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24 aprile 2011 - 20 Nisan 5771
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Benedetto Carucci Viterbi
Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino

"L'ebraismo, in tutte le sue forme e manifestazioni, ha sempre affermato un concetto di redenzione come evento che si manifesta pubblicamente, sulla scena della storia e all'interno della comunità. È un avvenimento che ha luogo nel mondo visibile e non può essere concepito senza tale apparenza visibile".
(G. Scholem) 

David
Bidussa,
storico sociale delle idee


David Bidussa
Questo 25 aprile fotografa un paese incerto senza una data per celebrare il noi e dichiarare chi è “noi”. La condizione della Resistenza è la conseguenza di una scelta e della consapevolezza di compierla. Di assumere su di sé il rischio. Una condizione che ci riporta indietro alle origini di questo nostro paese. Un paese che è stato costruito perché molti volontari, senza il fascino del soldo, “gratuitamente” hanno sentito che era giunto il loro momento, e che per dare una possibilità al futuro, occorreva esserci. La maggior parte di loro non aveva “un piano in testa”, ma sapeva ciò che non voleva più. E aveva una sola possibilità per dirlo, provarci. Noi oggi abbiamo lo stesso problema, ma a differenza di loro abbiamo una storia, abbiamo l’opportunità di ricordarla. Le date servono anche a non essere indifferenti e a riscoprire ogni volta, che ciò che si eredita dal passato deve essere riconquistato, per poterlo possedere per davvero. Anche in quel caso a fondamento sta una scelta.

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davar
Il Medio Oriente brucia e Fatah si arrocca
Dirigenza ANPIl Medio Oriente brucia, le piazze arabe insorgono contro raìs e colonnelli corrotti al potere da troppo decenni, e in Palestina che cosa succede? Fatah, lo storico partito-milizia di Yasser Arafat che governa l’Autorità nazionale palestinese da quando è stata creata, si sta arroccando. Solo così, almeno questa è la mia opinione, si spiega la richiesta delle dimissioni del premier Salam Fayyad recentemente avanzata da un gruppo di esponenti di Fatah, il partito di Abu Mazen, nonché fazione principale dell’Olp, che formalmente guida l’Anp ma di fatto ha il controllo solamente sulla Cisgiordania (nell'immagine il governo dell'Anp riunito a Ramallah).
Ed è un peccato, perché se ci sono due cose, nel grande caos mediorientale, che sembrano essere venute a galla sono proprio le seguenti. Uno: gran parte delle popolazioni arabe hanno dimostrato di non essere più disposte a tollerare regimi corrotti, illiberali, vecchi e polverosi. Due: nonostante lo stallo del processo di pace tra Stato israeliano e Anp, nonostante la debolezza di Fatah e l’avanzare di gruppi estremisti come Hamas e Jihad islamica, il primo ministro palestinese Fayyad era riuscito a fare qualcosa, facendo crescere se non altro il prodotto interno lordo della Cisgiordania anziché andare a ingrassare le casse di partiti e milizie. Ex economista della Banca mondiale, si è rimboccato le maniche, lavorando sulla creazione di istituzioni e di infrastrutture, sulla lotta alla corruzione, sull’educazione e sulla formazione del know how necessario alla creazione di posti di lavoro, sull’economia e in particolare sull’attrazione di capitali stranieri. In altre parole, su tutto quello che viene normalmente catalogato nell’insieme di nation building. Risultato? Stando alle stime del Fondo monetario internazionale, il Pil della Cisgiordania è cresciuto di nove punti percentuali nella prima metà del 2010.
Per questo si è meritato il soprannome di “Ben Gurion della Palestina”, perché in sostanza lui sta cercando di fare quello che David Ben Gurion, padre fondatore di Israele, fece negli anni Trenta e Quaranta: ossia costruire una nazione autonoma e funzionante prima di dichiarare la nascita di uno Stato. Alcuni, per utilizzare termini assai più terra terra, direbbero che è uno di quei leader che “anziché piantar grane, piantano patate.”
E pensare che la nomina di Fayyad era nata proprio da una presa di coscienza da parte di Fatah, che finalmente si era resa conto (forse con qualche lustro di ritardo) di avere un problema di credibilità.
In altre parole, da circa un decennio a questa parte, Fatah ha un problema di fiducia popolare: è vista da molti palestinesi, e a ragione, come una leadership vecchia e corrotta. Questo (ma non solo) ha permesso tra l’altro l’ascesa di Hamas, il gruppo terrorista nato da una costola dei Fratelli musulmani egiziani che controlla di fatto la Striscia di Gaza.
In un certo senso, la nomina di Fayyad è nata da un’ammissione dei propri limiti da parte di Fatah. Il primo ministro indipendente è stato nominato da Abu Mazen, un po’ per fare contenta la comunità internazionale, un po’ per combattere la corruzione dilagante, e un po’ per cominciare (finalmente!) a costruire un embrione di Stato palestinese come si deve. Partendo dalle infrastrutture, non dalla politica, né dalle milizie e dall’esercito come invece usava nel mondo arabo vecchia maniera.
Ora, Fayyad può piacere o non piacere. Alcuni nel mondo musulmano lo considerano troppo filooccidentale, cosa che può senza dubbio costituire un punto di debolezza nel momento in cui i negoziati con gli israeliani non stanno attraversando un periodo particolarmente felice. Però una cosa è certa: non è il classico raìs corrotto e attaccato alla poltrona da decenni. Lo stesso non si può dire dei molti membri di Fatah che adesso vorrebbero farlo fuori.
Il punto, del resto, non è la poltrona di Fayyad in sé. La domanda da porsi, semmai, è se l’Autorità nazionale palestinese sta cogliendo o meno i segnali che stanno arrivando dalle piazze arabe. Se hanno compreso, anche solo in parte, che gli sconvolgimenti che si sono verificati in Egitto, Libia e Algeria, i tumulti che si stanno facendo sentire in Giordania e in Yemen, non nascono dal nulla. Il paradosso non è tanto che la dirigenza palestinese resista al cambiamento (sai che novità...), quanto piuttosto che non si stia rendendo conto (o così almeno pare) che questo cambiamento ormai è divenuto inevitabile. Che, per utilizzare l’espressione terra terra menzionata sopra, la piazza araba si è stufata dei leader che “piantano grane anziché piantare patate”. Carissimi dirigenti di Fatah, non è davvero questo il momento di arroccarsi su una leadership vecchia, corrotta e polverosa.

Anna Momigliano, Pagine Ebraiche, aprile 2011

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pilpul
Davar Acher - Le due feste
Ugo VolliCapita abbastanza spesso come quest'anno che la Pasqua cristiana cada assai vicino o addirittura sia inclusa nel periodo della festa ebraica di Pesach. Ciò non fa meraviglia, dato che quella deriva da questa, sia stata l'"ultima cena" di Gesù un seder come i vangeli sinottici lasciano capire o una sua preparazione alla vigilia, come ha sostenuto di recente il papa seguendo Giovanni. Originariamente le date delle due feste coincidevano sempre, poi fra il terzo e quarto secolo la Chiesa stabilì un proprio metodo di calcolo diverso da quello ebraico e fissò la Pasqua sempre di domenica, anche per riaffermare la propria indipendenza religiosa rispetto all'ebraismo da cui divergeva. Non ho la pretesa di affrontare qui gli aspetti storici di questa vicinanza temporale, cioè da un lato il rapporto di Gesù con l'ebraismo e dall'altro i grandi lutti inflitti al popolo ebraico proprio nella ricorrenza pasquale a causa dell'accusa di deicidio - certamente infondata, come ha riconosciuto ancora lo stesso papa Benedetto XVI riprendendo una tesi conciliare, ma profondamente radicata nell'antigiudaismo dei vangeli e fonte di persecuzioni a non finire.
Voglio solo proporre una riflessione per così dire di antropologia religiosa sulla differenza fra le due feste. L'andamento passionale è simile, da una situazione di angoscia e dolore al trionfo finale. La Pasqua cristiana è però, nel suo svolgimento, soprattutto un grande funerale, la celebrazione di una vittima innocente che si risolve infine positivamente nella sua resurrezione. In Pesach l'accento è posto sulla liberazione di un popolo dalla schiavitù, non sul passato di oppressione. Nel testo dell'haggadà, il rituale della cena pasquale ebraica, si ricorda naturalmente l'aspetto doloroso di quella schiavitù, la persecuzione e l'afflizione che ne vennero, e anzi si dice che "in ogni generazione" c'è chi "si leva contro di noi per distruggerci"; ma il fuoco è sulla gratitudine e la gioia per la libertà riconquistata.
Dunque nel confronto fra le due feste si contrappone non solo un singolo di natura divina al collettivo di un popolo direttamente salvato dal Signore "senza mediatori" - tant'è vero che Mosè è clamorosamente quasi assente nella versione del racconto contenuta nell'haggadà. Ma si nota anche una scelta di tempi e di emozioni, di punti di vista assai diversi: l'accento ebraico è messo sulla festa della libertà e non sulla sofferenza dell'oppressione; i miracoli (le piaghe) sono moltiplicati dall'esegesi rabbinica fino a quasi normalizzarli. L'accento cristiano va invece sulla vittima e sulla sua resurrezione, che è il riconoscimento di uno stato divino più che un normale miracolo.
Mi sembra importante sottolineare soprattutto che Pesach non si centra affatto sulla condizione di vittima, ridotto a un elemento fra i tanti. E' importante stabilirlo perché esiste una tendenza nel Cristianesimo ma anche in certi ambienti ebraici, a valorizzare l'aspetto di "vittime innocenti" del popolo ebraico, soprattutto dopo la Shoah. L'affermazione di Papa Wojtyła per cui Auschwitz sarebbe stata "un nuovo Golgota" si incontra con quella di coloro che di fronte all'autodifesa ebraica attuale in Israele rimpiangono "l'innocente sopportazione" degli ebrei chassidici distrutti dalla Shoah. Al di là del folklore in stile "violinista sul tetto" che ha largo corso nei mass media, vi sono degli eminenti pensatori, come Joshua Leibowitz a sostenere l'aspetto positivo di essere "portati al macello come pecore". E vi è una teoria filosofica dell'ebraismo come primato dell'altro, in cui ciascuno sarebbe chiamato quasi ad annullarsi in nome di ciò.
E però "porgere l'altra guancia" non è un tema ebraico (mentre amare il prossimo come se stesso sì), dunque l'altruismo è sempre tenuto lontano dall'autonegazione e ancorato alla propria conservazione. E non solo Pesach, ma nessuna festa ebraica è la celebrazione dello statuto di vittime: non certo Channukkà o Purim, che ricordano vittorie sul genocidio, sempre mettendo in rilievo il miracolo della sopravvivenza; ma neppure le ricorrenze più tristi come Kippur o Tishà beAv (in cui si ricorda la distruzione di Gerusalemme) hanno al centro una condizione vittimaria, semmai l'analisi lucida e razionale degli errori e dei peccati commessi che giustificano la punizione.
In realtà l'ebraismo non si concentra su vittime e martiri: se al centro del racconto cristiano Gesù muore sulla croce, nel racconto ebraico è importante che Isacco non perisca ma sia salvato prima di essere immolato; la storia sacra ebraica si concentra sul superamento di prove e sull'arrivo alla terra promessa, poi sull'obbligo di mantenere la purezza religiosa; se i profeti minacciano spesso dolori e parlano di Israele come "servo sofferente", lo fanno in vista di una restaurazione messianica del regno di Israele che dovrà avvenire nel tempo e mondo e non in una condizione trascendente.
Nella storia ebraica la prima forte menzione di martiri - fedeli che muoiono per non rinnegare la fede - compare in un testo che i Saggi non vollero includere nel canone, il secondo libro dei Maccabei, peraltro tardo, risalente al primo o al secondo secolo prima della nostra era. Nel seguito della nostra storia i martiri (o piuttosto caduti per la "santificazione del Nome") non mancano, naturalmente; ma noi non li trattiamo da santi per questo, non abbiamo agiografie e martirologi, e preferiamo ricordarli per le loro altre virtù, com'è il caso di Rabbi Akivà, ucciso atrocemente dai romani, ma che è importante nel mondo ebraico soprattutto per il suo sapere e la sua autorità rabbinica.
Insomma, non vi è affatto nell'ebraismo una vocazione vittimaria (e quindi non vi è quella "religione olocaustica" che ci rinfacciano i negazionisti). L'ebraismo è fortemente legato all'idea di realizzarsi nella vita e indica come modello non la sofferenza per la fede, non l'ascetismo o il martirio, ma la "gioia" della vita buona e piena di senso vissuta secondo le sue regole. Naturalmente questo non vuol dire che non ci siano stati ebrei asceti o martiri, né cristiani interessati ad affermare i loro ideali nel mondo, anzi. Ma che, nonostante la parentela d'origine, l'orientamento antropologico fondamentale delle due religioni, in questa festa come in altre è assai diverso. Ricordarselo è la base indispensabile di ogni dialogo ben fondato.

Ugo Volli


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Sorgente di vita - Esodo, Comandamenti,
Gino Bartali e Walter Chendi

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La puntata di Sorgente di vita di oggi, domenica 24 aprile, va eccezionalmente in onda alle 0,40: in apertura le riflessioni di alcuni ebrei romani, raccolte alla vigilia di Pesach, difronte alle immagini degli sbarchi a Lampedusa e dell’esodo di  massa dalle coste africane verso l’Europa. Segue un lungo servizio sulla personale Resistenza di Gino Bartali, il campione di ciclismo, durante la Seconda guerra mondiale, attraverso il racconto del figlio Andrea e di alcuni testimoni. Oltre il mito sportivo, un ritratto diverso di Ginettaccio che, macinando chilometri in bicicletta sulle strade dell’Umbria, della Toscana e della Liguria, trasportava documenti falsi per aiutare rifugiati politici, partigiani ed ebrei nascosti per sfuggire ai nazisti. 
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