passato per processi del genere, dall'italiano "inventato" da Dante e
rimasto quasi solo scritto fino a un secolo e mezzo fa, al tedesco di
Lutero, al greco moderno - demotiki sì, cioè popolare, ma adottato da
tutta una popolazione frammentata e privata di identità linguistica
comune dal dominio turco. Potrei continuare, ma il caso
dell'ebraico è certamente più radicale, proprio perché connesso a un
grande fenomeno di immigrazione/colonizzazione, progettato da un
individuo ben preciso e formalmente deciso in funzione di una rottura
fra il popolo ritornato e la lunga parentesi dell'esilio. Senza l'opera
di Ben Yehuda, oggi gli israeliani, se pur ci fossero, parlerebbero un
po' yiddish, un po' arabo, le lingue europee per la cultura (ricordo
che ci fu un grande conflitto intorno alla lingua da usare nelle
lezioni del Technion, l'istituzione universitaria di eccellenza per la
scienza: all'inizio era il tedesco e solo dopo un duro confronto fu
adottato l'ebraico). Sembra una stranezza, ma sono fatti recenti e ben
documentati. Ed è chiaro che un'Israele senza ebraico sarebbe stato
qualcos'altro, molto meno autonoma e identificata. Ora il punto
significativo è che l'adozione dell'ebraico, come l'alyà furono decisi.
Non avvennero spontaneamente, furono il frutto di una scelta. E' un
carattere generale della storia ebraica il suo non svolgersi nei
momenti capitali "naturalmente", ma per via di decisioni, rotture,
scelte difficili. Questo è vero della nostra storia sacra (il lekh
lekha di Abramo, l'esodo dall'Egitto, l'istituzione del regno sono
alcune di queste scelte), ma è vero anche della storia profana e più
documentata, dalla resistenza all'ellenizzazione che celebriamo a
Pesach a quella al cristianesimo e poi all'Islam che è stata
determinante per il nostro destino negli ultimi venti secoli, fino
naturalmente al sionismo e alla costruzione dello stato di Israele. Questa
determinazione antica passa e permanente passa anche da sempre e
consapevolmente per il linguaggio: i nostri saggi hanno affermato che i
discendenti di Jaakov poterono uscire dall'Egitto anche perché "avevano
mantenuto nomi ebraici". Niente è più personale di un nome proprio,
sembrerebbe; ma allo stesso tempo esso è spia di una forma di vita
collettiva, di un rapporto con la realtà. Ogni linguaggio può
certamente esprimere qualunque cosa, lo si sa bene in Israele dove con
le stesse radici di trenta secoli fa si parla di fisica nucleare o di
Internet e di marketing. Ma la ricerca linguistica conferma che i
diversi linguaggi filtrano in maniera diversa la realtà,
sottolineandone caratteristiche diverse, e dunque interagendo con la
forma di vita che li esprime. L'ebraico, la sua lunga esistenza,
è anche frutto della decisione di Israele a conservarlo come un tesoro
e farlo sempre rivivere; ma Israele, la cultura ebraica, il suo modo
sottile di analizzare il mondo, la sua attenzione alle relazioni e alla
responsabilità, la sensibilità alle piccole ma decisive ambiguità del
reale e delle azioni umane, hanno certamente a che fare con la
struttura radicale dell'ebraico, con la sua scrittura consonantica, con
l'edificio complesse ed elegante dei "modi" verbali, con l'essenzialità
dei suoi tempi/aspetti, con la logica degli schemi vocalici che
modificano il senso delle radici, con una certa naturale laconicità
densa del suo stile. Voluto e conservato da Israele, l'ebraico lo
identifica e lo conserva.
Ugo
Volli
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Sorgente di vita - A New York lezione di Talmud sul treno |
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Manager, impiegati e professionisti che si incontrano ogni giorno sul treno per Manhattan:
sono i pendolari del Talmud, ebrei newyorkesi che invece di dormire o
leggere il giornale, aprono un volume del Talmud e studiano insieme. Da
Inwood fino alla Penn station, sotto la guida del rabbino Pesach
Lerner, pendolare come loro, cinquanta minuti di lezione in una
carrozza ferroviaria, sempre la stessa, adibita ad aula scolastica. »
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